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PRIMA DELLA VOCE di Paolo Parrini (Samuele editore, 2021)

Non so voi, ma quando io ho un libro di poesia tra le mani e il cuore, trattengo negli occhi il titolo per tutta la durata della prima lettura del testo, per cercare di agganciare con ago e filo invisibili le maglie della “rete” che tiene insieme tutte le parole e il senso, e quel filo diventa poi per me, nelle letture successive, l’impalcatura su cui lascio asciugare le parole che, in poesia, trasudano sempre mentre si “compiono”.

Ma, questa volta, il Poeta spiazza e il titolo diventa veicolo che trasporta il lettore verso una direzione che comprenderà solo alla fine di questo viaggio poetico che si compie in una “terra” tesa tra il titolo dell’opera e l’ultima poesia che, collocata strategicamente tra l’indice e il colophon (che chiude l’opera in ultima pagina), svela dove il cammino poetico approda temporaneamente, proprio dove ha avuto inizio, dove ha sempre inizio: prima della voce.

Il titolo trattiene l’essenza dell’opera e ne svela l’origine, aprendo al lettore una porta sulla “stanza segreta” dove tutto prende forma, su quel “non luogo” pre-verbale dal suono pieno, che non passa attraverso un contenuto semantico, ma attraverso un aspetto sensoriale che anticipa la nascita della parola poetica che è, di fatto, quell’esitazione prolungata tra suono e senso secondo la definizione a me tanto cara di Paul Valery.

Il poeta Parrini accompagna con grande maestria in un percorso circolare che ha approdo nel punto di inizio dove “l’emozione sale a cercare il fiore incolto” che sboccia dai semi di una percezione ancora informe, nuova o sovrapposta. E ricorda al lettore che, in poesia, si parte sempre “per tornare a casa”, facendo riecheggiare, in questa esperienza di circolarità del percorso poetico, nel ripetersi del ritorno dalla forma pre-verbale (punto di partenza della poesia) al linguaggio poietico, le parole di T.S. Elliott: “e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il luogo per la prima volta […] dove l’ultima terra da conoscere sia quella che era il principio”.

Parrini introduce il lettore ai suoi versi con la complicità della fotografia di Michela Goretti (che lavora sul piano dell’articolazione inconscia della realtà), dialogando con lo scatto dell’artista non solo in copertina, ma ritornando a intercettare la sua proposta di “luoghi dell’inconscio” anche nella seconda e nella terza di copertina, in cui si “compie” il senso dei primi versi parriniani che il lettore incontrerà in questo viaggio e con cui traduce le tappe del percorso trasformativo reso possibile dalla poesia.

Dal punto di vista simbolico-figurativo, lo specchio trattenuto tra le mani che, in copertina, riflette “la pace degli alberi” (raccontata dal primo verso a pag. 13) pur nel loro intricarsi, colloca il soggetto nel luogo della creatività, rappresentato dalle radici tanto vicine al corpo. La donna dallo sguardo ingabbiato nella seconda di copertina racconta “La terra (ovvero il somatico) che aspetta dietro un cancello stretto (rimandando all’impossibilità di rappresentare, all’incapacità di comprendere alcune sensazioni)” (p.13). La mente è imprigionata mentre la memoria del corpo è libera di sentire e di registrare il vissuto. La poesia ha il potere di liberare il sé corporeo (la mente più arcaica); ha il potere di liberare dalla gabbia della non rappresentabilità. Infine, l’immagine della donna che copre il volto con un mazzo di fiori trattenuto tra le mani in terza di copertina sussurra il verso: “sulla via camminata in mille ore/ il sunto d’un dolore/ poi il mandorlo fiorito là” (p.13). Da un punto di vista simbolico, i fiori (che sembrano avere radici nel corpo, nella memoria ancestrale del soggetto fotografato come del poeta) rappresentano il lavoro trasformativo della poesia proprio su quella “terra che aspetta”.

L’attesa, che ritorna più volte nella poesia del Parrini ha bisogno di essere nominata e riconosciuta, mentre “tutto si addormenta per poi svegliarsi ancora” (p.26) e racconta la “La resurrezione di ogni giorno” che non rappresenta solo un chiaro riferimento alla vita, ma alla poesia stessa intesa come processo trasformativo e di resurrezione che ri-conduce a sé, alla propria voce e all’incontro con l’altro attraverso la parola poetica, nella sua capacità di far risuonare nel presente le parole “e dire l’amore, prima del vento/ prima della sera.” (p.22)

Il codice condiviso della poesia e della fotografia nell’opera di Parrini traduce, nelle forme armoniose di voci polisemiche, il codice nascosto della parola poietica, ovvero di una parola capace non solo di dire, ma soprattutto di agire, su chi la riceve, ad un livello più profondo, perché la parola poetica è parola del risveglio della possibilità. Parola quindi che richiede, questa volta in maniera esplicita, un ascolto polisensoriale e, di conseguenza, un’efficace messa in comunicazione con l’altro che il Poeta non identifica solo come lettore passivo, ma come interlocutore necessario, come presenza cooperante.

Lo specchio trattenuto tra le mani ha bisogno di un’immagine da riflettere per dar senso alla funzione per cui esiste, la gabbia ha bisogno che un altro la apra perché se ne possa liberare il contenuto e i fiori hanno bisogno che ci sia qualcuno o qualcosa che se ne prenda cura per non appassire. I luoghi dell’inconscio raccontati da Michela Goretti hanno bisogno dell’altro, fondamentale per il compiersi, e per il dare forma a quanto esiste prima della voce. Quell’altro che Parrini chiama alla condivisione: “Alla mia sera aggiungi la tua/ al mio dolore il tuo.” (p.16) e che considera importante al punto da riproporre lo stesso verso in un’altra poesia, quattro pagine più avanti (p.20): “Alla mia sera aggiungi la tua”. ”Non siamo fatti di certezze” e, per questo, abbiamo bisogno di non perderci mentre “si scompone la sera” (p.20).

Se scuoti la tovaglia le briciole/ di pane ti indicano il cielo” (p.14) e il verso, tronco a metà pagina, diventa trampolino per le emozioni che (ci ricorda il Poeta), se liberate, nutrono lo spirito del tempo ed è questo nutrimento ad indicare il cielo inteso come crescita personale del poeta e del lettore, ovvero ad annullare il tetto della rimozione, lasciandoci sempre scoperti fino a “farsi raggio o crepa.”(p.52)

Sia benedetto questo spazio fatto altrove” (p.52) che è la poesia, il luogo della trasformazione, della possibilità, l’autunno lucido di pioggia che canta il Parrini nel verso che porto con me in questa vita che “ha troppi incagli e mura senza appigli.” (p.26):

Tra tutti i miei anni scelgo/ quest’autunno lucido di pioggia/ perché posso cambiarlo ancora,/ prima del buio.” (p.41)

Tutto è ancora possibile, prima del buio, prima della voce.

di Gabriella Grande

https://www.samueleeditore.it/prima-della-voce-paolo-parrini/

La mia ombra è fatta di pietre
scalcinate, il mio cielo
si perde stretto fra i tetti e le grondaie.
non ho il senso della pianta
alla finestra, m’hanno rubato
il sole appena nato.
E so il sale e il tempo
maturo dell’estate
scritto sui muri e le pareti antiche.
tra tutti i miei anni scelgo
quest’autunno lucido di pioggia
perché posso cambiarlo ancora,
prima del buio.

