“Contro l’empatia” di Paul Bloom, Liberilibri edizioni, 2019
Recensione di Gabriella Grande
Calvino, in un intervento dedicato a Carlo Emilio Gadda dal titolo “Il mondo è un carciofo”, sostenne che: “la realtà del mondo si presenta ai nostri occhi multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti. Come un carciofo.” 1 E in questo mondo, con la bellezza della sua complessità, Bloom ci invita a considerare che l’empatia, da sola, non basta. Le nostre decisioni e le nostre azioni morali sono fortemente modellate dalla forza dell’empatia, e questo, il più delle volte, rende il mondo peggiore. Il saggio dello psicologo di Yale ci invita a considerare che i problemi che affrontiamo come individui e come società sono spesso dovuti ad un eccesso di empatia. Come ha dichiarato l’etologo olandese Frans de Waal, noi non viviamo in un’età della ragione, viviamo in un’età dell’empatia. Bloom sostiene che l’empatia ci tradisce quando la prendiamo come guida morale e che ci sono alternative preferibili.
L’empatia può essere grande fonte di piacere se riguarda l’arte, la fantasia, lo sport ed è preziosa nelle relazioni intime, in cui si desidera il rispecchiamento empatico, anche se Bloom ci porta a riflettere come, spesso, si riveli fallimentare anche nella dimensione dell’intimità. L’empatia può corrodere relazioni importanti come quella tra medico e paziente (poiché il paziente non cerca il rispecchiamento dei suoi stati d’animo e delle sue emozioni nel medico, ma sicurezza laddove è incerto e calma laddove è insicuro. Il paziente, come fa notare Bloom, vuole “guardare il medico e poter vedere l’opposto della sua paura, non la sua eco”) e può renderci peggiori come amici, genitori, mariti e mogli, in quanto Bloom ci porta a considerare come l’empatia sia faziosa e costituisca una forza miope e distorta. Una risposta empatica è un processo di simulazione diretto e inconscio, quindi preriflessivo, che realizza in modo automatico un legame diretto tra chi agisce e chi osserva agire e che determina l’adesione all’emozione provata dall’altro in risposta a stimoli espressivi manifestati da quella persona. Di conseguenza, viene a mancare la differenziazione tra l’emozione propria e quella altrui. È una risposta rapida perché spinta da considerazioni immediate ed è influenzata da ciò che pensiamo della persona con cui stiamo empatizzando e da come giudichiamo la situazione in cui si trova quella persona.
Bloom concorda con l’analisi di Batson secondo cui “la forza dell’empatia sta nella sua capacità di rendere l’esperienza degli altri osservabile e saliente, pertanto più difficile da ignorare”, ma ciò che vediamo dipende da cosa scegliamo di guardare, innescando un processo che, purtroppo, il più delle volte, diventa più forte dell’equità. Per questo motivo, Bloom paragona l’empatia ad un riflettore da palcoscenico, in quanto ha un raggio d’azione limitato che ci rende selettivi nel decidere a chi interessarci. Illumina intensamente quelli che amiamo (e questo dato di fatto circa la natura umana è inevitabile, considerata la nostra storia evolutiva) mentre diventa debole verso gli estranei (in quanto non siamo psicologicamente costituiti per sentire nei confronti di un estraneo quello che sentiamo nei confronti di chi amiamo), verso chi ci inganna, verso chi crediamo sia triste per una motivazione sciocca, verso chi ha successo all’improvviso (poiché l’invidia blocca l’empatia), verso chi si lamenta di continuo, e verso quelli che ci repellono.
Si è evidenziato che, quando abbiamo a che fare con questo tipo di persone, si attua una riduzione di attività nella corteccia prefrontale mediale (area del cervello coinvolta nel ragionamento sociale), di conseguenza interrompiamo la nostra comprensione sociale e le disumanizziamo; basti considerare il modo in cui i nazisti pensavano agli Ebrei o alla rappresentazione delle donne nella pornografia. Poiché l’empatia riflette preconcetti e propensioni e può essere modificata dalle nostre credenze, aspettative e motivazioni, è in grado di distorcere i nostri giudizi morali nello stesso modo in cui lo fa il pregiudizio.
Quando l’empatia ci fa sentire dolore, la reazione è spesso di inazione o di fuga. A questo proposito Bloom porta l’esempio di una donna che “viveva vicino ai campi di sterminio della Germania nazista e che potendo vedere facilmente le atrocità dalla sua casa […] scrisse una lettera di protesta: […] Richiedo che questi atti inumani vengano interrotti, o che vengano fatti dove nessuno possa vederli”.
