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IL TRADIMENTO PIÙ GRANDE.” ISCARIOTA” DI FRANCESCO ZARZANA. ProgettArte edizioni, 2020.

“Ho trovato una corda. La volevo robusta, forte, disumana.”

Scegliamo cosa cercare e troviamo quello che ci impegniamo a cercare.

Ce lo ricorda Francesco Zarzana, in questo suggestivo racconto (ProgettArte Edizioni, 2020), basato su fonti storiche e bibliche e sulle possibili dinamiche che possono essersi sviluppate laddove la storia indietreggia davanti al mistero, in cui il divino e l’umano si sfiorano senza mai riuscire a toccarsi veramente.

Zarzana rende possibile un incontro ravvicinato e un confronto con l’Iscariota, una delle figure più enigmatiche della storia dell’umanità, la cui ricerca della soddisfazione di un suo bisogno si rivelò una corda disumana, paralizzante e mortifera e cercare di capire questo aspetto della fragilità umana, fraterna (perché Giuda è un nostro fratello, anche se rifiutato e dimenticato) è una sfida difficile, ma necessaria, mentre “sembra quasi che Dio non voglia farsi più sentire e non voglia più bene ai suoi figli prediletti”. Zarzana ci accompagna, con la sua scrittura limpida, nel silenzio di Dio, permeandone l’intero tessuto dell’opera, ma non per farlo corrispondere al vuoto della parola quanto, piuttosto, ad un piano di confronto dal valore interrogativo, in cui la radice di ogni dialogo, incontro e situazione è il non ancora detto che attende solo di essere raggiunto. Da attento regista qual è, Zarzana lo inserisce come spazio di comunicazione più radicale, suggerendo che, per essere luogo rivelativo, necessita di un accesso più profondo, di intercettare la capacità di costruzione intorno al senso e non solo quella, più immediata, intorno alla “fame”, al “bisogno contingente”, in uno spazio creativo inatteso in cui la comprensione, lungi dall’avvenire solo su un piano intellettivo, si aprirà al possibile, al potenziale, in un processo di sintonizzazione emozionale necessario a raccogliere ed accogliere ciò che si disvela.  

Il II capitolo si apre con la pericope di Giovanni Battista che predica nel deserto e Giuda racconta la sua partecipazione “all’interramento di Giovanni.” Considero importante la scelta dell’Autore di inserire la sepoltura di Giovanni Battista in uno dei primi capitoli, quindi nella fase di apertura al nostro incontro con l’uomo che la storia ha reso l’emblema del tradimento. L’uomo dell’attesa, Giovanni Battista, viene seppellito da Giuda che, invece, non ha saputo “attendere”, ma nel significato latino di rivolgere l’animo verso chi aveva deciso di seguire. Il Battista fonda la sua vita e la sua predicazione sulla Fede e sulla fiducia in Dio. Crede in Lui in una dinamica in cui credere precede la conoscenza. Accoglie il desiderio di Dio e desidera il desiderio di Dio, ovvero è capace di desiderare il desiderio dell’Altro, quindi di riconoscerlo, pur non conoscendolo.  “Ho fede mentre cerco di capire” è il fulcro su cui si muove l’esperienza di Giovanni Battista, degli altri undici discepoli e dello stesso Autore, che esordisce scrivendo: “Mi sono proposto di cercare di capire” […] “Una bella sfida che ho accettato con me stesso” Ed ancora: “Non ho paura della morte e proprio per la mia fede.” Parole che Zarzana fa pronunciare a Giuda in quest’opera, ma che credo non possano essere riferite a lui quanto all’Autore che, in apertura del testo si affaccia a tratti, interpellandoci, chiamandoci a reagire, a non attraversare la lettura in modo passivo, ma ad accettare il rischio di lasciarci mettere in discussione, rinunciando alla tentazione del giudizio che muove sin dallo sfoglio della copertina.

“Non gli abbiamo creduto. O forse non gli abbiamo voluto credere.”

Se mettiamo a confronto le parole di Giuda con la pericope di Giovanni1: “Che cosa dobbiamo fare per operare le opere di Dio?” Rispose loro Gesù “questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”, comprendiamo quanto credere, che implica l’accogliere, sia fondamentale per poi conoscere. Il verbo credere, in quest’opera, è menzionato da Giuda solo in negativo: non lo abbiamo accolto. Forse non lo abbiamo voluto accogliere, non abbiamo voluto accogliere il suo desiderio. Ci sembra così lontano da noi Giuda, eppure quante volte non abbiamo accolto il desiderio, ovvero la tensione verso il compimento della Verità del Sé, dei nostri figli o della persona che diciamo di amare o, addirittura, il nostro desiderio? Quante volte abbiamo tradito così?