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PAOLO PARRINI. QUANDO LA POESIA HA IL LINGUAGGIO DELL’ANIMA

di Gabriella Grande

Vorrei attraversare con te i tuoi versi, per permettere al pubblico di conoscere a fondo il poeta e la persona che sei, ma, prima di iniziare questo incamminamento, vorrei porti una domanda in particolare: tu hai costruito una famiglia e hai dei figli e la poesia è, fondamentalmente, un modo di stare al mondo. Cosa significa per un padre lasciare in eredità ai propri figli non solo l’esempio di vita, ma anche la propria Poesia?

È una domanda che mi sono posto più volte anch’io. Per varie vicissitudini personali, sono diventato padre abbastanza tardi, quindi questo argomento mi tocca ancora più profondamente. Ho sempre amato molto scrivere, però lo sviluppo compiuto della mia Poesia si è avuto proprio dopo la nascita dei miei figli. Quanto è accaduto potrebbe sembrare una contraddizione, dal momento che la Poesia assorbe molte energie, sottrae molto tempo alla vita e al quotidiano. Avere figli, lavorare e, nel contempo, scrivere non è semplicissimo. Ma la Poesia che scrivo adesso è, certamente,  il risultato di tutte le esperienze che ho avuto nella vita e quella della paternità è stata, se non la principale, sicuramente tra le più importanti. La vita è fatta di azioni, di movimento e molto meno di ripensamento e di riflessione ed il quotidiano, spesso, sottrae energie e tempo che avrei voluto dedicare ai miei figli. Per questo mi auguro che, tra venti-trent’ anni, sfogliando i miei libri, loro vi trovino tutto quello che, a voce, io non sono riuscito a dire. Ecco, spero che la mia Poesia riesca a fare questo per me.

Vorrei aprire questo cammino in dialogo con te, con un verso della tua Poesia ”Coprimi di te”, che fa parte della raccolta poetica “Oltre il buio della notte” (La Vita Felice, 2019): “Siamo l’ombra e la sete”. In questo verso, l’ombra e la sete diventano archetipi, manifestazioni sensibili dell’attraversamento di due dimensioni interiori, le due facce autenticamente reali della vita, negatività e positività in perenne confronto in una dinamica psichica in cui non si rifiuta nessuna componente dell’uomo, ma, anzi, la si accoglie come parte essenziale di un cammino di crescita o di completamento nell’altro. Il riferimento all’ombra ritorna, poi, in un verso potente in “Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020): “Un giorno saremo, la mia ombra e io, fratelli di sangue.” Che valore hanno l’ombra e la sete per il Poeta che sei e per il tuo modo di concepire la vita?

L’ombra ritorna spesso nella mia Poesia, finanche nel titolo del secondo libro che ho scritto: “Di luce e d’ombra” (Aletti editore, 2016). Senza l’ombra non vi sarebbe la luce e non potremmo apprezzarla in quei brevi sprazzi in cui si concede e che, credo, siano valorizzati proprio dall’ombra stessa. Nel verso che hai citato: “siamo l’ombra e la sete” si parla di un amore. Nel comporla, mi era sembrato di scrivere di un amore terreno per un essere umano, ma, rileggendola, mi è poi accaduto di scoprire che racchiude il senso di un amore più universale. Mi succede spesso, quando scrivo, di non avere piena padronanza di quello che traduco in parole, ma di essere colto e guidato da un’ispirazione, da qualcosa che non so bene definire e che sembra provenire dall’esterno o dall’alto e verso il quale è necessario che io resti in silenzio e mi metta in ascolto, per poi scrivere quasi sotto dettatura. È quanto mi accade, a volte. Sembra quasi che le parole arrivino da un altrove.

Come ti dicevo, nel primo verso che hai riportato, quell’ombra io l’ho riferita ad una persona amata ma poi mi sono accorto che poteva essere riferita anche a Dio e questo è possibile forse perché c’è un’incessante ricerca in me di una fede ultraterrena. Una fede che, purtroppo, non posseggo con la forza, con la saldezza che vorrei, però questa ricerca di Dio in me non ha mai fine, così come non ha mai fine la mia sete di Dio, quella sete di cui mi hai chiesto. Nel secondo verso che hai riportato, invece, tratto da “Un uomo tra gli uomini”, faccio riferimento all’ombra in un auspicio di ricongiunzione possibile, al termine di questa vita terrena, tra il nostro essere terreno e un’anima superiore, tra la nostra parte d’ombra e la nostra parte di sangue.

La sete è dunque sete di Dio? Che valore dai alla sete nella tua poetica?

La sete ha varie sfaccettature: è sete di Dio, è sete d’amore ed anche sete di amore terreno. Siamo fatti di carne e sangue ed è innegabile una forte componente di ricerca, nella vita di tutti i giorni, anche di amore concreto, di affettuosità e di abbracci. Gli abbracci! Mancano troppo spesso, in preda come siamo non tanto dell’egoismo, quanto piuttosto del quotidiano. Abbiamo perso il senso e il valore dell’abbraccio. Un “vero” abbraccio tra le persone è rarissimo, ed in seguito al Covid lo è diventato ancora di più. La sete per me è sete d’amore, ma di un amore inteso nel senso più alto, che consideri l’amore terreno solo come punto di partenza, per abbracciare, infine, qualcosa di cosmico. Ho questa aspirazione, però, troppo spesso anch’io mi perdo in mille rivoli, consumo le tante energie a disposizione in cose di cui mi pento presto. Questa sete è sempre presente in me, si blandisce solo quando soffro. È il mio anelito ad amare e ad essere amato.

Riprendendo il tuo riferimento a Dio e all’attesa fiduciosa di una dimensione ultraterrena, nella tua Poesia si avverte tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade e chiede perdono a Dio, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Cosa rappresenta Dio per te?

Dio rappresenta per me un interlocutore costante. Non essendo un credente saldo nella fede, sono sempre alla tormentosa e continua ricerca di Dio. Sento il bisogno di parlargli, di trovarlo come un vero interlocutore che, proprio nel momento in cui lo cerco, si avvicina e dialoga con me. Parlo molto con Dio, in modo spontaneo. Forse questa è la mia personale forma di preghiera. Molte delle cose fatte nella mia vita probabilmente non le rifarei o vorrei non averle attraversate, ma quello che chiedo a Dio è di darmi la forza di rialzarmi il giorno dopo uno sbaglio o un dolore e di riprovarci, nella piena consapevolezza di tutti i miei limiti. Probabilmente continuerò a sbagliare, ma non vorrei mai perdere questo slancio. Apprezzare il dono di essere vivi e ringraziare, al mattino, perché siamo vivi spero mi possa sempre spingere oltre gli errori che ho fatto il giorno prima. Ne commetterò forse ancora di nuovi, però ci sarà sempre questa ricerca di “una forma di luce”. Io, fondamentalmente, vivo tra le tenebre e la luce. Delle tenebre subisco la loro forza attrattiva, ma sento che, rivolgendomi alla luce, posso limitare il potere delle tenebre.  Ho un’indole altalenante, in oscillazione continua tra la terra e il cielo. I miei limiti umani, che conosco bene, sono un grosso ostacolo, ma il mio sguardo rivolto a Dio mi spinge a non arrendermi mai ai miei sbagli, ma a rialzarmi, il giorno dopo, e a riprovarci, a riprovarci ancora.

Molto bello e vero quello che hai detto e che evidenzia anche quanta importanza dai alla relazione con l’altro che, in questo caso, è Dio. A questo proposito, nel tuo ultimo libro “Dentro tutte le cose c’è amore” (Puntoacapo, 2021) si incontra il verso: “Molto amammo. /Molto non sapemmo farlo, /ma adesso è tempo ancora /dello sguardo”. Il riferimento allo sguardo nella Poesia è sempre molto coinvolgente nella sua complessità. Sartre definisce una terza dimensione ontologica del corpo (le prime due, ovvero “il corpo che sono”” e il corpo che ho” le individua Husserl) e questa terza dimensione fa riferimento al “corpo che sento quando mi sento guardato”. Cosa significa per te sentirsi nello sguardo dell’altro, soprattutto in questo momento storico in cui lo sguardo è diventato il canale privilegiato di comunicazione? E quanto la Poesia può aggiungere alla verità di questo canale privilegiato?

