Non so voi, ma quando io ho un libro di poesia tra le mani e il cuore, trattengo negli occhi il titolo per tutta la durata della prima lettura del testo, per cercare di agganciare con ago e filo invisibili le maglie della “rete” che tiene insieme tutte le parole e il senso, e quel filo diventa poi per me, nelle letture successive, l’impalcatura su cui lascio asciugare le parole che, in poesia, trasudano sempre mentre si “compiono”.
Ma, questa volta, il Poeta spiazza e il titolo diventa veicolo che trasporta il lettore verso una direzione che comprenderà solo alla fine di questo viaggio poetico che si compie in una “terra” tesa tra il titolo dell’opera e l’ultima poesia che, collocata strategicamente tra l’indice e il colophon (che chiude l’opera in ultima pagina), svela dove il cammino poetico approda temporaneamente, proprio dove ha avuto inizio, dove ha sempre inizio: prima della voce.
Il titolo trattiene l’essenza dell’opera e ne svela l’origine, aprendo al lettore una porta sulla “stanza segreta” dove tutto prende forma, su quel “non luogo” pre-verbale dal suono pieno, che non passa attraverso un contenuto semantico, ma attraverso un aspetto sensoriale che anticipa la nascita della parola poetica che è, di fatto, quell’esitazione prolungata tra suono e senso secondo la definizione a me tanto cara di Paul Valery.
Il poeta Parrini accompagna con grande maestria in un percorso circolare che ha approdo nel punto di inizio dove “l’emozione sale a cercare il fiore incolto” che sboccia dai semi di una percezione ancora informe, nuova o sovrapposta. E ricorda al lettore che, in poesia, si parte sempre “per tornare a casa”, facendo riecheggiare, in questa esperienza di circolarità del percorso poetico, nel ripetersi del ritorno dalla forma pre-verbale (punto di partenza della poesia) al linguaggio poietico, le parole di T.S. Elliott: “e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il luogo per la prima volta […] dove l’ultima terra da conoscere sia quella che era il principio”.
Parrini introduce il lettore ai suoi versi con la complicità della fotografia di Michela Goretti (che lavora sul piano dell’articolazione inconscia della realtà), dialogando con lo scatto dell’artista non solo in copertina, ma ritornando a intercettare la sua proposta di “luoghi dell’inconscio” anche nella seconda e nella terza di copertina, in cui si “compie” il senso dei primi versi parriniani che il lettore incontrerà in questo viaggio e con cui traduce le tappe del percorso trasformativo reso possibile dalla poesia.
Michela Goretti. I luoghi dell’inconscio. Michela Goretti. I luoghi dell’inconscioMichela Goretti. I luoghi dell’inconscio
Dal punto di vista simbolico-figurativo, lo specchio trattenuto tra le mani che, in copertina, riflette “la pace degli alberi” (raccontata dal primo verso a pag. 13) pur nel loro intricarsi, colloca il soggetto nel luogo della creatività, rappresentato dalle radici tanto vicine al corpo. La donna dallo sguardo ingabbiato nella seconda di copertina racconta “La terra (ovvero il somatico) che aspetta dietro un cancello stretto (rimandando all’impossibilità di rappresentare, all’incapacità di comprendere alcune sensazioni)” (p.13). La mente è imprigionata mentre la memoria del corpo è libera di sentire e di registrare il vissuto. La poesia ha il potere di liberare il sé corporeo (la mente più arcaica); ha il potere di liberare dalla gabbia della non rappresentabilità. Infine, l’immagine della donna che copre il volto con un mazzo di fiori trattenuto tra le mani in terza di copertina sussurra il verso: “sulla via camminata in mille ore/ il sunto d’un dolore/ poi il mandorlo fiorito là” (p.13). Da un punto di vista simbolico, i fiori (che sembrano avere radici nel corpo, nella memoria ancestrale del soggetto fotografato come del poeta) rappresentano il lavoro trasformativo della poesia proprio su quella “terra che aspetta”.
L’attesa, che ritorna più volte nella poesia del Parrini ha bisogno di essere nominata e riconosciuta, mentre “tutto si addormenta per poi svegliarsi ancora” (p.26) e racconta la “La resurrezione di ogni giorno” che non rappresenta solo un chiaro riferimento alla vita, ma alla poesia stessa intesa come processo trasformativo e di resurrezione che ri-conduce a sé, alla propria voce e all’incontro con l’altro attraverso la parola poetica, nella sua capacità di far risuonare nel presente le parole “e dire l’amore, prima del vento/ prima della sera.” (p.22)
Il codice condiviso della poesia e della fotografia nell’opera di Parrini traduce, nelle forme armoniose di voci polisemiche, il codice nascosto della parola poietica, ovvero di una parola capace non solo di dire, ma soprattutto di agire, su chi la riceve, ad un livello più profondo, perché la parola poetica è parola del risveglio della possibilità. Parola quindi che richiede, questa volta in maniera esplicita, un ascolto polisensoriale e, di conseguenza, un’efficace messa in comunicazione con l’altro che il Poeta non identifica solo come lettore passivo, ma come interlocutore necessario, come presenza cooperante.
Lo specchio trattenuto tra le mani ha bisogno di un’immagine da riflettere per dar senso alla funzione per cui esiste, la gabbia ha bisogno che un altro la apra perché se ne possa liberare il contenuto e i fiori hanno bisogno che ci sia qualcuno o qualcosa che se ne prenda cura per non appassire. I luoghi dell’inconscio raccontati da Michela Goretti hanno bisogno dell’altro, fondamentale per il compiersi, e per il dare forma a quanto esiste prima della voce. Quell’altro che Parrini chiama alla condivisione: “Alla mia sera aggiungi la tua/ al mio dolore il tuo.” (p.16) e che considera importante al punto da riproporre lo stesso verso in un’altra poesia, quattro pagine più avanti (p.20): “Alla mia sera aggiungi la tua”. ”Non siamo fatti di certezze” e, per questo, abbiamo bisogno di non perderci mentre “si scompone la sera” (p.20).
“Se scuoti la tovaglia le briciole/ di pane ti indicano il cielo” (p.14) e il verso, tronco a metà pagina, diventa trampolino per le emozioni che (ci ricorda il Poeta), se liberate, nutrono lo spirito del tempo ed è questo nutrimento ad indicare il cielo inteso come crescita personale del poeta e del lettore, ovvero ad annullare il tetto della rimozione, lasciandoci sempre scoperti fino a “farsi raggio o crepa.”(p.52)
“Sia benedetto questo spazio fatto altrove” (p.52) che è la poesia, il luogo della trasformazione, della possibilità, l’autunno lucido di pioggia che canta il Parrini nel verso che porto con me in questa vita che “ha troppi incagli e mura senza appigli.” (p.26):
“Tra tutti i miei anni scelgo/ quest’autunno lucido di pioggia/ perché posso cambiarlo ancora,/ prima del buio.” (p.41)
Tutto è ancora possibile, prima del buio, prima della voce.
La mia ombra è fatta di pietre scalcinate, il mio cielo si perde stretto fra i tetti e le grondaie. non ho il senso della pianta alla finestra, m’hanno rubato il sole appena nato. E so il sale e il tempo maturo dell’estate scritto sui muri e le pareti antiche. tra tutti i miei anni scelgo quest’autunno lucido di pioggia perché posso cambiarlo ancora, prima del buio.
“Ho trovato una corda. La volevo robusta, forte, disumana.”
Scegliamo cosa cercare e troviamo quello che ci impegniamo a cercare.