“L’ho seguito per mesi e mesi. A distanza. Era il modo più corretto per capirlo.” racconta Giuda nelle pagine del Zarzana. “Lui andava non solo ascoltato, ma anche osservato, studiato, capito”. Sono stati selezionati dall’Autore verbi che vengono declinati nell’ordine del controllo, a sottolineare la scelta di Giuda di seguire Gesù, mosso esclusivamente da una volontà (Giuda vuole un Messia politico) e da una necessità (Gesù doveva essere proclamato Re dei Giudei). Giuda segue il Maestro per capirlo, ma si tratta di un capire per valutare, piuttosto che per comprendere, fermandosi, quindi, ad un atto intellettuale che segue le leggi della logica, escludendo la riflessione dalla dimensione emotivo-spirituale, e dalla compassione, dalla capacità di decentrarsi da sé per assumere la prospettiva dell’Altro. In questo modo, Giuda si sottrae alla scoperta, alla dolorosa, ma necessaria ricerca del senso dell’agire dell’Altro. Poiché “l’altro è anche colui che a causa della sua estraneità ci indica un altrove.” 2

“Volevo proteggere il Maestro“, continua a raccontarsi Giuda e sembra non rendersi conto di voler proteggere Gesù esclusivamente in funzione del suo modo di vedere le cose, cementato da un rigido sistema culturale e da una sua circoscritta idea politica di salvezza.  Di conseguenza, questa sua volontà si rivelerà un tentativo sì di proteggere Gesù, ma dal voler essere qualcosa di diverso dal suo bisogno.

