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PRIMA DELLA VOCE di Paolo Parrini (Samuele editore, 2021)

Non so voi, ma quando io ho un libro di poesia tra le mani e il cuore, trattengo negli occhi il titolo per tutta la durata della prima lettura del testo, per cercare di agganciare con ago e filo invisibili le maglie della “rete” che tiene insieme tutte le parole e il senso, e quel filo diventa poi per me, nelle letture successive, l’impalcatura su cui lascio asciugare le parole che, in poesia, trasudano sempre mentre si “compiono”.

Ma, questa volta, il Poeta spiazza e il titolo diventa veicolo che trasporta il lettore verso una direzione che comprenderà solo alla fine di questo viaggio poetico che si compie in una “terra” tesa tra il titolo dell’opera e l’ultima poesia che, collocata strategicamente tra l’indice e il colophon (che chiude l’opera in ultima pagina), svela dove il cammino poetico approda temporaneamente, proprio dove ha avuto inizio, dove ha sempre inizio: prima della voce.

Il titolo trattiene l’essenza dell’opera e ne svela l’origine, aprendo al lettore una porta sulla “stanza segreta” dove tutto prende forma, su quel “non luogo” pre-verbale dal suono pieno, che non passa attraverso un contenuto semantico, ma attraverso un aspetto sensoriale che anticipa la nascita della parola poetica che è, di fatto, quell’esitazione prolungata tra suono e senso secondo la definizione a me tanto cara di Paul Valery.

Il poeta Parrini accompagna con grande maestria in un percorso circolare che ha approdo nel punto di inizio dove “l’emozione sale a cercare il fiore incolto” che sboccia dai semi di una percezione ancora informe, nuova o sovrapposta. E ricorda al lettore che, in poesia, si parte sempre “per tornare a casa”, facendo riecheggiare, in questa esperienza di circolarità del percorso poetico, nel ripetersi del ritorno dalla forma pre-verbale (punto di partenza della poesia) al linguaggio poietico, le parole di T.S. Elliott: “e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il luogo per la prima volta […] dove l’ultima terra da conoscere sia quella che era il principio”.

Parrini introduce il lettore ai suoi versi con la complicità della fotografia di Michela Goretti (che lavora sul piano dell’articolazione inconscia della realtà), dialogando con lo scatto dell’artista non solo in copertina, ma ritornando a intercettare la sua proposta di “luoghi dell’inconscio” anche nella seconda e nella terza di copertina, in cui si “compie” il senso dei primi versi parriniani che il lettore incontrerà in questo viaggio e con cui traduce le tappe del percorso trasformativo reso possibile dalla poesia.

Dal punto di vista simbolico-figurativo, lo specchio trattenuto tra le mani che, in copertina, riflette “la pace degli alberi” (raccontata dal primo verso a pag. 13) pur nel loro intricarsi, colloca il soggetto nel luogo della creatività, rappresentato dalle radici tanto vicine al corpo. La donna dallo sguardo ingabbiato nella seconda di copertina racconta “La terra (ovvero il somatico) che aspetta dietro un cancello stretto (rimandando all’impossibilità di rappresentare, all’incapacità di comprendere alcune sensazioni)” (p.13). La mente è imprigionata mentre la memoria del corpo è libera di sentire e di registrare il vissuto. La poesia ha il potere di liberare il sé corporeo (la mente più arcaica); ha il potere di liberare dalla gabbia della non rappresentabilità. Infine, l’immagine della donna che copre il volto con un mazzo di fiori trattenuto tra le mani in terza di copertina sussurra il verso: “sulla via camminata in mille ore/ il sunto d’un dolore/ poi il mandorlo fiorito là” (p.13). Da un punto di vista simbolico, i fiori (che sembrano avere radici nel corpo, nella memoria ancestrale del soggetto fotografato come del poeta) rappresentano il lavoro trasformativo della poesia proprio su quella “terra che aspetta”.