Ce lo ricorda Francesco Zarzana, in questo suggestivo racconto (ProgettArte Edizioni, 2020), basato su fonti storiche e bibliche e sulle possibili dinamiche che possono essersi sviluppate laddove la storia indietreggia davanti al mistero, in cui il divino e l’umano si sfiorano senza mai riuscire a toccarsi veramente.
Zarzana rende possibile un incontro ravvicinato e un confronto con l’Iscariota, una delle figure più enigmatiche della storia dell’umanità, la cui ricerca della soddisfazione di un suo bisogno si rivelò una corda disumana, paralizzante e mortifera e cercare di capire questo aspetto della fragilità umana, fraterna (perché Giuda è un nostro fratello, anche se rifiutato e dimenticato) è una sfida difficile, ma necessaria, mentre “sembra quasi che Dio non voglia farsi più sentire e non voglia più bene ai suoi figli prediletti”. Zarzana ci accompagna, con la sua scrittura limpida, nel silenzio di Dio, permeandone l’intero tessuto dell’opera, ma non per farlo corrispondere al vuoto della parola quanto, piuttosto, ad un piano di confronto dal valore interrogativo, in cui la radice di ogni dialogo, incontro e situazione è il non ancora detto che attende solo di essere raggiunto. Da attento regista qual è, Zarzana lo inserisce come spazio di comunicazione più radicale, suggerendo che, per essere luogo rivelativo, necessita di un accesso più profondo, di intercettare la capacità di costruzione intorno al senso e non solo quella, più immediata, intorno alla “fame”, al “bisogno contingente”, in uno spazio creativo inatteso in cui la comprensione, lungi dall’avvenire solo su un piano intellettivo, si aprirà al possibile, al potenziale, in un processo di sintonizzazione emozionale necessario a raccogliere ed accogliere ciò che si disvela.
Il II capitolo si apre con la pericope di Giovanni Battista che predica nel deserto e Giuda racconta la sua partecipazione “all’interramento di Giovanni.” Considero importante la scelta dell’Autore di inserire la sepoltura di Giovanni Battista in uno dei primi capitoli, quindi nella fase di apertura al nostro incontro con l’uomo che la storia ha reso l’emblema del tradimento. L’uomo dell’attesa, Giovanni Battista, viene seppellito da Giuda che, invece, non ha saputo “attendere”, ma nel significato latino di rivolgere l’animo verso chi aveva deciso di seguire. Il Battista fonda la sua vita e la sua predicazione sulla Fede e sulla fiducia in Dio. Crede in Lui in una dinamica in cui credere precede la conoscenza. Accoglie il desiderio di Dio e desidera il desiderio di Dio, ovvero è capace di desiderare il desiderio dell’Altro, quindi di riconoscerlo, pur non conoscendolo. “Ho fede mentre cerco di capire” è il fulcro su cui si muove l’esperienza di Giovanni Battista, degli altri undici discepoli e dello stesso Autore, che esordisce scrivendo: “Mi sono proposto di cercare di capire” […] “Una bella sfida che ho accettato con me stesso” Ed ancora: “Non ho paura della morte e proprio per la mia fede.” Parole che Zarzana fa pronunciare a Giuda in quest’opera, ma che credo non possano essere riferite a lui quanto all’Autore che, in apertura del testo si affaccia a tratti, interpellandoci, chiamandoci a reagire, a non attraversare la lettura in modo passivo, ma ad accettare il rischio di lasciarci mettere in discussione, rinunciando alla tentazione del giudizio che muove sin dallo sfoglio della copertina.
“Non gli abbiamo creduto. O forse non gli abbiamo voluto credere.”
Se mettiamo a confronto le parole di Giuda con la pericope di Giovanni1: “Che cosa dobbiamo fare per operare le opere di Dio?” Rispose loro Gesù “questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”, comprendiamo quanto credere, che implica l’accogliere, sia fondamentale per poi conoscere. Il verbo credere, in quest’opera, è menzionato da Giuda solo in negativo: non lo abbiamo accolto. Forse non lo abbiamo voluto accogliere, non abbiamo voluto accogliere il suo desiderio. Ci sembra così lontano da noi Giuda, eppure quante volte non abbiamo accolto il desiderio, ovvero la tensione verso il compimento della Verità del Sé, dei nostri figli o della persona che diciamo di amare o, addirittura, il nostro desiderio? Quante volte abbiamo tradito così?
“L’ho seguito per mesi e mesi. A distanza. Era il modo più corretto per capirlo.” racconta Giuda nelle pagine del Zarzana. “Lui andava non solo ascoltato, ma anche osservato, studiato, capito”. Sono stati selezionati dall’Autore verbi che vengono declinati nell’ordine del controllo, a sottolineare la scelta di Giuda di seguire Gesù, mosso esclusivamente da una volontà (Giuda vuole un Messia politico) e da una necessità (Gesù doveva essere proclamato Re dei Giudei). Giuda segue il Maestro per capirlo, ma si tratta di un capire per valutare, piuttosto che per comprendere, fermandosi, quindi, ad un atto intellettuale che segue le leggi della logica, escludendo la riflessione dalla dimensione emotivo-spirituale, e dalla compassione, dalla capacità di decentrarsi da sé per assumere la prospettiva dell’Altro. In questo modo, Giuda si sottrae alla scoperta, alla dolorosa, ma necessaria ricerca del senso dell’agire dell’Altro. Poiché “l’altro è anche colui che a causa della sua estraneità ci indica un altrove.” 2
“Volevo proteggere il Maestro“, continua a raccontarsi Giuda e sembra non rendersi conto di voler proteggere Gesù esclusivamente in funzione del suo modo di vedere le cose, cementato da un rigido sistema culturale e da una sua circoscritta idea politica di salvezza. Di conseguenza, questa sua volontà si rivelerà un tentativo sì di proteggere Gesù, ma dal voler essere qualcosa di diverso dal suo bisogno.