Lo sguardo, in questo tempo provato dal Covid, è, a volte, purtroppo l’unico canale attraverso il quale poter interloquire e avvicinarsi alle persone. Lo sguardo, per me, è anche silenzio. Nel verso che hai riportato, faccio riferimento a tutti i tentativi che avanziamo nella vita, a volte anche molto faticosi, di amare e di essere amati. La ricerca di un amore può farsi angosciante, quando, a volte, diventa ossessiva. Lo sguardo per me è quiete, è pace. Molte volte, nella vita, abbiamo dato e ricevuto, molte volte abbiamo sbagliato, molte altre abbiamo deluso delle persone o ne siamo stati delusi; questa è  la “battaglia” della vita. E poi arriva “il tempo dello sguardo” e per me è silenzio. Mi riferisco non solo allo sguardo tra due persone, ma anche allo sguardo tra l’uomo e Dio e allo sguardo rivolto ad un albero, ad una roccia, ad un bosco, alla neve. Lo sguardo che immagino è quello che non si ferma sull’oggetto, ma che va oltre. Il tempo dello sguardo è il tempo in cui dare spazio, in cui ridimensionare l’ego (non è facile e nei poeti è, spesso, molto cresciuto, ma ne parlo come aspirazione), per svuotarsi e lasciare spazio solo alla Poesia.

Poesia e sguardo sono collegati, nel mio modo di intendere le cose. Poiché lo sguardo è silenzio, è luogo in cui è possibile lasciare spazio all’altro e quindi, prima di tutto alla Poesia.

Abbiamo lottato nella vita, abbiamo amato e siamo stati amati oppure non siamo stati amati e non abbiamo amato. Qualunque cosa sia accaduta nella nostra vita, adesso fermiamoci e, fosse anche solo per poco, impariamo ad abitare il silenzio, ma il silenzio vero, non solo assenza di rumori ma un silenzio interiore che lasci parlare la Poesia. Non è sempre facile! Troppo spesso restiamo sordi al suo segnale. Solo se riusciamo a restare in silenzio e a metterci in  ascolto, arriva la Poesia.

Il bianco è un colore ricorrente nella tua Poesia. Mi ha molto colpita incontrarlo in diverse tue raccolte. In “Oltre il buio della notte”, nella Poesia intitolata “Farfalla bianca” nell’ultimo verso canti: “Poi saremo solo di bianco/ e di neve”. Il riferimento al colore bianco non credo possa rappresentare solo un caso. Sembra una scelta concettuale che rimanda ad un significato più profondo.  A cosa rimanda il bianco nella tua Poesia?

Il bianco, come lo sguardo di cui ti ho appena parlato, per me è silenzio, così come lo è la neve, che al bianco si collega, nell’immaginario di ognuno di noi. La neve, a cui ho sempre pensato come ad un sudario sulle cose, ma un sudario benevolo, perché ha un tempo in cui attutisce tutto e i rumori e poi si scioglie, mi ha sempre trasferito un’idea di quiete.  Il bianco è per me un rimando ad una forma di pace interiore. Proprio come lo è lo sguardo.

La farfalla bianca che hai ricordato è, per me, simbolo di un’estrema purezza. È libertà che si unisce al silenzio e alla purezza. Libertà, purezza e silenzio. Ecco, il bianco è questo per me. A volte, al bianco attribuisco anche un’accezione di morte, ma non in senso negativo, piuttosto come una parte della vita che bisogna provare ad intendere come un cammino, anche se questa visione è difficile da accettare in modo razionale. Nella vita ci incamminiamo verso la morte che, in qualche modo, sarà ancora vita. Questo è il senso di “bianco”, di “pace”, di “trasformazione” che cerco di dare alla morte, trasformazione che ha inizio in questa vita e procede verso qualcosa che non conosciamo, ma che nessuno può escludere. Non sempre, però, riesco a trattenere questo senso di cui ti parlo. Ho le mie grosse crisi e le mie incertezze, ma la morte, nella mia immaginazione,  me la figuro come una grande nevicata bianca, una farfalla che vola, un grande silenzio e un “mettersi in ascolto”, forse con altri metodi di percezione, diversi dai nostri.

Anche nei tuoi versi ti confronti spesso con la morte, ma non è mai la tua ultima parola. Nella notte di “Dentro tutte le cose c’è amore” c’è un verso che canta: “ogni volta morire, poi rinascere”, ovvero la tua poesia canta un eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, rappresentando una forza attiva e reattiva, liberatrice, affermatrice di vita. A quale morte fa riferimento la tua Poesia? In quanti modi si può morire e poi rinascere?

Questi giorni hanno seguito la morte di Franco Battiato, non solo un grande artista ma, soprattutto, un uomo molto spirituale, e ricordo che proprio lui parlava della morte come di un ciclo, non vedendo vita e morte in contrapposizione, ma unite, in qualche modo. Lui sosteneva che nella vita si attraversano tante piccole morti: quando dall’infanzia entriamo nell’adolescenza perdiamo una parte di noi e ne troviamo un’altra, nuova, e poi, così di seguito, nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta e dall’età adulta alla vecchiaia. Anche semplicemente in queste fasi della vita, che tutti, se abbiamo la fortuna di vivere, attraversiamo, si muore sempre un po’, perché, in fondo, la morte è perdere per sempre qualcosa di noi per andare incontro ad altro che, forse, ci rende se non più preziosi, più consapevoli.

È per questo che parlo spesso di morte e rinascita.

La paura della morte mi accompagna sempre – sarei falso a negarlo! – ma, poiché con la morte mi sono molto confrontato nella mia vita, fin dalla più tenera età, ho imparato a restare saldo in atteggiamenti mentali che mi hanno aiutato ad accettarla e a considerarla un passaggio costruttivo. Attraversiamo tante piccole morti nelle varie fasi della nostra vita, con rinascite successive che sono il preludio a quella che poi sarà la morte finale del corpo, intesa come la fine di un percorso che apre la possibilità di un nuovo inizio, per un’ulteriore definitiva rinascita.  In un certo senso, credo che sarebbe importante riuscire a prepararsi tutta la vita alla morte, ma non è facile! Si vivrebbe meglio, se si tenesse sempre ben presente quanto ho detto perché, chi non ha troppa paura della morte apprezza molto anche la vita, chi, invece, purtroppo, vive nella continua, angosciante paura della morte, non riesce nemmeno a gustare quello che la vita gli offre, sia a livello sensoriale che a livello intellettuale e spirituale.

Nelle tue Poesie racconti anche del “dolore di vivere”, dolore che canti come “un ombrello aperto ferito dalla pioggia” (nella Poesia “Senza di te”, in “Oltre il buio della notte”) “questo girare angoli e trovare ferite” (verso che ritroviamo nella Poesia “Aspettami, poi amami” sempre in “Oltre il buio della notte”). Cosa può la Poesia nei confronti di queste ferite? Cantarle equivale già a guarirle?

Forse un po’ sì, ma non è una cosa che è possibile fare per calcolo, in modo volontario. Deve poter avvenire in modo naturale. Non ci si può imporre: “Adesso scrivo per curare questa ferita”. Ce ne accorgiamo sempre più tardi, nel tempo, quanto ci è servito a guarire, scrivere certe cose.