L’attesa, che ritorna più volte nella poesia del Parrini ha bisogno di essere nominata e riconosciuta, mentre “tutto si addormenta per poi svegliarsi ancora” (p.26) e racconta la “La resurrezione di ogni giorno” che non rappresenta solo un chiaro riferimento alla vita, ma alla poesia stessa intesa come processo trasformativo e di resurrezione che ri-conduce a sé, alla propria voce e all’incontro con l’altro attraverso la parola poetica, nella sua capacità di far risuonare nel presente le parole “e dire l’amore, prima del vento/ prima della sera.” (p.22)

Il codice condiviso della poesia e della fotografia nell’opera di Parrini traduce, nelle forme armoniose di voci polisemiche, il codice nascosto della parola poietica, ovvero di una parola capace non solo di dire, ma soprattutto di agire, su chi la riceve, ad un livello più profondo, perché la parola poetica è parola del risveglio della possibilità. Parola quindi che richiede, questa volta in maniera esplicita, un ascolto polisensoriale e, di conseguenza, un’efficace messa in comunicazione con l’altro che il Poeta non identifica solo come lettore passivo, ma come interlocutore necessario, come presenza cooperante.

Lo specchio trattenuto tra le mani ha bisogno di un’immagine da riflettere per dar senso alla funzione per cui esiste, la gabbia ha bisogno che un altro la apra perché se ne possa liberare il contenuto e i fiori hanno bisogno che ci sia qualcuno o qualcosa che se ne prenda cura per non appassire. I luoghi dell’inconscio raccontati da Michela Goretti hanno bisogno dell’altro, fondamentale per il compiersi, e per il dare forma a quanto esiste prima della voce. Quell’altro che Parrini chiama alla condivisione: “Alla mia sera aggiungi la tua/ al mio dolore il tuo.” (p.16) e che considera importante al punto da riproporre lo stesso verso in un’altra poesia, quattro pagine più avanti (p.20): “Alla mia sera aggiungi la tua”. ”Non siamo fatti di certezze” e, per questo, abbiamo bisogno di non perderci mentre “si scompone la sera” (p.20).

Se scuoti la tovaglia le briciole/ di pane ti indicano il cielo” (p.14) e il verso, tronco a metà pagina, diventa trampolino per le emozioni che (ci ricorda il Poeta), se liberate, nutrono lo spirito del tempo ed è questo nutrimento ad indicare il cielo inteso come crescita personale del poeta e del lettore, ovvero ad annullare il tetto della rimozione, lasciandoci sempre scoperti fino a “farsi raggio o crepa.”(p.52)

Sia benedetto questo spazio fatto altrove” (p.52) che è la poesia, il luogo della trasformazione, della possibilità, l’autunno lucido di pioggia che canta il Parrini nel verso che porto con me in questa vita che “ha troppi incagli e mura senza appigli.” (p.26):

Tra tutti i miei anni scelgo/ quest’autunno lucido di pioggia/ perché posso cambiarlo ancora,/ prima del buio.” (p.41)

Tutto è ancora possibile, prima del buio, prima della voce.

di Gabriella Grande

https://www.samueleeditore.it/prima-della-voce-paolo-parrini/

La mia ombra è fatta di pietre
scalcinate, il mio cielo
si perde stretto fra i tetti e le grondaie.
non ho il senso della pianta
alla finestra, m’hanno rubato
il sole appena nato.
E so il sale e il tempo
maturo dell’estate
scritto sui muri e le pareti antiche.
tra tutti i miei anni scelgo
quest’autunno lucido di pioggia
perché posso cambiarlo ancora,
prima del buio.

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PAOLO PARRINI. QUANDO LA POESIA HA IL LINGUAGGIO DELL’ANIMA

di Gabriella Grande

Vorrei attraversare con te i tuoi versi, per permettere al pubblico di conoscere a fondo il poeta e la persona che sei, ma, prima di iniziare questo incamminamento, vorrei porti una domanda in particolare: tu hai costruito una famiglia e hai dei figli e la poesia è, fondamentalmente, un modo di stare al mondo. Cosa significa per un padre lasciare in eredità ai propri figli non solo l’esempio di vita, ma anche la propria Poesia?