Quando Giuda va ad incontrare Gesù per chiedergli di diventare suo discepolo, Zarzana ci descrive un Maestro con gli occhi chiusi. Sottolinea per ben quattro volte questo particolare, che  contrasta fortemente con la chiamata degli altri discepoli, che lo seguirono dopo essere stati guardati. Zarzana, con questo mancato accesso allo sguardo di Gesù da parte di Giuda, mette in risalto la loro reciproca intoccabilità, ovvero l’impossibilità di far entrare in contatto il bisogno di Giuda con il desiderio di Dio. Infatti, Zarzana fa dire a Giuda: “Non mi ero mai sentito così a disagio come in quel momento”. Il disagio è l’humus su cui si manterrà viva una sottile, ma continua diffidenza nei confronti del Maestro, della Promessa e dell’Attesa, in quanto Gesù rompe l’unità tra un inizio della storia della Salvezza (che Giuda conosceva bene) e la fine, che lui faceva coincidere con una conquista politica. Ma Gesù stravolge la logica, viene a fare nuove tutte le cose e quindi viene a decostruire quell’unità, non a distruggerla, ma a decostruirla, perché la Verità si rivela essere altro. Alla Verità si arriva attraverso l’Amore, in quanto la Verità ha a che fare sempre con l’umano e “l’umano arriva dove arriva l’amore” sosteneva Italo Calvino. L’amore, non lo scontro, diventa il legame di nuova costruzione. Per questo, quando Gesù gli dice: “Giuda resta con noi” lui si blocca. Gesù gli chiede di restare nel suo desiderio e in questa esortazione c’è una richiesta di movimento, da se stesso, dal suo bisogno, dalle sue convinzioni, verso il desiderio di Dio. Molto interessante l’utilizzo di Zarzana di un verbo di stasi per orientare il movimento, evidenziando come si tratti di una richiesta di movimento interiore. Ma Giuda cosa fa? Zarzana gli fa dire: “Mi guardai attorno […] Cominciai in maniera naturale a raccontare tutto di me…” sottolineando come alla richiesta di movimento, Giuda risponda con un più acceso focus su se stesso e sulla sua vita. Infatti, quando Giuda, presentandosi a Gesù, gli dice: “Io sono un uomo colto che vuole servirti”[…]”Sono qui sperando di servirti”, non intende il servizio nel senso della “sottomissione” al suo desiderio e alla sua volontà, ma “spero di servirti” significa spero di esserti necessario, di esserti utile per uno scopo, ma a quello in particolare che Giuda credeva giusto: farlo proclamare Re dei Giudei. In Giuda c’è un’inaccessibilità ai contenuti e alla logica di Gesù a causa di una rigidità del pensiero e di una incapacità di modificare la prospettiva da cui guardare Gesù che lo ammonisce: “La tua mente è chiusa” ,“Giuda, apri i tuoi occhi e il tuo cuore.” Ma al “venite e vedrete” del Maestro, Giuda risponde restando fermo nel suo bisogno, deluso quando capisce che al Maestro “non servono le mie idee.” Manca in Giuda la capacità di accogliere l’alterità di Gesù rispetto alle sue aspettative politiche. Il sentirsi tradito da Gesù è intimamente collegato alle illusioni in cui Giuda vive, alla realtà che lo circonda e alla sua condizione di disillusione. “I giudizi di valore degli uomini sono dettati esclusivamente dai loro desideri di felicità e sono quindi un tentativo di argomentare le loro illusioni.” 3 Giuda non si concede la possibilità di trascendersi, di elaborare significati nuovi ed è quindi tragicamente esposto al suo limite. “Ho sempre sperato che cambiasse idea”, fa dire Zarzana a Giuda. “Quando ci rivolgiamo agli altri, foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione di adeguarsi al nostro stato d’animo, di ripensare quel vero che pensammo noi […]. E se la cosa sta così, il problema del comunicare con altrui, del parlare ad altrui, non è quello di dire o non dire il vero ma di operare su altrui perché operi.” 4 Giuda non ha voluto negoziare i confini delle sue idee, perché? Non era un innamorato, questo lo suggerisce Zarzana quando gli fa dire: “Le sue parole conquistano il cuore della gente..“ Il cuore della gente, non il suo! E quindi non vi è potuto essere riconoscimento e Gesù è rimasto per Giuda uno straniero. Non si attua quella che i francesi definiscono la “reconnaissance”, parola che esprime sia l’atto del riconoscere che la riconoscenza, la gratitudine legata all’essere riconosciuti. Il riconoscimento è il nucleo fondante della stessa possibilità di conoscenza. Ma Giuda non riconosce e non si sente riconosciuto nel suo bisogno. Resta, quindi, strozzato dal suo io dal carattere monadico e non si attiva il desiderio che è movimento, è spinta e messa in discussione. Gli altri undici discepoli sono, invece, innamorati, e il desiderio generato dall’amore li muove per quello che attraverso il desiderio in essi viene evocato come potenza e possibilità d’essere. Nell’innamorato il desiderio diventa il desiderio dell’Altro e quindi, in questo caso, desiderio di Dio, mentre in Giuda prende forma solo il bisogno solitario e onnipotente che pretende di realizzare in modo immediato e diretto il proprio appagamento definitivo. Il suo bisogno deve coincidere con il desiderio dell’Altro, una sorta di mimesi in cui non c’è possibilità di rapportarsi davvero all’Altro, ma in cui si celebra l’esclusivo trionfo del sé, in un territorio di conflittualità che non lascia scampo all’esclusione dell’Altro, fino alla sua distruzione. L’ esito è sempre tragico: distruttivo e autodistruttivo. “Di questo avevo bisogno. Della necessità che qualcuno costruisse dentro di me la vera immagine di Dio“ ovvero l’immagine che lui poteva sopportare come vera, senza doversi schiodare dalle sue convinzioni. La costruzione interna è un processo che implica sempre delle scelte di inclusione e di esclusione che, quando si fondano sull’esclusivo tentativo di riconoscimento delle proprie aspettative nell’altro, risultano rigide e fallaci.

“Tutti hanno tradito. Tutti abbiamo tradito.”

Ma Giuda “ha tradito” nel significato latino del verbo “tradere”, ovvero consegnare, azione che ha in sé implicito il rifiuto del desiderio di Dio, mentre i discepoli hanno tradito ciò in cui credevano, quindi “si sono traditi” e tradirsi implica manifestare ciò che si voleva tenere nascosto: la paura e la fragilità (ovvero il volto più umano dell’uomo), per impotenza, per imperfezione, per vulnerabilità; tutti aspetti umani in perenne tensione con i loro opposti. M. Nussbaum scrive: “Una parte della particolare bellezza posseduta dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità” 5. È nel riconoscimento del proprio limite che ci si può accostare al perdono, ma soprattutto ci si può perdonare e accedere ad una sorta di processo di re-figurazione del  Sé, da cui nasce nuova consapevolezza, come accade nei discepoli. In Giuda questo non succede e al tradimento consegue solo annientamento, poiché Giuda non rimodula le sue convinzioni e da questo ne consegue che la sua sofferenza è soggiogata ad una forma estrema di passività che lo fa ripiegare su di sé. Non c’è in lui alcun “reditus ad cor” (dal latino: ritorno al cuore). “Il mio pentimento è solo ed esclusivamente nei confronti del mio Maestro.” Giuda quindi non si pente del tutto, e il suo pentimento è solo relativo al suo Maestro, ovvero alla sua idea del Maestro, ma che non corrisponde alla Verità di Gesù. Infatti, quando pensa ad un’alternativa al suicidio, il Giuda di Zarzana si dice: “Penso che tornare a casa sarebbe per me una buona soluzione”, evidenziando l’incapacità di Giuda di contrapporre al bisogno il desiderio, ma una soluzione. E soluzione diventa per lui morire, forse per continuare a seguire il Maestro nell’ultima, deformante interpretazione della morte di Gesù. Giuda resta ottuso, l’anima seduta.