Ogni ferita che subiamo in questa vita ha bisogno del suo tempo per cicatrizzarsi, ad ogni dolore va lasciato il tempo naturale che richiede per guarire. La poesia aiuta perché il dolore specifico, cantato, diviene un dolore universale, ed è come se venisse esorcizzato, viene quindi lenito.

Tante volte, nella mia vita, mi è capitato di attraversare grossi dolori della cui portata non mi sono subito reso conto, ma poi, ad anni di distanza. Rileggendo i versi scritti in quel periodo, ho compreso quanto sia stato importante per me aver scritto di quelle ferite.

Scrivere consente ad un “io” di diventare un “noi” e, in questo “noi”, ci si sente meglio, ci si sente meno soli. È come un abbraccio.

Quando scrivo qualcosa che riguarda una mia esperienza personale e mi rendo conto che è stata condivisa da altre persone, che ne hanno tratto beneficio al punto da dirmi: “Quel tuo verso, quella tua poesia mi ha fatto bene” non provo solo gratitudine, ma mi sembra un “miracolo”, che mi dà la conferma di quanto ti ho parlato all’inizio, ovvero che quel che si scrive venga da un “altrove” di cui non abbiamo che una coscienza parziale.

Quando è venuta ad abitare la Poesia nella tua vita?

La Poesia è arrivata presto nella mia vita, ma non mi sono reso subito conto che si trattasse di Poesia. Ho sempre scritto molto, fin da bambino, riflessioni, pensieri. Al di là del possibile valore di quello che scrivo, se alla mia età attuale mi guardo indietro, posso dire con certezza che era nel mio destino scrivere. Non ne faccio un discorso di valore assoluto, ma mi riferisco ad una mia indole personale.

Pur amando stare con gli amici, sono stato un ragazzo molto riflessivo ed ho sempre letto molto. Mi è sempre venuto naturale “stare in ascolto”. I miei primi versi, scritti intorno ai 14-15 anni, erano più cupi. La mia poetica si è evoluta anche in una modalità più positiva di visione delle cose e della vita.

Negli anni, ho letto anche tanta narrativa, che ho amato ed amo ancora molto, però il mio linguaggio è la scrittura in versi, che sono come delle fiammate che mi raggiungono e che, poi, vanno certamente rielaborate il più delle volte, però il corpo della Poesia nasce nella sua interezza, nella mia esperienza personale di scrittura. I versi sono un flusso che quando arriva è bruciante.

Ho sempre scritto nella mia vita. Però, per molti anni, anche per motivi lavorativi e familiari, non ho mai pubblicato nulla. Alla pubblicazione sono approdato in età più matura, per il desiderio di raccogliere un po’ dei miei scritti. Mi sono così reso conto di quanto fosse importante per me. Ho dedicato tantissima parte della mia vita a fare altre cose, ma, dopo la prima pubblicazione, ho avvertito quanto fosse importante per me non trascurare più questa modalità di espressione. Ho così deciso di darle spazio e non me ne pento. A prescindere dal valore di quanto ho scritto e scriverò, se non avessi dato spazio a questa parte di me non sarei mai stato pienamente io.

Vorrei concludere questo nostro incontro con una Poesia della tua raccolta “Un uomo tra gli uomini”: “Ho scritto quel che senza voce ho udito / abbracciando vita, corpo e Dio. / Pronto a esplodere, a morire / m’hanno salvato la penna e la poesia.” In questi versi credo sia condensata tutta la tua poetica profonda. In che modo la Poesia ti ha salvato? Di quale salvezza è capace?

La Poesia mi ha salvato perché mi ha permesso di non lasciare inaridire e morire il vero me stesso, che, altrimenti, sarebbe stato soffocato dalla vita quotidiana. Lasciare spazio nella mia vita alla Poesia, mi ha permesso di rendermi conto di come il quotidiano sia una piovra, che avidamente ci sottrae tutte le nostre energie ed il nostro tempo. È davvero importante lasciare spazio anche ad altro nella nostra vita, perché è lì che si annida il vero io, chi siamo veramente. La Poesia salva nel momento in cui ci impedisce di morire dentro, di spegnerci, di diventare quello che non siamo. Questo discorso non è valido solo se riferito alla Poesia, ma a qualsiasi altra forma d’Arte, senza la quale si corre il rischio di morire senza nemmeno aver conosciuto quelle che erano le nostre potenzialità, le doti innate che ognuno di noi ha, ciascuno nel suo campo. Per me la Poesia è stata un’ala, mi ha portato su, seppur di pochi metri, dalla vita che facevo e, adesso, grazie a Lei, posso vederla sotto un altro aspetto e capire quanto tempo ho perso in cose per cui non valeva davvero la pena e quanto sia importante, ora, cercare di rimediare.

Qualche anno fa, ho attraversato una fase di dubbio, di ripensamento sul mio fare poetico e, in quel momento della mia vita, ho incontrato una persona decisamente importante per il mio percorso poetico: il poeta Massimiliano Bardotti. Io credo nel destino e quel nostro incontro doveva avvenire in quel dato momento. La Poesia è una dimensione bellissima, però, anche faticosa e ci sono momenti che diventano incagli difficili da superare; lui mi ha aiutato a farlo, a non arrendermi davanti alle difficoltà che avevo incontrato. Ho seguito i corsi di Poesia che ha tenuto nella sua Scuola, a Castelfiorentino e in zone vicine, e mi sono stati molto utili, non solo per avere maggiore consapevolezza della necessità di porsi in ascolto e imparare a svuotarsi per accogliere la Poesia, ma anche per tutti i poeti che, attraverso la sua Scuola ho potuto conoscere e apprezzare, e che mi hanno permesso di capire l’importanza della condivisione nella dimensione poetica. La Poesia è un atto del singolo, indubbiamente, però si alimenta anche dell’apertura verso chi nutre le stesse aspirazioni, se si ha la fortuna di incontrare persone disponibili al dialogo.

Grazie, Paolo, per la luce delle tue parole. Lascio che sia tu a scegliere come salutarci….

Vorrei salutarvi, leggendovi la Poesia “Accoglimi” che apre “Oltre il buio della notte”. Per riallacciarmi al discorso sull’amore, in questa Poesia faccio riferimento ad un amore terreno, ma anche ad un amore di ispirazione divina.

“Ci riconosceranno le stelle / manto pietoso al nostro passare / avremo ali nuove e voci da ascoltare./  Dentro tutti i nostri voli / sulle pendici dei monti mai scalati / sarà doloroso e raro / il pentimento di non aver vissuto / un moto come onda che freme / turbamento liquido al domani. / Altre mani attendono il ritorno; / avremo un cielo cupo / o forse un nuovo giorno / per dissetar la sete / ma intanto accoglimi / lasciami cantare, d’un albore nuovo / a incenerire il sole.”

Clicca qui per il video dell’ intervista al Poeta Paolo Parrini su youtube https://www.youtube.com/watch?v=7JlYG4E4D9Y&t=261s

Biografia di Paolo Parrini

Paolo Parrini (Vinci, 1964) vive a Castelfiorentino (Fi). Si laurea a Firenze in Scienze Politiche indirizzo storico nel 1992.

Ha pubblicato sette libri di Poesia:

“Di vita, di solitudine e di amore” (Pagine Edizioni, 2015);

“Di luce e d’ombra” (Aletti Editore, 2016);

“Tra la terra e il cielo” (Aletti Editore, 2018);

“Quando cadranno i giorni” (Giuliano Ladolfi Editore, 2019);

“Oltre il buio della notte” (La Vita Felice Edizioni, 2019);

“Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020);

“Dentro tutte le cose c’è amore” (Puntoacapo Edizioni, 2021).