Per condurci alla piena comprensione della sua tesi, nella prima parte del saggio, Bloom descrive, in maniera dettagliata, origine e caratteristiche dell’empatia e questa attenzione, sostenuta da esempi efficaci ed essenziali, rafforza la sua tesi, perché non lascia spazio a fraintendimenti e falle di conoscenza. Bloom ci accompagna finanche nella distinzione tra empatia cognitiva ed empatia emotiva, per metterne in luce i diversi processi cerebrali che le coinvolgono e per sottolineare come ci influenzano in modo differente, dal momento che, mentre nell’empatia cognitiva “comprendo che tu sei in pena senza necessariamente farne esperienza”, nell’empatia emotiva “sento ciò che tu provi e, in particolare, sento il tuo dolore”. Bloom ci spiega chiaramente il suo schieramento in particolar modo contro quest’ultimo tipo di empatia, considerandola fallace, moralmente corrosiva e in grado di distorcere le nostre decisioni morali e politiche in modi che causano sofferenza invece di alleviarla, mentre considera l’empatia cognitiva uno strumento utile, ma comunque moralmente neutro.
Bloom non trascura di analizzare il ruolo di questi due distinti tipi di empatia negli psicopatici, nei soggetti affetti da autismo o da Sindrome di Asperger e se intercorra un legame tra empatia, violenza e crudeltà. Le informazioni che ci fornisce consentono di avere un quadro più chiaro della distinzione tra i due tipi di empatia descritti e ci permettono di costruire una riflessione personale fondata su dati esaustivi. Bloom evidenzia come negli psicopatici si ipotizzi un alto grado di empatia cognitiva, ma un basso grado di empatia emotiva. Molti psicopatici hanno un’eccellente empatia cognitiva e sono quindi perfettamente in grado di comprendere la mente degli altri. Questo è ciò che li rende capaci di essere degli ottimi manipolatori ed eccellenti imbroglioni e seduttori. Sostenere che gli psicopatici mancano di empatia è corretto solo se si considera che la parte emozionale dell’empatia è assente: ovvero la sofferenza degli altri non li fa soffrire. Le persone affette da sindrome di Asperger e da autismo, invece, solitamente hanno una bassa empatia cognitiva e per questo hanno difficoltà a comprendere la mente degli altri. Si ritiene che abbiano anche una bassa empatia emotiva, sebbene esista una controversia sulla loro incapacità di provare empatia e sulla scelta di non utilizzarla, ma non rivelano alcuna propensione allo sfruttamento e alla violenza e sono, anzi, più spesso vittime che non autori di crudeltà.
Ma cosa c’è alla base di una risposta empatica? Bloom dedica un intero capitolo all’anatomia dell’empatia e alla scoperta dei “neuroni specchio” (neuroni visuo-motori attivi sia durante l’esecuzione delle azioni, sia nell’osservazione delle azioni eseguite da altri), dapprima nel cervello dei macachi (Gallese et al. 1996; Rizzolatti et al. 1996), e successivamente nel cervello umano (Gallese et al. 2004; Gallese, 2007, 2014, 2018). Bloom ci ricorda come queste importantissime scoperte abbiano rivelato non solo che i circuiti parieto-premotori con proprietà specchio consentono di controllare l’esecuzione delle proprie azioni e di comprendere le azioni degli altri, ma anche che meccanismi di mirroring sono alla base della nostra capacità di condividere le emozioni e le sensazioni provate da altri. Le strutture nervose coinvolte nell’ esperienza soggettiva di emozioni e sensazioni sono le stesse che si attivano anche quando tali emozioni e sensazioni sono riconosciute in altri. L’empatia è dunque un processo di natura affettivo-cognitiva fondato su delle proprietà “specchio”.
Poiché Bloom propone in questo saggio l’immaginazione “come strumento attraverso il quale l’empatia può essere coltivata, arginata, sviluppata ed estesa”, ritengo opportuno aggiungere l’informazione che la simulazione incarnata può anche verificarsi quando immaginiamo di percepire qualcosa o di fare qualcosa. Recenti studi hanno infatti dimostrato come i meccanismi neurobiologici che consentono la connessione al “mondo reale” si sovrappongono ampiamente ai meccanismi collegati al mondo immaginario. Quindi, la teoria della simulazione incarnata può essere impiegata per spiegare sia come percepiamo il mondo che come lo immaginiamo. Dal punto di vista delle neuroscienze, il confine che separa il mondo reale da quello immaginario sembra molto labile.