Quando Giuda va ad incontrare Gesù per chiedergli di diventare suo discepolo, Zarzana ci descrive un Maestro con gli occhi chiusi. Sottolinea per ben quattro volte questo particolare, che contrasta fortemente con la chiamata degli altri discepoli, che lo seguirono dopo essere stati guardati. Zarzana, con questo mancato accesso allo sguardo di Gesù da parte di Giuda, mette in risalto la loro reciproca intoccabilità, ovvero l’impossibilità di far entrare in contatto il bisogno di Giuda con il desiderio di Dio. Infatti, Zarzana fa dire a Giuda: “Non mi ero mai sentito così a disagio come in quel momento”. Il disagio è l’humus su cui si manterrà viva una sottile, ma continua diffidenza nei confronti del Maestro, della Promessa e dell’Attesa, in quanto Gesù rompe l’unità tra un inizio della storia della Salvezza (che Giuda conosceva bene) e la fine, che lui faceva coincidere con una conquista politica. Ma Gesù stravolge la logica, viene a fare nuove tutte le cose e quindi viene a decostruire quell’unità, non a distruggerla, ma a decostruirla, perché la Verità si rivela essere altro. Alla Verità si arriva attraverso l’Amore, in quanto la Verità ha a che fare sempre con l’umano e “l’umano arriva dove arriva l’amore” sosteneva Italo Calvino. L’amore, non lo scontro, diventa il legame di nuova costruzione. Per questo, quando Gesù gli dice: “Giuda resta con noi” lui si blocca. Gesù gli chiede di restare nel suo desiderio e in questa esortazione c’è una richiesta di movimento, da se stesso, dal suo bisogno, dalle sue convinzioni, verso il desiderio di Dio. Molto interessante l’utilizzo di Zarzana di un verbo di stasi per orientare il movimento, evidenziando come si tratti di una richiesta di movimento interiore. Ma Giuda cosa fa? Zarzana gli fa dire: “Mi guardai attorno […] Cominciai in maniera naturale a raccontare tutto di me…” sottolineando come alla richiesta di movimento, Giuda risponda con un più acceso focus su se stesso e sulla sua vita. Infatti, quando Giuda, presentandosi a Gesù, gli dice: “Io sono un uomo colto che vuole servirti”[…]”Sono qui sperando di servirti”, non intende il servizio nel senso della “sottomissione” al suo desiderio e alla sua volontà, ma “spero di servirti” significa spero di esserti necessario, di esserti utile per uno scopo, ma a quello in particolare che Giuda credeva giusto: farlo proclamare Re dei Giudei. In Giuda c’è un’inaccessibilità ai contenuti e alla logica di Gesù a causa di una rigidità del pensiero e di una incapacità di modificare la prospettiva da cui guardare Gesù che lo ammonisce: “La tua mente è chiusa” ,“Giuda, apri i tuoi occhi e il tuo cuore.” Ma al “venite e vedrete” del Maestro, Giuda risponde restando fermo nel suo bisogno, deluso quando capisce che al Maestro “non servono le mie idee.” Manca in Giuda la capacità di accogliere l’alterità di Gesù rispetto alle sue aspettative politiche. Il sentirsi tradito da Gesù è intimamente collegato alle illusioni in cui Giuda vive, alla realtà che lo circonda e alla sua condizione di disillusione. “I giudizi di valore degli uomini sono dettati esclusivamente dai loro desideri di felicità e sono quindi un tentativo di argomentare le loro illusioni.” 3 Giuda non si concede la possibilità di trascendersi, di elaborare significati nuovi ed è quindi tragicamente esposto al suo limite. “Ho sempre sperato che cambiasse idea”, fa dire Zarzana a Giuda. “Quando ci rivolgiamo agli altri, foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione di adeguarsi al nostro stato d’animo, di ripensare quel vero che pensammo noi […]. E se la cosa sta così, il problema del comunicare con altrui, del parlare ad altrui, non è quello di dire o non dire il vero ma di operare su altrui perché operi.” 4 Giuda non ha voluto negoziare i confini delle sue idee, perché? Non era un innamorato, questo lo suggerisce Zarzana quando gli fa dire: “Le sue parole conquistano il cuore della gente..“ Il cuore della gente, non il suo! E quindi non vi è potuto essere riconoscimento e Gesù è rimasto per Giuda uno straniero. Non si attua quella che i francesi definiscono la “reconnaissance”, parola che esprime sia l’atto del riconoscere che la riconoscenza, la gratitudine legata all’essere riconosciuti. Il riconoscimento è il nucleo fondante della stessa possibilità di conoscenza. Ma Giuda non riconosce e non si sente riconosciuto nel suo bisogno. Resta, quindi, strozzato dal suo io dal carattere monadico e non si attiva il desiderio che è movimento, è spinta e messa in discussione. Gli altri undici discepoli sono, invece, innamorati, e il desiderio generato dall’amore li muove per quello che attraverso il desiderio in essi viene evocato come potenza e possibilità d’essere. Nell’innamorato il desiderio diventa il desiderio dell’Altro e quindi, in questo caso, desiderio di Dio, mentre in Giuda prende forma solo il bisogno solitario e onnipotente che pretende di realizzare in modo immediato e diretto il proprio appagamento definitivo. Il suo bisogno deve coincidere con il desiderio dell’Altro, una sorta di mimesi in cui non c’è possibilità di rapportarsi davvero all’Altro, ma in cui si celebra l’esclusivo trionfo del sé, in un territorio di conflittualità che non lascia scampo all’esclusione dell’Altro, fino alla sua distruzione. L’ esito è sempre tragico: distruttivo e autodistruttivo. “Di questo avevo bisogno. Della necessità che qualcuno costruisse dentro di me la vera immagine di Dio“ ovvero l’immagine che lui poteva sopportare come vera, senza doversi schiodare dalle sue convinzioni. La costruzione interna è un processo che implica sempre delle scelte di inclusione e di esclusione che, quando si fondano sull’esclusivo tentativo di riconoscimento delle proprie aspettative nell’altro, risultano rigide e fallaci.
“Tutti hanno tradito. Tutti abbiamo tradito.”
Ma Giuda “ha tradito” nel significato latino del verbo “tradere”, ovvero consegnare, azione che ha in sé implicito il rifiuto del desiderio di Dio, mentre i discepoli hanno tradito ciò in cui credevano, quindi “si sono traditi” e tradirsi implica manifestare ciò che si voleva tenere nascosto: la paura e la fragilità (ovvero il volto più umano dell’uomo), per impotenza, per imperfezione, per vulnerabilità; tutti aspetti umani in perenne tensione con i loro opposti. M. Nussbaum scrive: “Una parte della particolare bellezza posseduta dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità” 5. È nel riconoscimento del proprio limite che ci si può accostare al perdono, ma soprattutto ci si può perdonare e accedere ad una sorta di processo di re-figurazione del Sé, da cui nasce nuova consapevolezza, come accade nei discepoli. In Giuda questo non succede e al tradimento consegue solo annientamento, poiché Giuda non rimodula le sue convinzioni e da questo ne consegue che la sua sofferenza è soggiogata ad una forma estrema di passività che lo fa ripiegare su di sé. Non c’è in lui alcun “reditus ad cor” (dal latino: ritorno al cuore). “Il mio pentimento è solo ed esclusivamente nei confronti del mio Maestro.” Giuda quindi non si pente del tutto, e il suo pentimento è solo relativo al suo Maestro, ovvero alla sua idea del Maestro, ma che non corrisponde alla Verità di Gesù. Infatti, quando pensa ad un’alternativa al suicidio, il Giuda di Zarzana si dice: “Penso che tornare a casa sarebbe per me una buona soluzione”, evidenziando l’incapacità di Giuda di contrapporre al bisogno il desiderio, ma una soluzione. E soluzione diventa per lui morire, forse per continuare a seguire il Maestro nell’ultima, deformante interpretazione della morte di Gesù. Giuda resta ottuso, l’anima seduta.
Dio ha creato l’uomo libero con un pensiero libero; libero di scegliere il bene e il male. Giuda non era predestinato al tradimento. Altrimenti saremmo tutti schiavi di Dio. Dio non si è servito di lui, ma sapeva, invece, cosa avrebbe fatto, sin dall’inizio dei tempi. Giuda è rimasto fermo nella sua corporeità, non elevandosi alla grandezza dello spirito. Orfano di una conoscenza superiore, a causa della sua superficialità, abbandona Gesù perché non ha risposto ai suoi bisogni. Si ribella a ciò che non capisce. C’è tanta umanità nella figura di Giuda che si perde, che non riesce a sollevare lo spirito verso il divino. Gli manca la necessità di andare oltre. La religione è, in fondo, un’espressione di coraggio. Ci vuole molto coraggio per avvicinarsi all’idea di Dio, comporta un’ attenzione sempre viva alla parte spirituale.
C’è molto mistero intorno alla morte di Giuda, probabilmente perché lui muore già quando decide di consegnare il Maestro, tradendo la parte divina di Gesù che rifiuta. È in quel momento che Giuda uccide la sua spiritualità, la sua parte nobile. Il primo atto di morte è il rifiuto della resurrezione dello spirito. Il peccato di Giuda, in fondo, forse consiste proprio nell’aver tradito la parte spirituale del proprio Sé. Il diavolo ha rinunciato allo spirito. È il tradimento più grande.