Dio ha creato l’uomo libero con un pensiero libero; libero di scegliere il bene e il male. Giuda non era predestinato al tradimento. Altrimenti saremmo tutti schiavi di Dio. Dio non si è servito di lui, ma sapeva, invece, cosa avrebbe fatto, sin dall’inizio dei tempi. Giuda è rimasto fermo nella sua corporeità, non elevandosi alla grandezza dello spirito. Orfano di una conoscenza superiore, a causa della sua superficialità, abbandona Gesù perché non ha risposto ai suoi bisogni. Si ribella a ciò che non capisce. C’è tanta umanità nella figura di Giuda che si perde, che non riesce a sollevare lo spirito verso il divino. Gli manca la necessità di andare oltre. La religione è, in fondo, un’espressione di coraggio. Ci vuole molto coraggio per avvicinarsi all’idea di Dio, comporta un’ attenzione sempre viva alla parte spirituale.

C’è molto mistero intorno alla morte di Giuda, probabilmente perché lui muore già quando decide di consegnare il Maestro, tradendo la parte divina di Gesù che rifiuta. È in quel momento che Giuda uccide la sua spiritualità, la sua parte nobile. Il primo atto di morte è il rifiuto della resurrezione dello spirito. Il peccato di Giuda, in fondo, forse consiste proprio nell’aver tradito la parte spirituale del proprio Sé. Il diavolo ha rinunciato allo spirito. È il tradimento più grande.

Ho terminato ormai da alcuni giorni la lettura di “Iscariota” di Francesco Zarzana, ma lo trattengo ancora sulla mia scrivania. Credo che ci resterà per molto. A ricordarmi che il bisogno può uccidere il Desiderio, inteso come tensione verso il compimento della Verità del proprio Sé, che è sempre tensione verso il Bene, ed è tensione che spinge per il nostro Bene. Cercare di capire qual è la strada per arrivarci è difficile, ma “le onde si tuffano contro le rocce e ci rimbalzano quasi respinte. Ma poi ci riprovano. Ci riprovano sempre. Eternamente.”

“Abbiamo mai davvero chiesto aiuto a Dio?”

di Gabriella Grande

1 Gv 6, 28-30

2 G. Dardes-I. Punzi, Dov’è tuo fratello?, pp. 15-16

3 S. Freud. Il disagio della civiltà (1929) in Opere, vol. 10 cit pag. 629

4 B. Croce, Etica e politica, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994, pp. 46-47

5 M. Nussbaum. La fragilità del bene, 2011

“Iscariota” di Francesco Zarzana, ProgettArte Edizioni, 2020
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“LA POESIA È UN DESTINO” – Intervista a Andrea Bassani

Il poeta Andrea Bassani pubblica nel 2016 il poema Lechitiel (Terra d’Ulivi edizioni). Una sua silloge tratta da Lechitiel è pubblicata e recensita dalla poetessa Maria Grazia Calandrone sulla rivista internazionale “Poesia” del Febbraio 2016, n°312(1). Per il suo poema riceve una  lettera di critica positiva dal Cardinale Gianfranco Ravasi e la segnalazione di Franco Manzoni sul Corriere della Sera, inserto “La lettura” n°275, del 5/03/2017 (2). Riceve, inoltre,  una critica alla poetica da Bernard Tiburce, bibliotecario del Centro Pompidou di Parigi(3). Parallelo e altrettanto vissuto come espressione poetica è il suo percorso pittorico.

11235274_1408421269483829_2128664420743976431_n1. L’armonia che conferisce musicalità alle tue poesie nasce da un ordine che si è stabilito nel tempo o da un disordine  che è stato illuminato?

C’è un disordine che riordino. Se è vero che scrivere è mettere in ordine, per me scrivere è ordinare un disordine interiore. O meglio, più che di un disordine si tratta di un’insofferenza che tenta di portare caos ed io intervengo con la poesia e la ordino, la metto in riga.