“Quando cadranno i giorni” (Giuliano Ladolfi Editore, 2019) ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra i quali la vittoria al Premio Giovanni Pascoli L’ora di Barga 2019, il quarto posto al Premio Internazionale Città di Latina 2019, si è, inoltre, classificato tra i trenta finalisti al Premio Camaiore 2019, il quarto posto al Premio Letterario Città di Grottammare nel 2020.

“Oltre il buio della notte” (La Vita Felice, 2019) si è classificato tra i ventuno finalisti al Premio Camaiore 2020.

“Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) è attualmente tra i sei finalisti al Premio Città di Latina.

DENTRO TUTTE LE COSE C’È AMORE DI PAOLO PARRINI (PUNTOACAPO EDITRICE, 2021)

di Gabriella Grande

Dentro tutte le cose c’è amore? Sì, ma “l’amore ti spezza”1, come ci avvertiva già Philip Roth, “frantuma”, come canta il poeta di Castelfiorentino in questi versi (Puntoacapo Editrice, 2021),  capaci, però, di riconoscere nella vibratilità sottile di ogni passaggio, seppur breve e silenzioso, della vita uno stato gestativo continuo, le possibili e sempre nuove dinamiche riparative e costruttive di una forza che è ciclica rinnovazione dell’origine, in cui la frantumazione è il preludio di una rigenerazione che sottrae all’esito finale.

Capire i rapporti dell’amore con la vita richiede già amore e il coraggio di fare ricorso alla dimensione creatrice della Poesia, perché si renda possibile esprimere un concetto limite così sfuggente, ovvero un concetto il cui confine, “un limitare che attende il perdono”, è superiore alla portata umana e nel quale ci si smarrisce senza il linguaggio della Poesia, questo “dono da meritare prima del silenzio” che eleva la nostra temporalità fino all’orizzonte dell’essere.

Nell’attraversamento dei versi di Paolo Parrini – un caleidoscopio delle voci emozionali più intime – ha riecheggiato nella mia mente quanto dice Fantasio nella pièce di de Musset: “Ognuno porta in sé un mondo2 mentre “la notte annera il giorno”, mentre “muore il […] tempo breve” in cui “gli anni hanno corroso i sogni” “a ricercare parole, quelle ancora non dette tra le mille sprecate”. E lo strumento di conoscenza della poesia parriniana è la malinconia. La malinconia3 di Dürer, la malinconia della serie di Munch4. Una malinconia in cui ci riconosciamo tutti, ancora di più in questo particolare periodo storico, su questa terra che ci appare così “dolorosa e fragile”, per mezzo della quale la sua parola poetica rivela e manifesta l’essenza del nostro tempo povero, in  cui la realtà assume, nei suoi versi, le sembianze del vento che strappa, che frusta, che scuote, che fiacca mentre irrigidisce il pensiero  in cui ci sono  ferite che restano irraggiunte, come quelle di giovani vite perse ancora prima di cominciare (“Ragazzi di pineta”) o interrotte  (“Non so se fu una corda”) quando “morire è cosa leggera quando si spegne il sole in un sorriso stanco”. Spetta alla poesia dare voce a queste ferite. Prendendo in prestito le parole di Deleuze, spetta al poeta “andare nei luoghi estremi, alle ore estreme, dove vivono e si levano le verità alte più profonde.” 5

Cantare una ferita equivale a sanarla, ad accogliere l’amore che ne era rimasto sommerso perché inascoltato (“il fiato sui vetri copre le ferite”), restituendogli pace e perdono nella notte che, per il poeta Parrini, viviamo tutti e che altro non è se non un “attimo sospeso tra il nulla e il ritorno”, dimensione dell’esistenza scissa tra due possibilità reattive con opposte volontà di potenza. E in questa notte il “buio […] accoglie l’occhio nudo”, ovvero ci accoglie nudi, esposti, senza riparo, inducendoci, di conseguenza,  ad un difetto di visione della fine e del senso delle cose.

Nel greco antico, “oida” (οἶδα), il tempo perfetto del verbo greco “orao” (ὁράω, che significa “io vedo”)viene impiegato per esprimere, nel presente, il risultato di un’azione avvenuta nel passato; “oida” quindi significa “io so perché ho visto“. L’azione della visione nel passato rende possibile la conoscenza nel presente. Ma Parrini canta la difficoltà della visione e, di conseguenza, l’impossibilità della conoscenza del senso delle cose e, per questo, “morremo senza sapere”. Ma la morte non è l’ultima parola del poeta. In questa notte “ogni volta morire, poi rinascere”, in questo eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, risolvendo ciclicamente il dramma dell’oggettivazione del nulla nel ritorno.  L’amore è dunque una forza liberatrice, affermatrice. Forza attiva e reattiva che “frantuma” (e “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”) imponendo la sua valenza e dominando quanto gli si oppone, affermandone l’essenza, affinché “sia luce e risa. Sia la vita”.

Mentre la natura (simbolo dell’eterno rinnovamento, della rigenerazione) protegge il senso (“è un albero a rammentarti il sole”) “siamo vivi dentro questo dolore che ci tiene svegli e ci costringe a non morire”, “persi nel vuoto”, un vuoto non concepito come assenza, ma come spazio potenzialmente attivo, in cui si avvicenda un processo continuo di alternanza di creazione e annichilimento e in cui la felicità “ci appare a tratti. Lampeggia. Come un faro nel buio”.

Perdonaci Dio” recita un verso di Parrini, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Ma, come canta l’inno a Patmos di Hölderlin : “Dio è vicino, ma non si lascia afferrare” e, nel frattempo, “la pelle è un ramo sconfitto”. Verso in cui c’è tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade. L’immagine sembra rimandare alla matematica dei rami, teoria sostenuta da Leonardo e poi dimostrata scientificamente, secondo la quale la disposizione dei rami sugli alberi non è casuale, ma segue regole matematiche, per adattarsi meglio a resistere alla violenza del vento ed evitare la rottura dei rami. Nella poesia di Parrini il vento è metafora della vita e la pelle “è un ramo sconfitto” dalla violenza di questo vento di solitudine e di abissi incolmabili in cui il poeta confessa: “non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi”, riprendendo il tema della visione compromessa dal buio in cui abitiamo e che, spesso, diventa anche non coincidente con l’altro con cui ci interfacciamo, per una vita o per pochi attimi. E la non coincidenza dello sguardo neutralizza l’esperienza dell’altro e ci conserva nella nostra fragilità, perché guardare l’altro dà la possibilità di conquistare un potere che è autenticamente umano, ovvero non il potere sull’altro, ma il potere con l’altro, che rende più umani. Per questo, il poeta suggerisce: “molto amammo. Molto non sapemmo farlo, ma adesso è tempo ancora dello sguardo”, senza temere il vuoto in cui ognuno di noi è perso, la tempesta che il singolo attraversa e in cui “inesausto batte il cuore, s’infrange sullo sterno e sul costato.” Il vuoto diventa un alleato per il poeta, perché lo rende disponibile all’evento parola, non più povera, ma presenza reale intersoggettiva, nutrimento, pane. E il pane, ci ricorda Parrini, “è un pezzo di vento impigliato dentro il grano”, verso che considero centrale della poetica parriniana.

Il grano, questo seme di nutrimento generato dall’amore che è in tutte le cose e nell’evento parola, trattiene il “vento”, ovvero la realtà e la ferocia, l’incomprensibilità di alcune sue manifestazioni e ne genera un impasto che, purificato dal dolore, diventa “pane”, possibilità di far crescere dentro di noi quello che mai si esaurisce, apertura all’esperienza dell’essere che può manifestarsi in una pacificante luce nel buio: “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”. L’amore, quindi, nell’alternanza tra il nulla e il ritorno, non solo stabilisce il carattere selettivo del ritorno, ma diventa lievito e predispone al miracolo: “Tu vedi ombre che inseguono il sole, eppure è già notte stanotte”. Tu, caro lettore, che attraverserai la poesia di Parrini, “fallo con dolcezza. Smorza il grido, resta come neve bianca” e, forse, come me, ti sorprenderai a ritrovarti in “La notte stellata sul Rodano” di Van Gogh6, in cui una coppia di innamorati svela il segreto della vita: “ogni uomo è amore se lascia scorrere le sere buie in un immenso oceano”.