È una domanda che mi sono posto più volte anch’io. Per varie vicissitudini personali, sono diventato padre abbastanza tardi, quindi questo argomento mi tocca ancora più profondamente. Ho sempre amato molto scrivere, però lo sviluppo compiuto della mia Poesia si è avuto proprio dopo la nascita dei miei figli. Quanto è accaduto potrebbe sembrare una contraddizione, dal momento che la Poesia assorbe molte energie, sottrae molto tempo alla vita e al quotidiano. Avere figli, lavorare e, nel contempo, scrivere non è semplicissimo. Ma la Poesia che scrivo adesso è, certamente,  il risultato di tutte le esperienze che ho avuto nella vita e quella della paternità è stata, se non la principale, sicuramente tra le più importanti. La vita è fatta di azioni, di movimento e molto meno di ripensamento e di riflessione ed il quotidiano, spesso, sottrae energie e tempo che avrei voluto dedicare ai miei figli. Per questo mi auguro che, tra venti-trent’ anni, sfogliando i miei libri, loro vi trovino tutto quello che, a voce, io non sono riuscito a dire. Ecco, spero che la mia Poesia riesca a fare questo per me.

Vorrei aprire questo cammino in dialogo con te, con un verso della tua Poesia ”Coprimi di te”, che fa parte della raccolta poetica “Oltre il buio della notte” (La Vita Felice, 2019): “Siamo l’ombra e la sete”. In questo verso, l’ombra e la sete diventano archetipi, manifestazioni sensibili dell’attraversamento di due dimensioni interiori, le due facce autenticamente reali della vita, negatività e positività in perenne confronto in una dinamica psichica in cui non si rifiuta nessuna componente dell’uomo, ma, anzi, la si accoglie come parte essenziale di un cammino di crescita o di completamento nell’altro. Il riferimento all’ombra ritorna, poi, in un verso potente in “Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020): “Un giorno saremo, la mia ombra e io, fratelli di sangue.” Che valore hanno l’ombra e la sete per il Poeta che sei e per il tuo modo di concepire la vita?

L’ombra ritorna spesso nella mia Poesia, finanche nel titolo del secondo libro che ho scritto: “Di luce e d’ombra” (Aletti editore, 2016). Senza l’ombra non vi sarebbe la luce e non potremmo apprezzarla in quei brevi sprazzi in cui si concede e che, credo, siano valorizzati proprio dall’ombra stessa. Nel verso che hai citato: “siamo l’ombra e la sete” si parla di un amore. Nel comporla, mi era sembrato di scrivere di un amore terreno per un essere umano, ma, rileggendola, mi è poi accaduto di scoprire che racchiude il senso di un amore più universale. Mi succede spesso, quando scrivo, di non avere piena padronanza di quello che traduco in parole, ma di essere colto e guidato da un’ispirazione, da qualcosa che non so bene definire e che sembra provenire dall’esterno o dall’alto e verso il quale è necessario che io resti in silenzio e mi metta in ascolto, per poi scrivere quasi sotto dettatura. È quanto mi accade, a volte. Sembra quasi che le parole arrivino da un altrove.

Come ti dicevo, nel primo verso che hai riportato, quell’ombra io l’ho riferita ad una persona amata ma poi mi sono accorto che poteva essere riferita anche a Dio e questo è possibile forse perché c’è un’incessante ricerca in me di una fede ultraterrena. Una fede che, purtroppo, non posseggo con la forza, con la saldezza che vorrei, però questa ricerca di Dio in me non ha mai fine, così come non ha mai fine la mia sete di Dio, quella sete di cui mi hai chiesto. Nel secondo verso che hai riportato, invece, tratto da “Un uomo tra gli uomini”, faccio riferimento all’ombra in un auspicio di ricongiunzione possibile, al termine di questa vita terrena, tra il nostro essere terreno e un’anima superiore, tra la nostra parte d’ombra e la nostra parte di sangue.

La sete è dunque sete di Dio? Che valore dai alla sete nella tua poetica?