2. Se scrivere, per te, “è mettere in ordine”, disegnare cos’è?

Disegnare è lasciarsi mettere in ordine. Io disegno come scrivo, per me non c’è differenza. Il disegno, infatti,  nasce da un verso che non arriva. Ho la penna sul foglio in attesa di un verso e, invece,  arriva una linea, poi due, che diventano tre, che diventano un disegno, ma lo stato di coscienza o di non coscienza di quando disegno è pressappoco simile a quello di quando scrivo:  io vado in una forma di assenza, diversa da quella della poesia scritta, in quanto benefica, totalmente benefica. Il disegno mi scarica, mi rilassa e in qualche modo mi cura. Anche la poesia mi cura, ma è qualcosa che vivo con una maggiore violenza, perché è un parto che richiede più forze, più energia, più sofferenza ed è anche qualcosa che, quando se ne va, quando esce dal mio corpo, dalle mie dita, mi lascia sfinito, spossato, stremato come se avessi appena corso la maratona della sete. Questo non accade con il disegno. Però sia nel tempo del disegno che in quello dello scrivere – o sarebbe meglio dire nel non-tempo del disegno e nel non-tempo dello scrivere –  io vivo sempre il tutto con lo stesso fine: per me è fare poesia, è esprimere un messaggio poetico. Nel disegno quindi non c’è nessuna ambizione tecnica, nessuna ambizione pittorica, il fine è sempre lo stesso con l’unica differenza che  invece di scrivere parole, traccio linee.

La ricerca dell’essenzialità è un percorso poetico che prosegue nel disegno.

Ed è una ricerca consapevole, voluta?

Non è che la stia facendo in maniera consapevole, sta accadendo. Le cose accadono. Io sono sempre stato vittima degli avvenimenti. Sono stato travolto dalla poesia, dalla ricerca, dalla spiritualità, dalla fede. Non ho cercato niente di quello che ho, di quello che ho incontrato. Chi cerca non trova. Bisogna rimanere svegli, attenti, e aspettare. Le cose se devono accadere, accadono, ti piovono in testa. La poesia non è una cosa che ottieni, la poesia è un destino, è una cosa che accade. Ti capita la poesia.

23. Attraverso l’arte e la sua astrazione è possibile arrivare a comprendere qualcosa che esiste ma non è rivelato?

Sì, assolutamente! L’artista è sempre un canale. È artefice incosciente ed esecutore. Impugno la penna e sono impugnato. C’è un lungo braccio che comincia dal nulla  e tende verso l’infinito ed io sono una porzione di questo braccio, ma non sono io che lo muovo. Non ho volontà di movimento nell’arte né di decisione, eseguo un movimento che nasce da prima di me e non so dove andrà a terminare, un po’ come l’onda in mezzo al mare che non sa da chi è spinta e non sa dove andrà a morire.

4. Perché hai scelto di disegnare con una penna, piuttosto che con pennelli o art pen?

Utilizzo lo stesso strumento per la scrittura in versi e per il disegno, perché il fine  è esprimere un messaggio poetico. Passare a art pen o pennelli nel disegno vorrebbe dire rinunciare a questo messaggio per pormi con ambizione pittorica. Ma io non voglio esprimere la pittura: voglio esprimere la poesia. Il mio disegno è come la canzone per Leo Ferré, che non aveva ambizioni canore. A lui non  importava la tecnica, non era il canto che gli interessava. Usava la voce come una penna, cantava la poesia e  per cantare la poesia, per scriverla, per disegnarla, affinché  la poesia si lasci afferrare, è necessario rimanere poveri.

95. “De la musique avant toute chose”, scrive Verlaine in Art poétique. A diciannove anni hai costituito una blues band del quale eri il  cantante, i tuoi versi hanno una meravigliosa musicalità, e il tuo sito www.andrea-bassani.com  si apre con il brano “L’uomo che ascoltava la malinconia”, composto da te. Che cos’è la musica per te?

La musica è per me esattamente ciò che intendeva Verlaine. Non la musica che esce dal violino o dal pianoforte, ma la musica che viene tradotta con il violino, con il pianoforte, con la voce, con la scultura, con la pittura, con la poesia. La musica è l’ispirazione, una voce insonora che non si ascolta, che non giunge all’orecchio, ma che si sente con qualcosa di noi, con qualche antenna interiore di cui disponiamo e che poi traduciamo in altro, in arte, in note se non in parole, se non in tele, o incisioni, o disegni. L’ispirazione poetica è questa musica, è la stessa creatura. Per me fare poesia è seguire la musica. Quindi la musica viene prima di tutto, perché la musica è la radice, la genesi, la madre di tutte le arti, ma  questa musica: una musica che non ha né forma , né colore, né suono.