Ho terminato ormai da alcuni giorni la lettura di “Iscariota” di Francesco Zarzana, ma lo trattengo ancora sulla mia scrivania. Credo che ci resterà per molto. A ricordarmi che il bisogno può uccidere il Desiderio, inteso come tensione verso il compimento della Verità del proprio Sé, che è sempre tensione verso il Bene, ed è tensione che spinge per il nostro Bene. Cercare di capire qual è la strada per arrivarci è difficile, ma “le onde si tuffano contro le rocce e ci rimbalzano quasi respinte. Ma poi ci riprovano. Ci riprovano sempre. Eternamente.”
“Abbiamo mai davvero chiesto aiuto a Dio?”
di Gabriella Grande
1 Gv 6, 28-30
2 G. Dardes-I. Punzi, Dov’è tuo fratello?, pp. 15-16
3 S. Freud. Il disagio della civiltà (1929) in Opere, vol. 10 cit pag. 629
4 B. Croce, Etica e politica, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994, pp. 46-47
5 M. Nussbaum. La fragilità del bene, 2011
“Iscariota” di Francesco Zarzana, ProgettArte Edizioni, 2020
Ci sono libri come attraversamenti e copertine come spazi di confine, superati i quali non ci sarà niente a proteggervi dall’alcool delle parole che iniettano versi come un veleno di verità. Continua a leggere Inferni in cerimonia di Antonino Bondì→
Avrete voglia di rileggerlo, perché quando sarete arrivati al punto dell’ultimo rigo dell’ultima pagina vi mancherete. Sì, vi mancherete, perché “Grandi momenti” di Franz Krauspenhaar ci ricorda che ci siamo persi, cedendo il diritto di vivere alla paura, alla delusione, alla rabbia. La sua scrittura brucia come una ferita segreta, che è poi ferita di tutti anche se, a volte, ne siamo a malapena consapevoli, e attraversa il vuoto in una solitudine proverbiale, imprimendo sulla pagina bianca la verità delle colpe del mondo che sembrano saltare addosso “come una muta di cani”, che apre le fauci per ricordarci che
“siamo tutti vittime di questa vita. Agnelli sacrificali di una pasqua che, a ogni insorgere, ci trova soli, incapaci di renderci felici.”
Materia narrativa incandescente frutto dell’inquietudine e della consapevolezza del poco tempo che ci rimane a disposizione, per vivere e non solo sopravvivere. Ad una lettura superficiale questo romanzo racconta la storia di Franco Scelsit, uno scrittore cinquantenne, appassionato di macchine anni ’60, che vive con la madre ed il fratello e la cui esistenza viene stravolta da un infarto che lo costringe a ripensare alla sua vita e a condividerla, per qualche tempo, con un gruppo di persone che hanno dovuto affrontare la stessa brusca frenata del cuore. È uno “scrittore vero, scrittore dentro” che, pur credendo nel suo talento, vede arrivare il riconoscimento economico solo quando, svalutandosi “ai suoi occhi”, accetterà di pubblicare per un editore da autogrill, sotto pseudonimo, thriller senza nessuna avventura del cuore, perché “il mondo della cultura è strano. Si dibatte nel nonsenso, nella incongruenza si frulla e impazzisce come maionese acida”.
Ma “Grandi Momenti” non è solo questo…è molto di più! È un infarto dell’anima, di un uomo che ama la vita disperatamente, ma che resta intrappolato nella rete della disillusione; è un urlo interiore fasciato da una forza ostinata e da una volontà percossa ma che sa e vuole resistere, ferma davanti ad un “senso di fine” che scava, come le parole che Krauspenhaar sceglie con cura, con precisione chirurgica e con la bellezza con cui solo la poesia, di cui Krauspenhaar è capace, può cucirle. È “l’urlo della nostra disperazione, del dolore che ci invade anche solo come idea”, mentre fuori e interiormente “è quasi freddo” e “il tempo è evaporato” a smaltire la vita in una realtà stretta, chiusa, impenetrabile in cui “tutto vive e tutto muore in quel momento” e in cui il nulla è in agguato come un predatore. Franco Scelsit è un reduce della guerra che è la vita, soldato che combatte da solo una guerra che per molti è finita già da un pezzo. È un manifesto vivo del furore murato in una mente lucida, tagliente e vigile di un combattente che si è imposto di rinunciare a tutto pur avendo ancora “sete” di “desiderare di desiderare” in un mondo in cui “ottieni e non desideri, o fai finta di desiderare.” Franco Scelsit vive come un equilibrista, in bilico tra due vite “una dentro e una fuori”, accucciandosi poi, per proteggersi, nel guscio della sua famiglia. Una madre apprensiva, ma dalla grande forza interiore, un fratello che ha fatto della sua creatività una bolla da cui osservare il mondo con la saggezza di chi ne ha operato un distacco volontario e Franco Scelsit : marinai, soli nel loro corpo, su una zattera di familiare sicurezza e che, stretti nell’ amore sincero che nutrono l’uno per l’altro, azzerano, anche se solo per poco, il rumore del grido delle loro ferite, per le quali non c’è balsamo. La verità della sua essenza Franco Scelsit la trattiene chiusa dentro di sé, comprimendo l’immensità del suo essere nello spazio del suo corpo di cui ne ha fatto un bozzolo: “io sono qui, dentro di me” , mentre all’esterno cede solo il suo riflesso deformato dagli specchi frammentati dell’editoria e della cultura, di “un mondo ormai infossato senza emozioni, senza vere dannazioni” in cui si può finire per pensare di non desiderare altro “che prolungare” se stessi “dentro un burrone”. Ed è la fine desiderata per sé quella a cui condannerà, invece, la sua Jaguar di cui parla come di se stesso quando si legge: “una belva così non può carcerarsi” per poi inabissarla in un burrone. Krauspenhaar ci lascerà oscillare nello spazio sospeso tra la sua ironia reattiva e una rabbia carica d’amore di un cuore che “è una belva fuggitiva” (come recita un verso di una poesia di Krauspenhaar) in esilio dalla realtà per recuperare la verità e il senso delle cose, per stanarla come una preda, la più difficile da catturare nei miraggi del deserto di una vita che attraversa, stando sempre “dietro a se stesso e ai suoi fantasmi”, ustionato dal distruttivo bozzolo di un passato da cui si lascia risucchiare e che innesca cortocircuiti di vertigini interrogative. Il rumore del passato soffoca il futuro e falcia il coraggio di andargli incontro. Il pensiero conflagra più volte nelle fiamme della visione di una lepre in cui riconosce la figura del padre, la cui morte ha segnato la fine della sua giovinezza. In queste visioni recide e riallaccia all’infinito il suo rapporto con la figura paterna, la cui presenza non si sfila dalla sua mente, indebolendola progressivamente. La scrittura insegue una mancanza e non cura il dolore di questo distacco, non restituisce quella testimonianza etica all’agire del padre, che sarebbe invece necessaria al figlio per poter finalmente assumere i suoi valori senza sentirsi in colpa e per riuscire ad interiorizzare la figura paterna come uno scudo e non come una “lepre” sfuggente, la cui immagine si associa all’angoscia di vederla scomparire da un momento all’altro. Franco Scelsit è un Orfeo che si volge indietro e non per guardare il bel volto di Euridice ma per chiedere al passato la via più giusta, una nuova possibilità, invece di restituire l’ assenza al suo posto; l’assenza deve restare alle spalle, perché avanti può esserci ancora tutto. Non c’è scampo allora per Franco Scelsit, come non ce ne fu per Orfeo? In questo caso c’è salvezza. Ha una funzione di compensazione il ritorno al passato. Costringe il futuro a rallentare, è un’operazione di scrittura che in questa “follia” dell’oscillare tra presente e passato, crea uno spazio di sospensione per il protagonista e per il lettore che indica una via di salvezza: rallentare è la salvezza, rimettendosi in ascolto del proprio ritmo interiore e non del passo della rincorsa del tempo. A suggerirlo è la musica che accompagna l’intera trama del romanzo. È la musica, consolazione e compagna fedele in queste pagine, pausa del pensiero in cui Franco Scelsit ed il lettore respirano, ad aprire la via, a rivelarci il segreto. È musica che ha la potenza di una religione, è l’entrata di una voce, l’ultima…che sembra dire: danza la vita, segui il ritmo, respira, rallenta e vivrai quei grandi momenti che aspetti, perché “alla fine, si va dove ci aspettano i sogni.”