“Tremo se penso che potremmo  perderci così, senza aver stretto le mani”. “Saremo l’amore che abbiamo lasciato”.

Gabriella Grande

Dentro tutte le cose c’è amore – Paolo Parrini | puntoacapo (puntoacapo-editrice.com)

Non ci siamo persi mai,

la vita che non vivemmo è tutta qui, in queste mani segnate,

nelle rughe all’angolo della bocca

nei piedi feriti dai vetri lungo il cammino.

Non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi.

Paolo Parrini

1  Philip Roth, “L’animale morente”, Einaudi, 2013

2 A. de Musset. “”Fantasio” in Théâtre complet a cura di S. Jeine, Gallimard, Paris 1990, p. 109

3 Melancholia I. 1514. Incisione di Albrecht Dürer, dal trittico Meisterstiche

4 Malankoli è una serie realizzata dal pittore norvegese Edvard Munch e composta da 5 tele (1891-1896) e due xilografie (1897-1902)

5 G. Deleuze, “Nietzsche e la filosofia”, Coportage, Firenze, 1978, p. 160

6 Van Gogh, “La notte stellata sul Rodano”. 1888, Musée d’Orsay di Parigi

Aspettando la Mostra/Conferenza “La carne dell’anima” del poeta e disegnatore bergamasco Andrea Bassani

MOSTRA/CONFERENZA  D’ARTE CONTEMPORANEA

“LA CARNE DELL’ANIMA”

PERSONALE DEL POETA E DISEGNATORE BERGAMASCO

ANDREA BASSANI

Con il Patrocinio dell’Università di Bari

Con il Patrocinio del Comune di Bari

 

Lunedì, 18 dicembre 2017, alle ore 11:00, nella prestigiosa cornice del Salone degli Affreschi del Palazzo Ateneo dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, con il Patrocinio dell’Università di Bari e con il Patrocinio della Città di Bari, si aprirà il Vernissage della Mostra/Conferenza “La carne dell’anima” del poeta e disegnatore bergamasco Andrea Bassani, noto a livello europeo e catalogato nella Bpi del Centro Pompidou di Parigi e che sarà presente durante la Conferenza in contatto skype.

La scelta di intitolare la mostra “La carne dell’anima” è legata alla poetica e  alla visione del mondo di Bassani, che si definisce “un poeta che disegna”:

“La carne dell’anima è un album di ricordi, scene essenziali di alcune tappe del mio viaggio esperienziale alla scoperta di un corpo spirituale che ha saputo esultare e disperarsi a mia insaputa fino a farmene cosciente. Un corpo invisibile, impalpabile ma corpo, non privo di sostanza, che si è innalzato quando credevo di cadere ed è caduto quando pensavo di essere in piedi. Un corpo, una carne sottile ma non per questo impercettibile, sorprendente […]. È una carne quella dell’anima che si fa pratica d’amore e vita concreta […] La carne dell’anima chiede il coraggio della passione e la consapevolezza di essere altro.” (Andrea Bassani) Continua a leggere Aspettando la Mostra/Conferenza “La carne dell’anima” del poeta e disegnatore bergamasco Andrea Bassani

LOCANDINA ANDREA BASSANI A3 (su cartoncino)

“LA POESIA È UN DESTINO” – Intervista a Andrea Bassani

Il poeta Andrea Bassani pubblica nel 2016 il poema Lechitiel (Terra d’Ulivi edizioni). Una sua silloge tratta da Lechitiel è pubblicata e recensita dalla poetessa Maria Grazia Calandrone sulla rivista internazionale “Poesia” del Febbraio 2016, n°312(1). Per il suo poema riceve una  lettera di critica positiva dal Cardinale Gianfranco Ravasi e la segnalazione di Franco Manzoni sul Corriere della Sera, inserto “La lettura” n°275, del 5/03/2017 (2). Riceve, inoltre,  una critica alla poetica da Bernard Tiburce, bibliotecario del Centro Pompidou di Parigi(3). Parallelo e altrettanto vissuto come espressione poetica è il suo percorso pittorico.

11235274_1408421269483829_2128664420743976431_n1. L’armonia che conferisce musicalità alle tue poesie nasce da un ordine che si è stabilito nel tempo o da un disordine  che è stato illuminato?

C’è un disordine che riordino. Se è vero che scrivere è mettere in ordine, per me scrivere è ordinare un disordine interiore. O meglio, più che di un disordine si tratta di un’insofferenza che tenta di portare caos ed io intervengo con la poesia e la ordino, la metto in riga.

2. Se scrivere, per te, “è mettere in ordine”, disegnare cos’è?

Disegnare è lasciarsi mettere in ordine. Io disegno come scrivo, per me non c’è differenza. Il disegno, infatti,  nasce da un verso che non arriva. Ho la penna sul foglio in attesa di un verso e, invece,  arriva una linea, poi due, che diventano tre, che diventano un disegno, ma lo stato di coscienza o di non coscienza di quando disegno è pressappoco simile a quello di quando scrivo:  io vado in una forma di assenza, diversa da quella della poesia scritta, in quanto benefica, totalmente benefica. Il disegno mi scarica, mi rilassa e in qualche modo mi cura. Anche la poesia mi cura, ma è qualcosa che vivo con una maggiore violenza, perché è un parto che richiede più forze, più energia, più sofferenza ed è anche qualcosa che, quando se ne va, quando esce dal mio corpo, dalle mie dita, mi lascia sfinito, spossato, stremato come se avessi appena corso la maratona della sete. Questo non accade con il disegno. Però sia nel tempo del disegno che in quello dello scrivere – o sarebbe meglio dire nel non-tempo del disegno e nel non-tempo dello scrivere –  io vivo sempre il tutto con lo stesso fine: per me è fare poesia, è esprimere un messaggio poetico. Nel disegno quindi non c’è nessuna ambizione tecnica, nessuna ambizione pittorica, il fine è sempre lo stesso con l’unica differenza che  invece di scrivere parole, traccio linee.

La ricerca dell’essenzialità è un percorso poetico che prosegue nel disegno.

Ed è una ricerca consapevole, voluta?

Non è che la stia facendo in maniera consapevole, sta accadendo. Le cose accadono. Io sono sempre stato vittima degli avvenimenti. Sono stato travolto dalla poesia, dalla ricerca, dalla spiritualità, dalla fede. Non ho cercato niente di quello che ho, di quello che ho incontrato. Chi cerca non trova. Bisogna rimanere svegli, attenti, e aspettare. Le cose se devono accadere, accadono, ti piovono in testa. La poesia non è una cosa che ottieni, la poesia è un destino, è una cosa che accade. Ti capita la poesia.

23. Attraverso l’arte e la sua astrazione è possibile arrivare a comprendere qualcosa che esiste ma non è rivelato?

Sì, assolutamente! L’artista è sempre un canale. È artefice incosciente ed esecutore. Impugno la penna e sono impugnato. C’è un lungo braccio che comincia dal nulla  e tende verso l’infinito ed io sono una porzione di questo braccio, ma non sono io che lo muovo. Non ho volontà di movimento nell’arte né di decisione, eseguo un movimento che nasce da prima di me e non so dove andrà a terminare, un po’ come l’onda in mezzo al mare che non sa da chi è spinta e non sa dove andrà a morire.