La sete ha varie sfaccettature: è sete di Dio, è sete d’amore ed anche sete di amore terreno. Siamo fatti di carne e sangue ed è innegabile una forte componente di ricerca, nella vita di tutti i giorni, anche di amore concreto, di affettuosità e di abbracci. Gli abbracci! Mancano troppo spesso, in preda come siamo non tanto dell’egoismo, quanto piuttosto del quotidiano. Abbiamo perso il senso e il valore dell’abbraccio. Un “vero” abbraccio tra le persone è rarissimo, ed in seguito al Covid lo è diventato ancora di più. La sete per me è sete d’amore, ma di un amore inteso nel senso più alto, che consideri l’amore terreno solo come punto di partenza, per abbracciare, infine, qualcosa di cosmico. Ho questa aspirazione, però, troppo spesso anch’io mi perdo in mille rivoli, consumo le tante energie a disposizione in cose di cui mi pento presto. Questa sete è sempre presente in me, si blandisce solo quando soffro. È il mio anelito ad amare e ad essere amato.

Riprendendo il tuo riferimento a Dio e all’attesa fiduciosa di una dimensione ultraterrena, nella tua Poesia si avverte tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade e chiede perdono a Dio, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Cosa rappresenta Dio per te?

Dio rappresenta per me un interlocutore costante. Non essendo un credente saldo nella fede, sono sempre alla tormentosa e continua ricerca di Dio. Sento il bisogno di parlargli, di trovarlo come un vero interlocutore che, proprio nel momento in cui lo cerco, si avvicina e dialoga con me. Parlo molto con Dio, in modo spontaneo. Forse questa è la mia personale forma di preghiera. Molte delle cose fatte nella mia vita probabilmente non le rifarei o vorrei non averle attraversate, ma quello che chiedo a Dio è di darmi la forza di rialzarmi il giorno dopo uno sbaglio o un dolore e di riprovarci, nella piena consapevolezza di tutti i miei limiti. Probabilmente continuerò a sbagliare, ma non vorrei mai perdere questo slancio. Apprezzare il dono di essere vivi e ringraziare, al mattino, perché siamo vivi spero mi possa sempre spingere oltre gli errori che ho fatto il giorno prima. Ne commetterò forse ancora di nuovi, però ci sarà sempre questa ricerca di “una forma di luce”. Io, fondamentalmente, vivo tra le tenebre e la luce. Delle tenebre subisco la loro forza attrattiva, ma sento che, rivolgendomi alla luce, posso limitare il potere delle tenebre.  Ho un’indole altalenante, in oscillazione continua tra la terra e il cielo. I miei limiti umani, che conosco bene, sono un grosso ostacolo, ma il mio sguardo rivolto a Dio mi spinge a non arrendermi mai ai miei sbagli, ma a rialzarmi, il giorno dopo, e a riprovarci, a riprovarci ancora.

Molto bello e vero quello che hai detto e che evidenzia anche quanta importanza dai alla relazione con l’altro che, in questo caso, è Dio. A questo proposito, nel tuo ultimo libro “Dentro tutte le cose c’è amore” (Puntoacapo, 2021) si incontra il verso: “Molto amammo. /Molto non sapemmo farlo, /ma adesso è tempo ancora /dello sguardo”. Il riferimento allo sguardo nella Poesia è sempre molto coinvolgente nella sua complessità. Sartre definisce una terza dimensione ontologica del corpo (le prime due, ovvero “il corpo che sono”” e il corpo che ho” le individua Husserl) e questa terza dimensione fa riferimento al “corpo che sento quando mi sento guardato”. Cosa significa per te sentirsi nello sguardo dell’altro, soprattutto in questo momento storico in cui lo sguardo è diventato il canale privilegiato di comunicazione? E quanto la Poesia può aggiungere alla verità di questo canale privilegiato?