È rosso il maglione che “veste” Else quando la incontriamo nelle prime pagine di questa famosa novella, La signorina Else, di Arthur Schnitzler: forse è un primo, destinale indizio dello schiacciante senso di colpa e di vergogna che poi la indurrà audacemente a “spogliarsi” di tutto, finanche della propria vita.
Else sceglie la morte, e così lascia interrotto il proprio monologante rovello interiore, un denso flusso di coscienza che, nello spazio di un solo giorno, trascina sogni, speranze ed illusioni verso il baratro del nulla. Else, 19 anni, bellissima, ma “tutta sola, così terribilmente sola, come nessuno può immaginare”; sconosciuta anche a se stessa, cerca in qualche modo di darsi forma e sostanza “leggendosi” attraverso gli occhi degli altri.
Di lei ci vien detto che è altera, misteriosa, demoniaca, seducente: emana una sorta di malia di cui però è del tutto inconsapevole. Nella sua giovane vita non mancano germogli di possibilità che, tuttavia, nel bel mezzo di una spensierata vacanza, verranno di colpo raggelati da una lettera della madre. Costei avanza alla figlia una proposta avvilente, umiliante: per evitare che il padre, noto avvocato, venga arrestato a seguito di una vicenda in cui è implicato, sarebbe necessario reperire una ingente somma di denaro da un ricco amico di famiglia, il mercante d’arte Dorsday, il quale è pronto a sborsare l’intera somma, a fronte di una particolare, quanto oscena, richiesta: Else si dovrà mostrare a lui totalmente nuda.
“Da lei non pretendo altro che di poter restare un quarto d’ora in ammirata contemplazione della sua bellezza”
E’ il laido ricatto del signor Dorsday. Else affonda allora nelle sabbie mobili della colpa e della vergogna. Nel tentativo di resistere, mente a se stessa, fino all’autoinganno, ma la presa di distanza difensiva dalla realtà è nient’altro che un buco nero apertosi nella coscienza, nel quale tutto precipita. Questa profonda lacerazione è innescata dall’evento choc, certo, ma essa ha anche preso lentamente forma nel corso dell’esistenza scialba e opaca che Else ha vissuto.
Nella prigione asfittica della solitudine e della incomunicabilità, senza nessuna possibilità di intimo confronto con l’altro, Else si è lasciata abbacinare dall’oscurità delle parole e delle esperienze non vissute: con questi brandelli di tessuto ha coperto, ma non vestito, la sua identità; orpelli deformanti l’hanno costretta a pensarsi e a costruirsi non dall’interno, ma dal di fuori, attraverso le superfici vuote degli sguardi e delle parole altrui, in cui lei ha cercato, come in uno specchio, un riflesso della propria immagine. Adesso sarà proprio questa immagine di sé quale lei vede rispecchiata negli occhi degli altri (“la figlia del truffatore”, “la mendicante”, “senza nessun talento”, ”la sgualdrina”, “la meschina”, “la vigliacca”) a darle il tormento e a consumarla.
Le speranze deluse, il grave senso di smarrimento, un’inquietudine che non trova pace, la solitudine sempre al proprio fianco, sono il corteo prodromico di quella morte che, alla fine, Else assumerà su di sé come estrema possibilità di vita. Una morte che lei sceglie come compagna, lasciandosi quasi dolcemente prendere per mano da essa, una morte di pietà, morte di pudore, che scioglie “da tutte le creature e da ogni tristezza”, come recita Quasimodo. Una dose letale di Veronal libererà in volo le ultime percezioni di Else, che abbandona quasi in estasi il deserto della sua vita. E mentre “vola”, … è bella Else! Bellissima.
“Prendi la lampadina ancora accesa” ed entriamo in questa prosa poetica come in un Tempio in cui il poeta Pier Damiano Ori celebra la fenomenologia del quotidiano, con la sobrietà dei filosofi, mentre aspetta. E l’attesa si consuma sulla soglia di una domanda: “È la morte che ci sta davanti? O è il futuro?”. Abbiamo poco tempo per rispondere e “nessuno ha il potere di infrangere quelle porte” mentre il tempo e il soggetto mutano continuamente, a testimoniare che “la storia è adesso”, in un presente in cui c’è tutto, ma un tutto che è “finito in un motore spento”. Lucida prosa poetica che si scrive mentre scende la notte ad azzerare tutte le immagini, lasciando solo la “vista ad occhi chiusi” e “tutta intera la paura della fine”. Però a sorprenderci, tra le rotonde e gli svincoli di questi versi, non troveremo la morte, ma il distacco e avremo freddo in questa solitudine in cui ognuno ha il suo posto, un orizzonte soggettivo e confini incerti. Ognuno ne traccia i propri, chiuso in se stesso, nella sua tempesta, e non c’è sguardo che s’incontri e si riposi nell’altro. Ad incrociarsi sono solo le paure mentre ognuno è vinto in se stesso, “fissandosi allo specchio”. E la vita è un’opera chiusa in cui accordarsi sulla fine e sull’inizio è impossibile. Ori questo lo sa, non lo dimentica mai, e decide che è possibile solo aspettare senza però aspettarsi qualcosa. È un’ attesa in cui il poeta lascia che dorma un desiderio che ci concede di intravedere in quegli spazi lasciati, di tanto in tanto, tra le parole; spazi più lunghi, pause tracciate da un pensiero zuppo di un desiderio che intasa il cuore, senza tormentarlo. È un’attesa pacata, “tenue”, priva di polemica e che richiede una “sontuosa forza d’animo” ed un posto, che, per Ori, è rappresentato dal soggiorno/salotto. Ma “i luoghi sono diversi se lo vogliamo” e per Ori, infatti, quel luogo non è più solo un posto fisico, ma uno spazio in cui lui s’infila e quasi scompare “nella giostra dei suoi pensieri”. Ed è proprio il pensiero la forza e il carburante del poeta. Il discorso poetico di Ori ci suggerisce uno stretto collegamento tra pensiero ed organi di senso. L’effetto della funzione di un organo trova il suo significato nel pensiero, che capta il senso profondo della manifestazione delle cose e degli eventi. Da qui, credo, il titolo di questa raccolta, “Occhio e orecchio”. Il poeta è “orecchio attento”, inteso come ascolto profondo della voce e del significato delle cose, mentre con l’ “occhio” della mente si apre alla visione di un mondo in cui “c’è il sole” e “un fuoco sempre acceso”. Ma Ori ci avverte che “non tutto il calore scalda davvero” ed è per questo che, mentre il “mondo apre la finestra in cerca di gelo vero” e usa il sonno come un’arma, “la finestra a tutta parete” del poeta è chiusa. Non è un riparo dal sole, ma dal “ghiaccio unito al sole”, non è un voltare le spalle al giorno, ma al vuoto…Mentre aspetta, ma cosa? La “chiave nella toppa del portone” che dischiuda quel suo mondo di solitudine, che lo faccia risvegliare, restituendogli l’impulso e i colori della giovinezza nel pensiero, colori che sono assenti ormai. Dalla sua attesa ci congeda con un saluto ed una domanda: “Sei cresciuto?”. E mentre ci interroga, ci lascia più ricchi, di versi che hanno il peso e il valore di un’eredità: “Se qualcuno ti chiama per nome, rispondi sempre”, “se no chiudi la porta e non scordarti mai”.