6. In Lechitiel canti la bellezza, ma  qual è la tua vera musa?5 - Copia

La mia vera musa non è la bellezza. La bellezza è la mia antagonista, la mia grande nemica. La mia musa è la musica, la musica di cui abbiamo appena parlato e che abbiamo chiamato “musica” perché  noi abbiamo bisogno di dare nomi alle cose. E così chiamiamo Dio, chiamiamo il vento, il fuoco, chiamiamo la musica, chiamiamo la poesia, ma chissà chi c’è dietro questi nomi! Forse chiamiamo sempre la stessa cosa con nomi diversi. Io penso che la mia musa, qualunque sia, qualunque nome realmente abbia, provenga dalla dimensione da cui giunge quella musica di cui abbiamo parlato. È questo il fascino della poesia: non conoscere il segreto di chi si nasconde dietro le parole, dietro i nomi.

7. Nel “Cantico della bellezza” un verso recita: “è la bellezza la regina del mondo./ Tutto il resto sono schiavi che le corrono incontro/ e si buttano supini ai suoi piedi/ pregandola perché li calpesti almeno una volta.” (da Lechitiel, Terra d’ulivi edizioni – “Cantico della bellezza” –  pag. 108). Cosa significa per te contemplare una bellezza fisica e cosa, invece, contemplare un’opera d’arte?

È totalmente diverso. La bellezza in movimento, quella fisica,  è una bellezza che assume un valore straordinario  proprio nel suo essere in movimento, nel suo essere viva e quindi sfuggevole. Ha gambe per scappare, per allontanarsi, ha mente per pensare, ha voce per rifiutarti,  e quindi è una bellezza che passa e scompare  e proprio per questo assume un valore inestimabile, straordinario, prezioso. La bellezza di un’opera d’arte è statica, provoca meno dolore nell’esteta perché  è accessibile quando e come l’esteta voglia. Io posso andare agli Uffizi, prendere  una sedia e stare un’ora davanti alla Venere del Botticelli. Che cosa c’è di più bello della Venere del Botticelli? Niente! Però io ho accesso a quella bellezza quando  e come voglio. La bellezza di una donna  – o per te di un uomo – invece passa e se ne va e scomparendo crea un dolore misterioso,   che non riusciamo a gestire, che muove tante altre cose dentro di noi  e per questo è insopportabile. La bellezza è insopportabile, è offensiva.

Perché offensiva?

È offensiva perché genera la bruttezza, genera la non bellezza, crea distanza, snobba, passa oltre, calpesta. Non ha pietà la bellezza, non ha umanità. La bellezza è lilitiana, è lunare, è collegata ad una figura apparentemente angelica, ma ha un animo diabolico, nasconde un mostro. Bisogna fare molta attenzione alla bellezza. molta attenzione.

Tu insegui ancora la bellezza?

Assolutamente no. La subisco chiaramente ancora, ma non la inseguo perché ho capito che è un’illusione. Inseguo un’altra bellezza, che non è quella estetica ma che è la bellezza interiore, la bellezza del mistero, la bellezza della magia, la bellezza della saggezza, la bellezza della sensibilità,  la bellezza della carità, la bellezza della misericordia, la bellezza della compassione. Queste sono le bellezze che inseguo ora.

Andrea Bassani_438. Se in questo momento io ti dicessi: “Guardami” ?

Mi viene in mente un mio disegno. Lo sto vedendo ora, nella mente.

È di  fortissimo impatto emotivo l’ “incontro” con quel disegno!…

È molto forte perché c’è quella parola “Guardami” legata al disagio immediatamente successivo alla lettura della parola del non poter guardare nessuno, perché tutte le figure hanno occhi che guardano altrove. Il disegno ti chiede di essere guardato, ma non ti guarda. È una lontananza.

E tu chiedi di essere guardato?

Io chiedo di essere amato.

39. Hai parlato di lontananza. Che cos’è, per te, la lontananza?

La lontananza è dolore, per me è stata sempre dolore. Poi c’è una vicinanza interiore nonostante la lontananza fisica: tu puoi essere lontano da qualcuno ma sentirlo dentro, sentirlo vicino. Dio è  lontano, ma al tempo stesso è dentro di te. Quindi la lontananza è un concetto probabilmente più fisico, più materiale. Quando due persone si amano sono un tutt’uno, possono essere lontane fisicamente – e questa lontananza crea dolore –  però non sono realmente  distanti. Quindi io penso che la vera lontananza sia il distacco delle anime, sia il distacco delle energie. Essere lontano da qualcuno o da qualcosa, per me, significa esservi distaccato a livello energetico.