Lo sguardo, in questo tempo provato dal Covid, è, a volte, purtroppo l’unico canale attraverso il quale poter interloquire e avvicinarsi alle persone. Lo sguardo, per me, è anche silenzio. Nel verso che hai riportato, faccio riferimento a tutti i tentativi che avanziamo nella vita, a volte anche molto faticosi, di amare e di essere amati. La ricerca di un amore può farsi angosciante, quando, a volte, diventa ossessiva. Lo sguardo per me è quiete, è pace. Molte volte, nella vita, abbiamo dato e ricevuto, molte volte abbiamo sbagliato, molte altre abbiamo deluso delle persone o ne siamo stati delusi; questa è  la “battaglia” della vita. E poi arriva “il tempo dello sguardo” e per me è silenzio. Mi riferisco non solo allo sguardo tra due persone, ma anche allo sguardo tra l’uomo e Dio e allo sguardo rivolto ad un albero, ad una roccia, ad un bosco, alla neve. Lo sguardo che immagino è quello che non si ferma sull’oggetto, ma che va oltre. Il tempo dello sguardo è il tempo in cui dare spazio, in cui ridimensionare l’ego (non è facile e nei poeti è, spesso, molto cresciuto, ma ne parlo come aspirazione), per svuotarsi e lasciare spazio solo alla Poesia.

Poesia e sguardo sono collegati, nel mio modo di intendere le cose. Poiché lo sguardo è silenzio, è luogo in cui è possibile lasciare spazio all’altro e quindi, prima di tutto alla Poesia.

Abbiamo lottato nella vita, abbiamo amato e siamo stati amati oppure non siamo stati amati e non abbiamo amato. Qualunque cosa sia accaduta nella nostra vita, adesso fermiamoci e, fosse anche solo per poco, impariamo ad abitare il silenzio, ma il silenzio vero, non solo assenza di rumori ma un silenzio interiore che lasci parlare la Poesia. Non è sempre facile! Troppo spesso restiamo sordi al suo segnale. Solo se riusciamo a restare in silenzio e a metterci in  ascolto, arriva la Poesia.

Il bianco è un colore ricorrente nella tua Poesia. Mi ha molto colpita incontrarlo in diverse tue raccolte. In “Oltre il buio della notte”, nella Poesia intitolata “Farfalla bianca” nell’ultimo verso canti: “Poi saremo solo di bianco/ e di neve”. Il riferimento al colore bianco non credo possa rappresentare solo un caso. Sembra una scelta concettuale che rimanda ad un significato più profondo.  A cosa rimanda il bianco nella tua Poesia?

Il bianco, come lo sguardo di cui ti ho appena parlato, per me è silenzio, così come lo è la neve, che al bianco si collega, nell’immaginario di ognuno di noi. La neve, a cui ho sempre pensato come ad un sudario sulle cose, ma un sudario benevolo, perché ha un tempo in cui attutisce tutto e i rumori e poi si scioglie, mi ha sempre trasferito un’idea di quiete.  Il bianco è per me un rimando ad una forma di pace interiore. Proprio come lo è lo sguardo.

La farfalla bianca che hai ricordato è, per me, simbolo di un’estrema purezza. È libertà che si unisce al silenzio e alla purezza. Libertà, purezza e silenzio. Ecco, il bianco è questo per me. A volte, al bianco attribuisco anche un’accezione di morte, ma non in senso negativo, piuttosto come una parte della vita che bisogna provare ad intendere come un cammino, anche se questa visione è difficile da accettare in modo razionale. Nella vita ci incamminiamo verso la morte che, in qualche modo, sarà ancora vita. Questo è il senso di “bianco”, di “pace”, di “trasformazione” che cerco di dare alla morte, trasformazione che ha inizio in questa vita e procede verso qualcosa che non conosciamo, ma che nessuno può escludere. Non sempre, però, riesco a trattenere questo senso di cui ti parlo. Ho le mie grosse crisi e le mie incertezze, ma la morte, nella mia immaginazione,  me la figuro come una grande nevicata bianca, una farfalla che vola, un grande silenzio e un “mettersi in ascolto”, forse con altri metodi di percezione, diversi dai nostri.