“Viene buio presto” ci avverte il Premio Nobel per la Letteratura 2014, Patrick Modiano, la cui scrittura è un vero e proprio atto di resistenza a qualsiasi forma di oblio, in questo romanzo in cui lancia appelli “ai margini della notte”, segnali di luce emanati dalle parole per sciogliere quel grumo di ignoto e di silenzio in cui si sono perse le tracce di “una ragazza di 15 anni, Dora Bruder, m 1,55, volto ovale, occhi castano-grigi, cappotto sportivo grigio, pullover bordeaux, gonna e cappello blu marina, scarpe sportive color marrone. Inviare eventuali informazioni ai coniugi Bruder boulevard Ornano 41, Parigi”. Da questo annuncio nella rubrica intitolata “Da ieri a oggi” di un vecchio numero di Paris-Soir del 1941, e letto da Modiano quasi 50 anni dopo, prende avvio il suo faticoso atto di investigazione privata per raccogliere le tracce residue di Dora, un’adolescente ebraica di origine francese in fuga nella Parigi dell’Occupazione, forse con l’illusione di sfuggire ad Auschwitz.
L’estrema precisione dei dettagli di quell’annuncio ossessiona l’autore, attratto dai vuoti di questa storia come da un campo magnetico il cui orlo irradia una solitudine che è un richiamo, un appello. Ben poco, però, sapremo di Dora, anche al termine di questa lunga indagine durata 8 anni e dominata dalla “vertigine” di un’inquietudine che scuote nel profondo, la fatica di un pensare che si interroga senza sosta, pur consapevole del rischio ogni volta in agguato di una mancanza di risposte e di una ricerca senza ricompense.
Patrick Modiano cerca indizi, i più lontani nel tempo, effettuando ricerche in uffici, tra documenti personali, lettere, testimonianze, registri di polizia e archivi, ma dopo anni raccoglie solo lacunose ricostruzioni. Viene a conoscenza di date, trasferimenti, domicili a cui tuttavia non corrispondono più i luoghi in cui lei ha vissuto. La narrazione non presenta una struttura lineare ma si dispiega simultaneamente su diversi piani temporali.
Dimensione storica, episodi autobiografici e riferimenti intertestuali si intrecciano. L’effetto è quello di una narrazione frammentata, un’artificiosa dispersione che è essa stessa ancora una fuga, quella dell’autore, da ogni pretesa di irrigidimento del testo in categorie definite.
Del dossier documentario sviluppato nel romanzo fanno parte anche alcune foto di Dora e della sua famiglia: Modiano non le inserisce nel testo ma preferisce restituirle fin nel dettaglio attraverso una descrizione minuziosa, come se solo le parole potessero ridare dignità a quei corpi prima annientati come esseri umani, trasformati in “Stücke” (pezzi), e poi svaniti come ombre nel fumo dei forni crematori.
Se scorrerete queste pagine cercando di sapere “chi era” Dora Bruder nella sua essenza, resterete delusi. Vi sembrerà di essere stati vittime di un inganno dell’autore, vi parrà che invece di colmare un vuoto, egli lo abbia disegnato ancora più nitidamente e giudicherete questa ossessiva ricerca, vana e sterile. Ma non è così. Modiano ci offre molto altro: riconosce e restituisce una presenza, dimostra e attesta che Dora “è stata” un essere umano, con la sua identità, dignità, umanità e con un suo segreto, “povero e prezioso segreto”, che resterà per sempre silenzioso, inattingibile. Di lei non conosceremo che il suo passaggio, intriso di “mesta tenerezza”, cosicché sembra scritto per lei il verso di Baudelaire: “Un lampo, poi la notte! – Bellezza fuggitiva” e il vuoto che lascia è ancora e di nuovo “vertigine”.
Marcelle Sauvageot ci ha lasciato in eredità questa unica opera, breve come la sua esistenza e forte come la verità che in essa si è fatta carne viva, perfetta coalescenza di vita e scrittura. Un’opera autobiografica più volte risucchiata nell’oblio e poi riemersa: un fiume carsico le cui acque hanno conosciuto le oscure profondità della solitudine, della malattia, dell’abnegazione.
Marcelle Sauvageot ha 30 anni quando, malata di tisi, è costretta al ricovero in un sanatorio. Tuttavia, il dolore più grande è dover stare lontana dall’uomo che ama più di se stessa, e a cui è ostinatamente aggrappata con un amore triste quanto disperato: lui, infatti, sta gravitando verso un’altra donna. Marcelle ha comunque bisogno di quell’uomo, quasi egli fosse un talismano, un gancio alla vita, il fulcro attorno a cui ruota la sua speranza di guarire, di vivere, di tornare nel mondo là fuori. Proprio all’amante infedele si rivolge questo monologo epistolare, ma l’interlocutore resta anonimo: ne conosciamo solo il vezzeggiativo, “cucciolo”, con cui Marcelle lo chiamava prima che lui abbracciasse una visione della vita e dell’amore opposte alla sua, ovvero il comfort di una tranquillità “borghese” in cui “vivere da mediocre per essere felice” accanto ad una donna grata e spettatrice. Marcelle è consapevole che la relazione con quest’uomo ormai si regge solo su un sogno, su un’illusione, ma preferisce ripetere a se stessa che “non bisogna muoversi“, affinché tutto resti com’è e niente cambi: questa immobilità non è tuttavia inganno, ma attiva ricerca di rifugio rassicurante, di un angolo abitabile della mente in cui il pensiero possa tenere a bada la disperazione e l’angoscia della malattia.
“Se mi ami guarirò”, “a Parigi qualcuno mi ama, tornerò”: con queste parole Marcelle nutre di giorno in giorno la sua speranza, ma intanto il freddo interiore della disillusione e della cruda verità gettano una luce impietosa sulle cose: così, sotto una cappa greve, appiccicosa di noia, malattia e disperazione, si eclissano, uno dopo l’altro, i suoi giorni. Fino a quando arriva una lettera dell’uomo che non la ama più, parole che feriscono come un coltello affilatissimo: “mi sposo….la nostra amicizia continuerà”. In questo violento tradimento dell’attesa, dolore fisico e psicologico si mescolano. La proposta umiliante di scambiare l’amore con un’amicizia consolatoria è il ciglio del precipizio che dà sul nulla, è l’irruzione della vertigine del vuoto nella coscienza. Eppure, proprio in questa resa dei conti finale comincia a profilarsi la grande forza interiore e la superiore dignità morale di Marcelle. Faccia a faccia con la vanità delle proprie attese, pur messa di fronte alla propria condanna senza appello, ella saprà rimettersi in cammino sulla strada che la riporterà a se stessa:
“Sono tornata in me e con me lotterò per andare avanti”.
In questo percorso Marcelle ci rivela con dolcezza straziante la propria visione dell’amore, dell’amicizia, della felicità, attraverso parole che hanno il tono discreto dell’intimità ed insieme l’apertura generosa dell’offerta.