10. Il futuro è potere divorante o attesa per te?

Quale futuro? Il futuro dell’uomo o il futuro dell’entità? Il futuro di colui che ti sta parlando o il futuro  di colui che è oltre, prima delle parole?

A te quale futuro interessa?

A me interessa il mio futuro, non quello di Andrea Bassani, perché io non sono Andrea Bassani. Andrea Bassani non esiste: è un’etichetta, è un nome, è un sacco che si svuoterà. Il futuro dell’uomo è la morte, è la distruzione. Il futuro dell’entità, dell’io, del vero io, è racchiusa nel verso:“Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno,  canto XXVI, vv. 116-120) ovvero siamo fatti per imparare l’arte dell’amare, l’arte  del vivere insieme. Bisogna  imparare questo, soprattutto. L’essenziale  è imparare ad amare. L’anima, il nostro corpo spirituale, il nostro vero io  viene nutrito dal rapporto con l’altro fondato su  uno scambio emotivo d’amore che può non consistere  necessariamente nell’ abbracciarsi, baciarsi, stare insieme e guardarsi negli occhi. La carità, la compassione, l’attenzione verso il dolore altrui, anche piangere insieme a qualcuno, sedersi accanto a un disgraziato e disperarsi con lui nell’impossibilità di aiutarlo è scambio d’amore, cioè il tentativo di creare un’unione con gli altri nell’attenzione al dolore altrui. Tutte queste cose fanno sì che io possa avere un futuro. E quando dico “io” , non sta parlando Andrea Bassani. Non parla né il poeta né l’uomo, parla qualcuno che non sono io e sono vero io.

In Lechitiel tu scrivi “Chi cerchi non è qui” (LXXV, pag.90) Quel verso si riferisce 7certo ad altro, ma io lo recito per chiederti: dove sei? Dov’è quel qualcuno che parla e che – come  hai detto – non sei tu ed è il tuo “vero io”?

Sono qui, ma l’essere che fa parte di me, che avrà un futuro, un futuro perché immortale, non corrisponde alla figura di Andrea Bassani. Andrea Bassani è una figura mortale che sarà distrutta per l’eternità e questa è una consapevolezza importante, perché se noi non raggiungiamo questa consapevolezza continueremo ad identificarci con il nostro nome e cognome  e quindi ad avere davanti il traguardo unico  e comune della distruzione, della morte, della fine, del non più nulla per sempre, ma non è così. È qui che risiede il grande inganno, nell’identificarci con il nostro corpo fisico, con la nostra persona sociale, umana; nell’identificarci con il nostro sacco, con il nostro involucro piuttosto che con la sostanza. In questo modo quale prospettiva futura si ha davanti? Solo quella della morte, dell’oblio, del buio, del nulla. Abbiamo paura della fine perché  sbagliamo a identificarci. E commettiamo questo errore perché  non ci cerchiamo, perché non iniziamo un viaggio  per cercarci, per trovarci,  ma stabiliamo che noi siamo quello che vediamo nello specchio. Non è così! Ecco perché faccio queste distinzioni: una parte di me avrà un futuro, l’altra (il poeta,  Andrea Bassani, la figura sociale) non l’avrà, l’involucro morirà, sarà distrutto e quindi avrà un futuro breve, brevissimo. Noi dobbiamo pensare al futuro come alla nostra immortalità, che dipende da noi; è nelle nostre mani, perché se l’anima non viene nutrita finirà con lo spegnersi. Non dobbiamo dare cibo solo al nostro stomaco. Dentro di noi c’è qualcuno di molto più affamato.

11. Sei passato dal vivere una esistenza in alcuni momenti al limite ad una vita in 4cui ti sei posto tanti limiti. Il limite, questa linea di confine che un tempo hai più volte superato e che oggi, invece, scegli nel senso della rinuncia, cosa rappresenta per te?