Anche nei tuoi versi ti confronti spesso con la morte, ma non è mai la tua ultima parola. Nella notte di “Dentro tutte le cose c’è amore” c’è un verso che canta: “ogni volta morire, poi rinascere”, ovvero la tua poesia canta un eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, rappresentando una forza attiva e reattiva, liberatrice, affermatrice di vita. A quale morte fa riferimento la tua Poesia? In quanti modi si può morire e poi rinascere?

Questi giorni hanno seguito la morte di Franco Battiato, non solo un grande artista ma, soprattutto, un uomo molto spirituale, e ricordo che proprio lui parlava della morte come di un ciclo, non vedendo vita e morte in contrapposizione, ma unite, in qualche modo. Lui sosteneva che nella vita si attraversano tante piccole morti: quando dall’infanzia entriamo nell’adolescenza perdiamo una parte di noi e ne troviamo un’altra, nuova, e poi, così di seguito, nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta e dall’età adulta alla vecchiaia. Anche semplicemente in queste fasi della vita, che tutti, se abbiamo la fortuna di vivere, attraversiamo, si muore sempre un po’, perché, in fondo, la morte è perdere per sempre qualcosa di noi per andare incontro ad altro che, forse, ci rende se non più preziosi, più consapevoli.

È per questo che parlo spesso di morte e rinascita.

La paura della morte mi accompagna sempre – sarei falso a negarlo! – ma, poiché con la morte mi sono molto confrontato nella mia vita, fin dalla più tenera età, ho imparato a restare saldo in atteggiamenti mentali che mi hanno aiutato ad accettarla e a considerarla un passaggio costruttivo. Attraversiamo tante piccole morti nelle varie fasi della nostra vita, con rinascite successive che sono il preludio a quella che poi sarà la morte finale del corpo, intesa come la fine di un percorso che apre la possibilità di un nuovo inizio, per un’ulteriore definitiva rinascita.  In un certo senso, credo che sarebbe importante riuscire a prepararsi tutta la vita alla morte, ma non è facile! Si vivrebbe meglio, se si tenesse sempre ben presente quanto ho detto perché, chi non ha troppa paura della morte apprezza molto anche la vita, chi, invece, purtroppo, vive nella continua, angosciante paura della morte, non riesce nemmeno a gustare quello che la vita gli offre, sia a livello sensoriale che a livello intellettuale e spirituale.

Nelle tue Poesie racconti anche del “dolore di vivere”, dolore che canti come “un ombrello aperto ferito dalla pioggia” (nella Poesia “Senza di te”, in “Oltre il buio della notte”) “questo girare angoli e trovare ferite” (verso che ritroviamo nella Poesia “Aspettami, poi amami” sempre in “Oltre il buio della notte”). Cosa può la Poesia nei confronti di queste ferite? Cantarle equivale già a guarirle?

Forse un po’ sì, ma non è una cosa che è possibile fare per calcolo, in modo volontario. Deve poter avvenire in modo naturale. Non ci si può imporre: “Adesso scrivo per curare questa ferita”. Ce ne accorgiamo sempre più tardi, nel tempo, quanto ci è servito a guarire, scrivere certe cose.

Ogni ferita che subiamo in questa vita ha bisogno del suo tempo per cicatrizzarsi, ad ogni dolore va lasciato il tempo naturale che richiede per guarire. La poesia aiuta perché il dolore specifico, cantato, diviene un dolore universale, ed è come se venisse esorcizzato, viene quindi lenito.

Tante volte, nella mia vita, mi è capitato di attraversare grossi dolori della cui portata non mi sono subito reso conto, ma poi, ad anni di distanza. Rileggendo i versi scritti in quel periodo, ho compreso quanto sia stato importante per me aver scritto di quelle ferite.

Scrivere consente ad un “io” di diventare un “noi” e, in questo “noi”, ci si sente meglio, ci si sente meno soli. È come un abbraccio.