È una combattente Marcelle e l’essenza del suo coraggio non è nella speranza, ma nella verità. “Lasciami sola” (Guanda, 2005) si chiude con un ballo: la notte di Natale, in un momento di tregua dalla malattia, Marcelle si abbandona con gioia quasi religiosa alla danza della vita, benché sul tappeto della morte. Questo ultimo ballo avrà il sapore di un bacio senza una parola.
“Viviamo in balia di alcuni silenzi”: è questa la sensazione che ci coglie in questo romanzo in cui Modiano ci immerge tra le vie della Parigi dei primi anni ’60. Cinque capitoli in cui si susseguono 4 voci narranti nel tentativo di ricostruire la storia di una donna di 22 anni, costantemente in fuga, e che di sé dice:
“non ero veramente me stessa se non nel momento in cui fuggivo”.
La chiamano Louki, questa fuggitiva protagonista del romanzo, figlia di un padre ignoto e di una madre, ormai morta, che aveva lavorato come maschera al Moulin Rouge: tra loro due un’incomunicabilità interrotta solo in occasione di qualche contatto fugace e maldestro. In fuga dal suo passato e dal suo matrimonio, questa donna “piena di fascino”, ma dal profilo vago e confuso, appare come un fantasma evanescente al confronto della Parigi iperrealistica descritta dall’autore con ossessiva precisione topografica. Prendendo le distanze da ogni cosa, Louki resta fedele solo alla sua passività, al “suo posto, giù nell’angolo”, senza il coraggio e la reale volontà di affacciarsi alla “vera vita” cui aspira. La insegue sempre, ma quella vera vita è altrove o al di là, è un “orizzonte perduto” che si dà solo tra le pagine di libri impregnati di misticismo. Unico punto fermo è il caffè Le Condé, dove Louki si rifugia, mimetizzandosi tra scrittori, pseudoartisti e studenti universitari, che vivono al presente, senza progetti, secondo la regola di vita dei cosiddetti “situazionisti”. Potremo seguire all’infinito il racconto dello studente di ingegneria di cui non conosceremo il nome, di Roland, aspirante scrittore e amante di Louki, o di Pierre Caisley, l’investigatore ingaggiato dal marito per ritrovarla, ma sarà solo un’illusione quella di avanzare nella comprensione delle loro vite: esse abitano un vuoto di cui non resterà altro che qualche fotografia, un numero di telefono, e alcuni indirizzi.
Ci si inerpichi pure tra le pagine in cerca di risposte… La prima tra tutte: ma chi è veramente Jacqueline Choureau, nata Delanque, poi ribattezzata Louki dagli habitué del caffè Le Condé? Ne ricaveremo solo silenzi, paure ed ombre. Nel suo continuo vagabondare verso la deriva, Louki appare sempre più vulnerabile, impenetrabile, solitaria, evanescente. Impossibile accoglierla: ella resiste ad ogni rivelazione, arranca tra “paradisi artificiali”, s’impaluda con Roland in hotel di passaggio, attraversa “zone neutre” di Parigi, sporgendosi ogni giorno di più sul ciglio del nulla, fino all’epilogo drammatico in un giorno di novembre, in cui Louki sceglierà di uscire per sempre dalla scena del mondo.
Modiano è solo cronista della crisi del nostro tempo: ne registra fedelmente i sintomi, ma non offre soluzioni. Anche la sua è un’“arte della fuga”, fuga forse anche dalla letteratura, attraverso l’uso di un linguaggio scarno che affida le sue capacità significanti alla secca descrizione di azioni prosciugate dall’emozione. È quasi l’approdo ad una nuova forma di fotografia: un inchiostro fotografico, che può solo testimoniare la realtà dei fatti, escludendo la profondità dell’animo. A Modiano sembra basti “cercare di salvare dall’oblio”, convinto come la poetessa Daria Menicanti che “muoiono veramente quelli solo/ che vai dimenticando”. Forse! Intanto, sotto un cielo che “è come una tenda strappata di un povero circo”, se ti lasci andare, il nulla ti inghiotte nel caffè della gioventù SCONFITTA. “Nel caffè della gioventù perduta” è un romanzo desertico; proverete arsura.
“Viviamo in balia di alcuni silenzi”: è questa la sensazione che ci coglie in questo romanzo in cui Modiano ci immerge tra le vie della Parigi dei primi anni ’60. Cinque capitoli in cui si susseguono 4 voci narranti nel tentativo di ricostruire la storia di una donna di 22 anni, costantemente in fuga, e che di sé dice:
“non ero veramente me stessa se non nel momento in cui fuggivo”.
La chiamano Louki, questa fuggitiva protagonista del romanzo, figlia di un padre ignoto e di una madre, ormai morta, che aveva lavorato come maschera al Moulin Rouge: tra loro due un’incomunicabilità interrotta solo in occasione di qualche contatto fugace e maldestro. In fuga dal suo passato e dal suo matrimonio, questa donna “piena di fascino”, ma dal profilo vago e confuso, appare come un fantasma evanescente al confronto della Parigi iperrealistica descritta dall’autore con ossessiva precisione topografica. Prendendo le distanze da ogni cosa, Louki resta fedele solo alla sua passività, al “suo posto, giù nell’angolo”, senza il coraggio e la reale volontà di affacciarsi alla “vera vita” cui aspira. La insegue sempre, ma quella vera vita è altrove o al di là, è un “orizzonte perduto” che si dà solo tra le pagine di libri impregnati di misticismo. Unico punto fermo è il caffè Le Condé, dove Louki si rifugia, mimetizzandosi tra scrittori, pseudoartisti e studenti universitari, che vivono al presente, senza progetti, secondo la regola di vita dei cosiddetti “situazionisti”. Potremo seguire all’infinito il racconto dello studente di ingegneria di cui non conosceremo il nome, di Roland, aspirante scrittore e amante di Louki, o di Pierre Caisley, l’investigatore ingaggiato dal marito per ritrovarla, ma sarà solo un’illusione quella di avanzare nella comprensione delle loro vite: esse abitano un vuoto di cui non resterà altro che qualche fotografia, un numero di telefono, e alcuni indirizzi.
Ci si inerpichi pure tra le pagine in cerca di risposte… La prima tra tutte: ma chi è veramente Jacqueline Choureau, nata Delanque, poi ribattezzata Louki dagli habitué del caffè Le Condé? Ne ricaveremo solo silenzi, paure ed ombre. Nel suo continuo vagabondare verso la deriva, Louki appare sempre più vulnerabile, impenetrabile, solitaria, evanescente. Impossibile accoglierla: ella resiste ad ogni rivelazione, arranca tra “paradisi artificiali”, s’impaluda con Roland in hotel di passaggio, attraversa “zone neutre” di Parigi, sporgendosi ogni giorno di più sul ciglio del nulla, fino all’epilogo drammatico in un giorno di novembre, in cui Louki sceglierà di uscire per sempre dalla scena del mondo.
Modiano è solo cronista della crisi del nostro tempo: ne registra fedelmente i sintomi, ma non offre soluzioni. Anche la sua è un’“arte della fuga”, fuga forse anche dalla letteratura, attraverso l’uso di un linguaggio scarno che affida le sue capacità significanti alla secca descrizione di azioni prosciugate dall’emozione. È quasi l’approdo ad una nuova forma di fotografia: un inchiostro fotografico, che può solo testimoniare la realtà dei fatti, escludendo la profondità dell’animo. A Modiano sembra basti “cercare di salvare dall’oblio”, convinto come la poetessa Daria Menicanti che “muoiono veramente quelli solo/ che vai dimenticando”. Forse! Intanto, sotto un cielo che “è come una tenda strappata di un povero circo”, se ti lasci andare, il nulla ti inghiotte nel caffè della gioventù SCONFITTA. “Nel caffè della gioventù perduta” è un romanzo desertico; proverete arsura.