In questo capitolo Bloom sottolinea, inoltre, un aspetto importante dell’empatia, ovvero che la sofferenza empatica è diversa dalla sofferenza effettiva, non soltanto nel grado ma anche nella tipologia. Una piena e totale partecipazione empatica è irrealizzabile, poiché ci è impossibile accedere alla coscienza e al vissuto dell’altro. Questa inaccessibilità, lungi dall’essere un limite è, invece, la condizione strutturale senza la quale nessun soggetto potrebbe manifestarsi, dal momento che è proprio l’irriducibile alterità il presupposto della relazione intersoggettiva. “Siamo reciprocamente un segreto gli uni per gli altri”, come sosteneva il filosofo francese Jacques Derrida.
Dopo queste lunghe ed esaustive premesse, infarcite di particolari, Bloom ci invita a sperimentare strade diverse dall’empatia, ricordandoci che “siamo esseri complessi e ci sono molte strade che conducono al giudizio e all’azione morale”. Sviluppando la tesi che alla base della moralità c’è molto altro oltre l’empatia, ci porta a considerare che ciò che conta davvero sono capacità come “autocontrollo, intelligenza ed una più diffusa compassione”. “L’autocontrollo può essere visto come la forma più pura di razionalità in quanto limita i desideri impulsivi, irrazionali, emotivi”, e la ragione è per Bloom “il luogo della vera azione”. Ma quando si è in grado di costruire un buon ragionamento? Quando ci affidiamo all’applicazione di regole e principi o ad un calcolo costi/benefici. Solo allora possiamo almeno in parte diventare giusti e imparziali. Anche se, a prescindere da come compiamo le nostre scelte morali, a volte, inevitabilmente sbaglieremo, in quanto una certa quantità di irrazionalità è inevitabile, data la nostra natura fisica. “Ogni dimostrazione della nostra irrazionalità è anche una dimostrazione della nostra intelligenza, perché senza la nostra intelligenza non saremmo in grado di capire che si tratta di una dimostrazione di irrazionalità.[…] È l’abilità di riconoscere criticamente i nostri limiti che rende possibile tutto ciò che facciamo”. La ragione e la razionalità, allora, non sono sufficienti per essere una persona buona e capace. Ma la tesi di Bloom è che esse sono necessarie, dal momento che “attraverso atti di volontà anche l’empatia può essere indirizzata e governata”.
Bloom ci porta a riflettere in modo interessante anche sulla politica, sostenendo che “spesso sembra che la politica sia a corto di razionalità […] La politica non si interessa alla verità perché per essa non è la verità ad essere in palio”. In questo modo ci esorta a considerare la necessità di una chiamata alla responsabilità. A volte, i nostri tentativi di deliberazione razionale possono essere confusi, basati su premesse errate o annebbiati dall’interesse personale. Ma qui il problema sta nel ragionare male, ci avverte Bloom, non nel ragionare in sé.
In questo saggio Bloom popone di ricorrere ad una ragione che sceglie come alleata la compassione, ovvero una ragione che scende a patti con le mancanze, con quello che sfugge al nostro controllo e la tesi di Bloom ci riporta alla mente l’ecologia dell’azione di cui parla il filosofo e sociologo francese Edgar Morin: “La nostra realtà non è altro che la nostra idea di realtà […] Il reale comprende un possibile ancora invisibile e che diventa visibile negli imprevisti, nelle incertezze, nelle situazioni complesse” 2, può diventare visibile nel ricorso alla compassione, vicina al mistero dell’uomo più della ragione.