4. Perché hai scelto di disegnare con una penna, piuttosto che con pennelli o art pen?

Utilizzo lo stesso strumento per la scrittura in versi e per il disegno, perché il fine  è esprimere un messaggio poetico. Passare a art pen o pennelli nel disegno vorrebbe dire rinunciare a questo messaggio per pormi con ambizione pittorica. Ma io non voglio esprimere la pittura: voglio esprimere la poesia. Il mio disegno è come la canzone per Leo Ferré, che non aveva ambizioni canore. A lui non  importava la tecnica, non era il canto che gli interessava. Usava la voce come una penna, cantava la poesia e  per cantare la poesia, per scriverla, per disegnarla, affinché  la poesia si lasci afferrare, è necessario rimanere poveri.

95. “De la musique avant toute chose”, scrive Verlaine in Art poétique. A diciannove anni hai costituito una blues band del quale eri il  cantante, i tuoi versi hanno una meravigliosa musicalità, e il tuo sito www.andrea-bassani.com  si apre con il brano “L’uomo che ascoltava la malinconia”, composto da te. Che cos’è la musica per te?

La musica è per me esattamente ciò che intendeva Verlaine. Non la musica che esce dal violino o dal pianoforte, ma la musica che viene tradotta con il violino, con il pianoforte, con la voce, con la scultura, con la pittura, con la poesia. La musica è l’ispirazione, una voce insonora che non si ascolta, che non giunge all’orecchio, ma che si sente con qualcosa di noi, con qualche antenna interiore di cui disponiamo e che poi traduciamo in altro, in arte, in note se non in parole, se non in tele, o incisioni, o disegni. L’ispirazione poetica è questa musica, è la stessa creatura. Per me fare poesia è seguire la musica. Quindi la musica viene prima di tutto, perché la musica è la radice, la genesi, la madre di tutte le arti, ma  questa musica: una musica che non ha né forma , né colore, né suono.

6. In Lechitiel canti la bellezza, ma  qual è la tua vera musa?5 - Copia

La mia vera musa non è la bellezza. La bellezza è la mia antagonista, la mia grande nemica. La mia musa è la musica, la musica di cui abbiamo appena parlato e che abbiamo chiamato “musica” perché  noi abbiamo bisogno di dare nomi alle cose. E così chiamiamo Dio, chiamiamo il vento, il fuoco, chiamiamo la musica, chiamiamo la poesia, ma chissà chi c’è dietro questi nomi! Forse chiamiamo sempre la stessa cosa con nomi diversi. Io penso che la mia musa, qualunque sia, qualunque nome realmente abbia, provenga dalla dimensione da cui giunge quella musica di cui abbiamo parlato. È questo il fascino della poesia: non conoscere il segreto di chi si nasconde dietro le parole, dietro i nomi.

7. Nel “Cantico della bellezza” un verso recita: “è la bellezza la regina del mondo./ Tutto il resto sono schiavi che le corrono incontro/ e si buttano supini ai suoi piedi/ pregandola perché li calpesti almeno una volta.” (da Lechitiel, Terra d’ulivi edizioni – “Cantico della bellezza” –  pag. 108). Cosa significa per te contemplare una bellezza fisica e cosa, invece, contemplare un’opera d’arte?

È totalmente diverso. La bellezza in movimento, quella fisica,  è una bellezza che assume un valore straordinario  proprio nel suo essere in movimento, nel suo essere viva e quindi sfuggevole. Ha gambe per scappare, per allontanarsi, ha mente per pensare, ha voce per rifiutarti,  e quindi è una bellezza che passa e scompare  e proprio per questo assume un valore inestimabile, straordinario, prezioso. La bellezza di un’opera d’arte è statica, provoca meno dolore nell’esteta perché  è accessibile quando e come l’esteta voglia. Io posso andare agli Uffizi, prendere  una sedia e stare un’ora davanti alla Venere del Botticelli. Che cosa c’è di più bello della Venere del Botticelli? Niente! Però io ho accesso a quella bellezza quando  e come voglio. La bellezza di una donna  – o per te di un uomo – invece passa e se ne va e scomparendo crea un dolore misterioso,   che non riusciamo a gestire, che muove tante altre cose dentro di noi  e per questo è insopportabile. La bellezza è insopportabile, è offensiva.

Perché offensiva?

È offensiva perché genera la bruttezza, genera la non bellezza, crea distanza, snobba, passa oltre, calpesta. Non ha pietà la bellezza, non ha umanità. La bellezza è lilitiana, è lunare, è collegata ad una figura apparentemente angelica, ma ha un animo diabolico, nasconde un mostro. Bisogna fare molta attenzione alla bellezza. molta attenzione.

Tu insegui ancora la bellezza?

Assolutamente no. La subisco chiaramente ancora, ma non la inseguo perché ho capito che è un’illusione. Inseguo un’altra bellezza, che non è quella estetica ma che è la bellezza interiore, la bellezza del mistero, la bellezza della magia, la bellezza della saggezza, la bellezza della sensibilità,  la bellezza della carità, la bellezza della misericordia, la bellezza della compassione. Queste sono le bellezze che inseguo ora.

Andrea Bassani_438. Se in questo momento io ti dicessi: “Guardami” ?

Mi viene in mente un mio disegno. Lo sto vedendo ora, nella mente.

È di  fortissimo impatto emotivo l’ “incontro” con quel disegno!…

È molto forte perché c’è quella parola “Guardami” legata al disagio immediatamente successivo alla lettura della parola del non poter guardare nessuno, perché tutte le figure hanno occhi che guardano altrove. Il disegno ti chiede di essere guardato, ma non ti guarda. È una lontananza.

E tu chiedi di essere guardato?

Io chiedo di essere amato.

39. Hai parlato di lontananza. Che cos’è, per te, la lontananza?

La lontananza è dolore, per me è stata sempre dolore. Poi c’è una vicinanza interiore nonostante la lontananza fisica: tu puoi essere lontano da qualcuno ma sentirlo dentro, sentirlo vicino. Dio è  lontano, ma al tempo stesso è dentro di te. Quindi la lontananza è un concetto probabilmente più fisico, più materiale. Quando due persone si amano sono un tutt’uno, possono essere lontane fisicamente – e questa lontananza crea dolore –  però non sono realmente  distanti. Quindi io penso che la vera lontananza sia il distacco delle anime, sia il distacco delle energie. Essere lontano da qualcuno o da qualcosa, per me, significa esservi distaccato a livello energetico.

10. Il futuro è potere divorante o attesa per te?

Quale futuro? Il futuro dell’uomo o il futuro dell’entità? Il futuro di colui che ti sta parlando o il futuro  di colui che è oltre, prima delle parole?

A te quale futuro interessa?

A me interessa il mio futuro, non quello di Andrea Bassani, perché io non sono Andrea Bassani. Andrea Bassani non esiste: è un’etichetta, è un nome, è un sacco che si svuoterà. Il futuro dell’uomo è la morte, è la distruzione. Il futuro dell’entità, dell’io, del vero io, è racchiusa nel verso:“Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno,  canto XXVI, vv. 116-120) ovvero siamo fatti per imparare l’arte dell’amare, l’arte  del vivere insieme. Bisogna  imparare questo, soprattutto. L’essenziale  è imparare ad amare. L’anima, il nostro corpo spirituale, il nostro vero io  viene nutrito dal rapporto con l’altro fondato su  uno scambio emotivo d’amore che può non consistere  necessariamente nell’ abbracciarsi, baciarsi, stare insieme e guardarsi negli occhi. La carità, la compassione, l’attenzione verso il dolore altrui, anche piangere insieme a qualcuno, sedersi accanto a un disgraziato e disperarsi con lui nell’impossibilità di aiutarlo è scambio d’amore, cioè il tentativo di creare un’unione con gli altri nell’attenzione al dolore altrui. Tutte queste cose fanno sì che io possa avere un futuro. E quando dico “io” , non sta parlando Andrea Bassani. Non parla né il poeta né l’uomo, parla qualcuno che non sono io e sono vero io.