Ho deciso controvoglia la limitazione. L’ho deciso come un uomo decide se essere fucilato o no. E chiaramente io ho scelto di non essere fucilato, ma questo ha comportato una serie di doveri molto impegnativi. Io credo che ogni uomo abbia un suo destino; c’è una grande strada maestra per ognuno di noi e la mia strada mi ha portato dove mi trovo adesso ed io non ho opposto resistenza,  ho accettato quello che  il destino mi ha proposto. È certo che l’evoluzione spirituale di un uomo comporta che il soggetto debba ribellarsi a se stesso. Si ingaggia  una lotta contro se stessi, l’uomo antico, l’uomo primitivo, l’uomo legato all’istinto del piacere, al cibo, al sesso, al vizio, alla lussuria si ribella all’uomo nuovo, all’uomo di luce che sta nascendo. C’è un conflitto interiore continuo  tra le nostre luci e le nostre ombre, tra i nostri demoni e i nostri  angeli e siamo un campo di battaglia, come recita un verso di Lechitiel: “E già divento campo di battaglia, guerra e pace.” (LXII, pag. 75). Per raggiungere il mio obiettivo sono costretto a pormi dei grossi limiti, dei divieti. Non ci si arriva diversamente. È necessario lasciare tutto per strada. Si arriva nudi.

12. Vivere cosa significa per te?

Vivere è aspettare. Vivere, per me, è aspettare la vita. È attraversare una morte in attesa della vita. È  un’attesa consapevole, una lucida attesa in cui io semino luce, cerco di darmi al servizio della luce. Non mi preoccupo di me, non mi interesso più di me, ma mi adopero per quello che è necessario alla luce.

13. C’è un messaggio che vorresti lasciare più di ogni altro?

Il messaggio che vorrei lasciare è questo: “Non abbiate paura di morire. La morte non esiste. Amate,  perché voi sarete per quanto avrete amato.”

Gabriella Grande

6Andrea Bassani (Bergamo, 1980). A diciannove anni, insieme a un gruppo di amici, costituisce una blues band del quale è cantante e si esibisce in locali notturni lombardi. A ventisei anni stampa la sua prima raccolta di poesie dal titolo Amore Androgeno (Edizioni d’arte Imedea). Per Alberto Casiraghy pubblica la plaquette Mare (Pulcinoelefante) con un disegno di Giacomo Pellegrini. Incontra la poetessa milanese Alda Merini, nel suo appartamento sui Navigli, alla quale sottopone i suoi scritti. Durante un secondo incontro la stessa poetessa lo invita a proseguire sulla strada della versificazione con più alte ambizioni. Nel 2007, in seguito a un’importante conversione spirituale, lascia famiglia, amici, lavoro e si trasferisce a Pistoia. Trascorre cinque anni d’inattività artistica durante i quali si dedica allo studio delle filosofie orientali e al volontariato.  Solo nel 2013, a seguito dell’incontro col prof. Ernesto Marchese, relatore di una serie di conferenze sulla poesia classica e contemporanea, ricomincia a scrivere. Il suo cantico della bellezza viene letto nelle sale affrescate del comune di Pistoia dalla compagnia teatrale “il rubino”. Una sua silloge tratta dal poema Lechitiel è pubblicata e recensita dalla poetessa Maria Grazia Calandrone sulla rivista internazionale “Poesia” del Febbraio 2016, n°312(1). Riceve due lettere di critica positiva dal Cardinale Gianfranco Ravasi (2). Riceve una critica alla poetica da Bernard Tiburce, bibliotecario del Centro Pompidou di Parigi(3). Otto inediti vengono pubblicati su Nazione Indiana(4). Pubblica nel 2016 per “Terra d’Ulivi edizioni” il poema Lechitiel. Alcune sue poesie si possono ascoltare su canali youtube. Parallelo e altrettanto vissuto come espressione poetica è il suo percorso pittorico. Nominato giurato per la prima edizione (2017) del premio di poesia Maria Maddalena Morelli “Corilla Olimpica” città di Pistoia  insieme ad Ernesto Marchese, Matteo Mazzone, Marco Marchi, Gabriella Grande, Giacomo Trinci, Antonella di Tommaso.
Attualmente vive a Pistoia.

(1https://andrea-bassani.com/category/lechitiel/recensione-di-m-g-calandrone/

(2https://andrea-bassani.com/category/archivio-stampa/

(3https://andrea-bassani.com/category/nota-critica-di-bernard-tiburce-bibliothecaire-centre-pompidou-parigi/

(4https://www.nazioneindiana.com/2016/04/14/martirio-dei-poeti/

PILLOLE DELL’INTERVISTA A ANDREA BASSANI

Aspettando l’intervista integrale al poeta Andrea Bassani, domani 23 aprile 2017, ecco qualche pillola  da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE” e, in apertura, un regalo per tutti noi 😉

Buon ascolto!

PROMO – “Lo specchio delle parole” (con il poeta Andrea Bassani)

Domenica, 23 aprile 2017, 3° appuntamento con la rubrica “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.

Incontreremo…

Scopritelo nel promo 😉

Domani, su YouTube, Pillole dell’intervista. ^_^