Il sentimento della compassione che partecipa della ragione ci può consentire di riconoscere la verità etica. M. Nussbaum, in “Terapia del desiderio”, sostiene che: “esaminare la realtà senza ricorrere alle emozioni comporterebbe la mancanza di una parte di verità: sentimenti, esperienze emotive fungono, infatti, da guida verso la realtà etica” 3. La compassione alleata della ragione può quindi diventare elemento costitutivo e determinante su cui basare la vita morale, evitando il delirio di onnipotenza della ragione, perché è più vicina al mistero dell’altro e ricorda come ogni percezione della realtà comporti sempre una parte di inconoscibile. F. Abbate, in “L’occhio della compassione”, sostiene che la compassione si basa sull’atto dell’immaginazione, “per cui ha la capacità di figurarsi e di comprendere emotivamente la complessità umana, i bisogni e i desideri degli individui e le circostanze materiali in cui essi agiscono.” 4
All’immaginazione fa riferimento Bloom in questo saggio quando sostiene che attraverso di essa “l’empatia può essere coltivata, arginata, sviluppata ed estesa”e, nel suo saggio precedente, “Buoni si nasce” conclude scrivendo che: “la nostra morale […] è il risultato della compassione, dell’immaginazione e della nostra straordinaria capacità di ragionare.” 5
Perché Bloom accenna anche in questo saggio all’immaginazione, in modo conciso ma esplicativo? L’immaginazione, “regina del vero” per Baudelaire, è uno sguardo che consente di attingere ad un vero nascosto, in attesa di rivelazione e che ci chiama a non essere inerti e ad usare l’immaginazione per raggiungere la realtà che resta opaca. L’immaginazione è trasformativa, evoca possibilità, aprendo a nuove prospettive ed è valutativa. Edgar Allan Poe in “I delitti della Rue Morgue” sostiene che: “L’uomo veramente d’immaginazione non può essere che un analista.” 6
Bloom, infine, per meglio farci comprendere la scelta del ricorso alla compassione come alleata della ragione, evidenzia la distinzione (supportata da ricerche di neuroscienze) tra empatia e compassione, che è cruciale per ciò che si prefigge di dimostrare in questo saggio. La compassione non richiede il rispecchiamento nei sentimenti dell’altro, che è implicito invece nell’empatia. Il più delle volte è proprio il rispecchiamento ad impedire ai genitori, ad esempio, di infliggere ai figli sofferenze temporanee per il loro bene. Invece, questa scelta educativa è resa possibile “dall’amore, dall’intelligenza e dalla compassione”.
La compassione è un sentimento “per” gli altri (a differenza dell’empatia che è un’emozione “con” gli altri) che ci consente di aprirci all’altro, alla sua situazione, ed implica non solo la capacità di distinguere l’altro come diverso da sé, ma anche e soprattutto la capacità di decentrarsi da sé, di assumere la prospettiva dell’altro. Bloom, nel descrivere come sia stata esplorata la differenza neurologica tra empatia e compassione in una serie di studi fatti con la fMRI (risonanza magnetica funzionale), ne evidenzia la differenza neurale: mentre l’allenamento all’empatia porta ad una accresciuta attivazione dell’insula e della corteccia cingolata anteriore, l’allenamento alla compassione induce, invece, l’attivazione di altre parti del cervello, come la corteccia orbito-frontale mediale e lo striato ventrale.
Studi ulteriori hanno dimostrato come l’allenamento alla compassione aiuti a gestire meglio le situazioni di stress ed apra molte opportunità allo sviluppo mirato di emozioni e motivazioni sociali adattative, il che può essere particolarmente benefico per persone che lavorano nel settore dell’assistenza o in ambienti generalmente stressanti. Contrariamente all’empatia che, invece, può essere spesso causa di quello che viene definito “stress empatico” che, se vissuto cronicamente, comporta, di frequente, degli esiti negativi per la salute. Assorbire in maniera esagerata la sofferenza degli altri può causare burnout o portare ad una condizione descritta da Bloom e definita da V. Helgeson e H. Fritz “comunione non mitigata”, ovvero “un eccessivo interessamento verso gli altri e una tendenza a mettere i bisogni degli altri prima dei propri”. In questo tipo di relazioni asimmetriche si presta molta cura agli altri e poca a se stessi, ciò che è causa di stress empatico con effetti negativi a lungo termine e minore efficacia nell’aiutare gli altri.
Bloom fa appello ad una compassione sostenuta dalla ragione, avvicinandosi all’affermazione di M. Nussbaum, che definisce la compassione come un’emozione razionale, che include il pensiero e che, per questo motivo, può essere educata a superare i confini angusti del sé, in quanto “la compassione […] spinge i confini del sé ad espandersi ancora.” 7
La bellezza del saggio di Bloom, a mio parere, sta soprattutto nella capacità di smuoverci e di indurci alla riflessione, stimolandoci ad interrogarci fin dal titolo del saggio. “Contro l’empatia” forse non vuol dire semplicemente “sono contrario all’empatia”, ma è piuttosto una domanda nascosta, che attinge al significato latino di contrarius, ovvero che sta di fronte, quasi a chiederci: “Scegli di stare di fronte all’empatia? Ovvero scegli di lasciare che tutto sia confinato al ruolo dell’empatia – semplice presupposto della comunicazione e comprensione intersoggettiva – o scegli di superare il limite di questa visione e accogli la mia sfida al movimento e all’azione?