In Lechitiel tu scrivi “Chi cerchi non è qui” (LXXV, pag.90) Quel verso si riferisce 7certo ad altro, ma io lo recito per chiederti: dove sei? Dov’è quel qualcuno che parla e che – come  hai detto – non sei tu ed è il tuo “vero io”?

Sono qui, ma l’essere che fa parte di me, che avrà un futuro, un futuro perché immortale, non corrisponde alla figura di Andrea Bassani. Andrea Bassani è una figura mortale che sarà distrutta per l’eternità e questa è una consapevolezza importante, perché se noi non raggiungiamo questa consapevolezza continueremo ad identificarci con il nostro nome e cognome  e quindi ad avere davanti il traguardo unico  e comune della distruzione, della morte, della fine, del non più nulla per sempre, ma non è così. È qui che risiede il grande inganno, nell’identificarci con il nostro corpo fisico, con la nostra persona sociale, umana; nell’identificarci con il nostro sacco, con il nostro involucro piuttosto che con la sostanza. In questo modo quale prospettiva futura si ha davanti? Solo quella della morte, dell’oblio, del buio, del nulla. Abbiamo paura della fine perché  sbagliamo a identificarci. E commettiamo questo errore perché  non ci cerchiamo, perché non iniziamo un viaggio  per cercarci, per trovarci,  ma stabiliamo che noi siamo quello che vediamo nello specchio. Non è così! Ecco perché faccio queste distinzioni: una parte di me avrà un futuro, l’altra (il poeta,  Andrea Bassani, la figura sociale) non l’avrà, l’involucro morirà, sarà distrutto e quindi avrà un futuro breve, brevissimo. Noi dobbiamo pensare al futuro come alla nostra immortalità, che dipende da noi; è nelle nostre mani, perché se l’anima non viene nutrita finirà con lo spegnersi. Non dobbiamo dare cibo solo al nostro stomaco. Dentro di noi c’è qualcuno di molto più affamato.

11. Sei passato dal vivere una esistenza in alcuni momenti al limite ad una vita in 4cui ti sei posto tanti limiti. Il limite, questa linea di confine che un tempo hai più volte superato e che oggi, invece, scegli nel senso della rinuncia, cosa rappresenta per te?

Ho deciso controvoglia la limitazione. L’ho deciso come un uomo decide se essere fucilato o no. E chiaramente io ho scelto di non essere fucilato, ma questo ha comportato una serie di doveri molto impegnativi. Io credo che ogni uomo abbia un suo destino; c’è una grande strada maestra per ognuno di noi e la mia strada mi ha portato dove mi trovo adesso ed io non ho opposto resistenza,  ho accettato quello che  il destino mi ha proposto. È certo che l’evoluzione spirituale di un uomo comporta che il soggetto debba ribellarsi a se stesso. Si ingaggia  una lotta contro se stessi, l’uomo antico, l’uomo primitivo, l’uomo legato all’istinto del piacere, al cibo, al sesso, al vizio, alla lussuria si ribella all’uomo nuovo, all’uomo di luce che sta nascendo. C’è un conflitto interiore continuo  tra le nostre luci e le nostre ombre, tra i nostri demoni e i nostri  angeli e siamo un campo di battaglia, come recita un verso di Lechitiel: “E già divento campo di battaglia, guerra e pace.” (LXII, pag. 75). Per raggiungere il mio obiettivo sono costretto a pormi dei grossi limiti, dei divieti. Non ci si arriva diversamente. È necessario lasciare tutto per strada. Si arriva nudi.

12. Vivere cosa significa per te?

Vivere è aspettare. Vivere, per me, è aspettare la vita. È attraversare una morte in attesa della vita. È  un’attesa consapevole, una lucida attesa in cui io semino luce, cerco di darmi al servizio della luce. Non mi preoccupo di me, non mi interesso più di me, ma mi adopero per quello che è necessario alla luce.

13. C’è un messaggio che vorresti lasciare più di ogni altro?

Il messaggio che vorrei lasciare è questo: “Non abbiate paura di morire. La morte non esiste. Amate,  perché voi sarete per quanto avrete amato.”

Gabriella Grande

6Andrea Bassani (Bergamo, 1980). A diciannove anni, insieme a un gruppo di amici, costituisce una blues band del quale è cantante e si esibisce in locali notturni lombardi. A ventisei anni stampa la sua prima raccolta di poesie dal titolo Amore Androgeno (Edizioni d’arte Imedea). Per Alberto Casiraghy pubblica la plaquette Mare (Pulcinoelefante) con un disegno di Giacomo Pellegrini. Incontra la poetessa milanese Alda Merini, nel suo appartamento sui Navigli, alla quale sottopone i suoi scritti. Durante un secondo incontro la stessa poetessa lo invita a proseguire sulla strada della versificazione con più alte ambizioni. Nel 2007, in seguito a un’importante conversione spirituale, lascia famiglia, amici, lavoro e si trasferisce a Pistoia. Trascorre cinque anni d’inattività artistica durante i quali si dedica allo studio delle filosofie orientali e al volontariato.  Solo nel 2013, a seguito dell’incontro col prof. Ernesto Marchese, relatore di una serie di conferenze sulla poesia classica e contemporanea, ricomincia a scrivere. Il suo cantico della bellezza viene letto nelle sale affrescate del comune di Pistoia dalla compagnia teatrale “il rubino”. Una sua silloge tratta dal poema Lechitiel è pubblicata e recensita dalla poetessa Maria Grazia Calandrone sulla rivista internazionale “Poesia” del Febbraio 2016, n°312(1). Riceve due lettere di critica positiva dal Cardinale Gianfranco Ravasi (2). Riceve una critica alla poetica da Bernard Tiburce, bibliotecario del Centro Pompidou di Parigi(3). Otto inediti vengono pubblicati su Nazione Indiana(4). Pubblica nel 2016 per “Terra d’Ulivi edizioni” il poema Lechitiel. Alcune sue poesie si possono ascoltare su canali youtube. Parallelo e altrettanto vissuto come espressione poetica è il suo percorso pittorico. Nominato giurato per la prima edizione (2017) del premio di poesia Maria Maddalena Morelli “Corilla Olimpica” città di Pistoia  insieme ad Ernesto Marchese, Matteo Mazzone, Marco Marchi, Gabriella Grande, Giacomo Trinci, Antonella di Tommaso.
Attualmente vive a Pistoia.

(1https://andrea-bassani.com/category/lechitiel/recensione-di-m-g-calandrone/

(2https://andrea-bassani.com/category/archivio-stampa/

(3https://andrea-bassani.com/category/nota-critica-di-bernard-tiburce-bibliothecaire-centre-pompidou-parigi/

(4https://www.nazioneindiana.com/2016/04/14/martirio-dei-poeti/

PILLOLE DELL’INTERVISTA A ANDREA BASSANI

Aspettando l’intervista integrale al poeta Andrea Bassani, domani 23 aprile 2017, ecco qualche pillola  da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE” e, in apertura, un regalo per tutti noi 😉

Buon ascolto!

PROMO – “Lo specchio delle parole” (con il poeta Andrea Bassani)

Domenica, 23 aprile 2017, 3° appuntamento con la rubrica “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.

Incontreremo…

Scopritelo nel promo 😉

Domani, su YouTube, Pillole dell’intervista. ^_^