“Viene buio presto” ci avverte il Premio Nobel per la Letteratura 2014, Patrick Modiano, la cui scrittura è un vero e proprio atto di resistenza a qualsiasi forma di oblio, in questo romanzo in cui lancia appelli “ai margini della notte”, segnali di luce emanati dalle parole per sciogliere quel grumo di ignoto e di silenzio in cui si sono perse le tracce di “una ragazza di 15 anni, Dora Bruder, m 1,55, volto ovale, occhi castano-grigi, cappotto sportivo grigio, pullover bordeaux, gonna e cappello blu marina, scarpe sportive color marrone. Inviare eventuali informazioni ai coniugi Bruder boulevard Ornano 41, Parigi”. Da questo annuncio nella rubrica intitolata “Da ieri a oggi” di un vecchio numero di Paris-Soir del 1941, e letto da Modiano quasi 50 anni dopo, prende avvio il suo faticoso atto di investigazione privata per raccogliere le tracce residue di Dora, un’adolescente ebraica di origine francese in fuga nella Parigi dell’Occupazione, forse con l’illusione di sfuggire ad Auschwitz.
L’estrema precisione dei dettagli di quell’annuncio ossessiona l’autore, attratto dai vuoti di questa storia come da un campo magnetico il cui orlo irradia una solitudine che è un richiamo, un appello. Ben poco, però, sapremo di Dora, anche al termine di questa lunga indagine durata 8 anni e dominata dalla “vertigine” di un’inquietudine che scuote nel profondo, la fatica di un pensare che si interroga senza sosta, pur consapevole del rischio ogni volta in agguato di una mancanza di risposte e di una ricerca senza ricompense.
Patrick Modiano cerca indizi, i più lontani nel tempo, effettuando ricerche in uffici, tra documenti personali, lettere, testimonianze, registri di polizia e archivi, ma dopo anni raccoglie solo lacunose ricostruzioni. Viene a conoscenza di date, trasferimenti, domicili a cui tuttavia non corrispondono più i luoghi in cui lei ha vissuto. La narrazione non presenta una struttura lineare ma si dispiega simultaneamente su diversi piani temporali.
Dimensione storica, episodi autobiografici e riferimenti intertestuali si intrecciano. L’effetto è quello di una narrazione frammentata, un’artificiosa dispersione che è essa stessa ancora una fuga, quella dell’autore, da ogni pretesa di irrigidimento del testo in categorie definite.
Del dossier documentario sviluppato nel romanzo fanno parte anche alcune foto di Dora e della sua famiglia: Modiano non le inserisce nel testo ma preferisce restituirle fin nel dettaglio attraverso una descrizione minuziosa, come se solo le parole potessero ridare dignità a quei corpi prima annientati come esseri umani, trasformati in “Stücke” (pezzi), e poi svaniti come ombre nel fumo dei forni crematori.
Se scorrerete queste pagine cercando di sapere “chi era” Dora Bruder nella sua essenza, resterete delusi. Vi sembrerà di essere stati vittime di un inganno dell’autore, vi parrà che invece di colmare un vuoto, egli lo abbia disegnato ancora più nitidamente e giudicherete questa ossessiva ricerca, vana e sterile. Ma non è così. Modiano ci offre molto altro: riconosce e restituisce una presenza, dimostra e attesta che Dora “è stata” un essere umano, con la sua identità, dignità, umanità e con un suo segreto, “povero e prezioso segreto”, che resterà per sempre silenzioso, inattingibile. Di lei non conosceremo che il suo passaggio, intriso di “mesta tenerezza”, cosicché sembra scritto per lei il verso di Baudelaire: “Un lampo, poi la notte! – Bellezza fuggitiva” e il vuoto che lascia è ancora e di nuovo “vertigine”.
È rosso il maglione che “veste” Else quando la incontriamo nelle prime pagine di questa famosa novella, La signorina Else, di Arthur Schnitzler: forse è un primo, destinale indizio dello schiacciante senso di colpa e di vergogna che poi la indurrà audacemente a “spogliarsi” di tutto, finanche della propria vita.
Else sceglie la morte, e così lascia interrotto il proprio monologante rovello interiore, un denso flusso di coscienza che, nello spazio di un solo giorno, trascina sogni, speranze ed illusioni verso il baratro del nulla. Else, 19 anni, bellissima, ma “tutta sola, così terribilmente sola, come nessuno può immaginare”; sconosciuta anche a se stessa, cerca in qualche modo di darsi forma e sostanza “leggendosi” attraverso gli occhi degli altri.
Di lei ci vien detto che è altera, misteriosa, demoniaca, seducente: emana una sorta di malia di cui però è del tutto inconsapevole. Nella sua giovane vita non mancano germogli di possibilità che, tuttavia, nel bel mezzo di una spensierata vacanza, verranno di colpo raggelati da una lettera della madre. Costei avanza alla figlia una proposta avvilente, umiliante: per evitare che il padre, noto avvocato, venga arrestato a seguito di una vicenda in cui è implicato, sarebbe necessario reperire una ingente somma di denaro da un ricco amico di famiglia, il mercante d’arte Dorsday, il quale è pronto a sborsare l’intera somma, a fronte di una particolare, quanto oscena, richiesta: Else si dovrà mostrare a lui totalmente nuda.
“Da lei non pretendo altro che di poter restare un quarto d’ora in ammirata contemplazione della sua bellezza”
E’ il laido ricatto del signor Dorsday. Else affonda allora nelle sabbie mobili della colpa e della vergogna. Nel tentativo di resistere, mente a se stessa, fino all’autoinganno, ma la presa di distanza difensiva dalla realtà è nient’altro che un buco nero apertosi nella coscienza, nel quale tutto precipita. Questa profonda lacerazione è innescata dall’evento choc, certo, ma essa ha anche preso lentamente forma nel corso dell’esistenza scialba e opaca che Else ha vissuto.
Nella prigione asfittica della solitudine e della incomunicabilità, senza nessuna possibilità di intimo confronto con l’altro, Else si è lasciata abbacinare dall’oscurità delle parole e delle esperienze non vissute: con questi brandelli di tessuto ha coperto, ma non vestito, la sua identità; orpelli deformanti l’hanno costretta a pensarsi e a costruirsi non dall’interno, ma dal di fuori, attraverso le superfici vuote degli sguardi e delle parole altrui, in cui lei ha cercato, come in uno specchio, un riflesso della propria immagine. Adesso sarà proprio questa immagine di sé quale lei vede rispecchiata negli occhi degli altri (“la figlia del truffatore”, “la mendicante”, “senza nessun talento”, ”la sgualdrina”, “la meschina”, “la vigliacca”) a darle il tormento e a consumarla.
Le speranze deluse, il grave senso di smarrimento, un’inquietudine che non trova pace, la solitudine sempre al proprio fianco, sono il corteo prodromico di quella morte che, alla fine, Else assumerà su di sé come estrema possibilità di vita. Una morte che lei sceglie come compagna, lasciandosi quasi dolcemente prendere per mano da essa, una morte di pietà, morte di pudore, che scioglie “da tutte le creature e da ogni tristezza”, come recita Quasimodo. Una dose letale di Veronal libererà in volo le ultime percezioni di Else, che abbandona quasi in estasi il deserto della sua vita. E mentre “vola”, … è bella Else! Bellissima.