La compassione è movimento. Mentre l’empatia si sviluppa entro i confini del sé, facendo in modo che le emozioni dell’altro vengano sì condivise, ma nello spazio del sé (che, in caso contrario, risulterebbe impenetrabile), la compassione “espande i confini del sé”, come sostiene M. Nussbaum. La compassione, quindi, comporta un movimento da sé verso l’altro, sposta il baricentro emotivo, realizzando un decentramento in cui la propria vita si espande, incontrando e sorreggendo l’altro nella sua forma più vulnerabile ed esposta. Compassione deriva dal latino cum patior e patior non vuol dire solo patire, ma anche sostenere. Per questo ritengo che la compassione si possa considerare, in questa epoca di fragilità spirituale, quasi un incontro mistico nel dolore dell’altro perché, attraverso la compassione, è possibile sostenere insieme l’incontro del segreto costitutivo dell’altro, la vicinanza del suo mistero. In questo movimento, che contrasta la stasi dell’anima che affligge questo nostro secolo, il soggetto, ritornando a sé, si può riconoscere portatore della stessa fragilità, scoprendo un sé di cui poter avere compassione. La compassione è dunque il massimo movimento che si possa compiere, perché pensato ed orientato. Ma per essere efficace ed evitare di trasformarsi in sterile pietà, anche la compassione da sola non è sufficiente. La risposta a cui Bloom ci chiama dipende da ciò che vogliamo davvero. Bloom ci pungola: “Se vuoi il piacere del contatto umano fai pure e dai qualcosa al bambino (che muore di fame), forse per sentire una vibrazione quando le vostre mani si toccano, un calore che rimane con te mentre ritorni in hotel. Ma se vuoi fare davvero qualcosa per migliorare la vita delle persone, fai qualcosa di diverso.” Bloom ci invita ad una compassione che partecipa della ragione, accompagnandoci verso una visione cognitivo-valutativa della compassione che, in questo modo, può costituire sicuramente una risorsa e la base per la moralità. In “Teoria dei sentimenti morali” Adam Smith sottolinea che “la compassione assume il punto di vista dello spettatore, formulando il miglior giudizio che lo spettatore possa offrire su ciò che sta realmente avvenendo alla persona, anche quando esso differisce dal giudizio della persona stessa.” 8
Thích Nhất Hạnh, monaco buddista vietnamita, ritiene che la compassione sia un verbo, la compassione è allora azione. Bloom sostiene che la ragione è il luogo della vera azione, ma ammette che la ragione sia alleata della compassione, riconoscendo implicitamente azione anche al sentimento della compassione.
Nel “Faust” di Goethe, il protagonista, ad un certo punto, si interroga sulla frase del Vangelo di San Giovanni: “In principio era la Parola” (Gv 1,1) e dice: “Non posso dare alla parola un valore così alto; forse devo intendere il senso; ma può il senso essere ciò che tutto opera e crea? Si dovrà allora dire: In principio era la Forza? Ma no, un’improvvisa illuminazione mi suggerisce la risposta: In principio era l’Azione”. Bloom sembra richiamarci a questo principio, da cui tutto ha origine. Il neuroscienziato Gazzaniga sostiene, infatti, che l’azione efficace è il fine ultimo di tutta l’elaborazione interna. Concetto che mi permetto di estendere anche alla dimensione morale. Quella di Bloom è una chiamata ad un’azione morale efficace e la dimensione morale trova la sua efficacia se si mettono in campo autocontrollo, ragione e compassione secondo la tesi di Bloom. Io sono con Bloom.
1 Saggi 1945-1985 a c. di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995
2 E. Morin, “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”, Raffaello Cortina, Milano 2001
3 M. Nussbaum, “Terapia del desiderio”, Vita e Pensiero editore, Milano 1998
4 F. Abbate, “L’occhio della compassione” Edizioni Studium Roma, 2005
5 P. Bloom, “Buoni si nasce. Le origini del bene e del male”, Codice Edizioni, 20148
6 Edgar Allan Poe, “I delitti della Rue Morgue”, Mursia editore, 2007
7 M. Nussbaum, “L’intelligenza delle emozioni”, Edizioni Il Mulino, 2009
8 A. Smith, “Teoria dei sentimenti morali”, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 1995