Quando scrivo qualcosa che riguarda una mia esperienza personale e mi rendo conto che è stata condivisa da altre persone, che ne hanno tratto beneficio al punto da dirmi: “Quel tuo verso, quella tua poesia mi ha fatto bene” non provo solo gratitudine, ma mi sembra un “miracolo”, che mi dà la conferma di quanto ti ho parlato all’inizio, ovvero che quel che si scrive venga da un “altrove” di cui non abbiamo che una coscienza parziale.

Quando è venuta ad abitare la Poesia nella tua vita?

La Poesia è arrivata presto nella mia vita, ma non mi sono reso subito conto che si trattasse di Poesia. Ho sempre scritto molto, fin da bambino, riflessioni, pensieri. Al di là del possibile valore di quello che scrivo, se alla mia età attuale mi guardo indietro, posso dire con certezza che era nel mio destino scrivere. Non ne faccio un discorso di valore assoluto, ma mi riferisco ad una mia indole personale.

Pur amando stare con gli amici, sono stato un ragazzo molto riflessivo ed ho sempre letto molto. Mi è sempre venuto naturale “stare in ascolto”. I miei primi versi, scritti intorno ai 14-15 anni, erano più cupi. La mia poetica si è evoluta anche in una modalità più positiva di visione delle cose e della vita.

Negli anni, ho letto anche tanta narrativa, che ho amato ed amo ancora molto, però il mio linguaggio è la scrittura in versi, che sono come delle fiammate che mi raggiungono e che, poi, vanno certamente rielaborate il più delle volte, però il corpo della Poesia nasce nella sua interezza, nella mia esperienza personale di scrittura. I versi sono un flusso che quando arriva è bruciante.

Ho sempre scritto nella mia vita. Però, per molti anni, anche per motivi lavorativi e familiari, non ho mai pubblicato nulla. Alla pubblicazione sono approdato in età più matura, per il desiderio di raccogliere un po’ dei miei scritti. Mi sono così reso conto di quanto fosse importante per me. Ho dedicato tantissima parte della mia vita a fare altre cose, ma, dopo la prima pubblicazione, ho avvertito quanto fosse importante per me non trascurare più questa modalità di espressione. Ho così deciso di darle spazio e non me ne pento. A prescindere dal valore di quanto ho scritto e scriverò, se non avessi dato spazio a questa parte di me non sarei mai stato pienamente io.

Vorrei concludere questo nostro incontro con una Poesia della tua raccolta “Un uomo tra gli uomini”: “Ho scritto quel che senza voce ho udito / abbracciando vita, corpo e Dio. / Pronto a esplodere, a morire / m’hanno salvato la penna e la poesia.” In questi versi credo sia condensata tutta la tua poetica profonda. In che modo la Poesia ti ha salvato? Di quale salvezza è capace?

La Poesia mi ha salvato perché mi ha permesso di non lasciare inaridire e morire il vero me stesso, che, altrimenti, sarebbe stato soffocato dalla vita quotidiana. Lasciare spazio nella mia vita alla Poesia, mi ha permesso di rendermi conto di come il quotidiano sia una piovra, che avidamente ci sottrae tutte le nostre energie ed il nostro tempo. È davvero importante lasciare spazio anche ad altro nella nostra vita, perché è lì che si annida il vero io, chi siamo veramente. La Poesia salva nel momento in cui ci impedisce di morire dentro, di spegnerci, di diventare quello che non siamo. Questo discorso non è valido solo se riferito alla Poesia, ma a qualsiasi altra forma d’Arte, senza la quale si corre il rischio di morire senza nemmeno aver conosciuto quelle che erano le nostre potenzialità, le doti innate che ognuno di noi ha, ciascuno nel suo campo. Per me la Poesia è stata un’ala, mi ha portato su, seppur di pochi metri, dalla vita che facevo e, adesso, grazie a Lei, posso vederla sotto un altro aspetto e capire quanto tempo ho perso in cose per cui non valeva davvero la pena e quanto sia importante, ora, cercare di rimediare.

Qualche anno fa, ho attraversato una fase di dubbio, di ripensamento sul mio fare poetico e, in quel momento della mia vita, ho incontrato una persona decisamente importante per il mio percorso poetico: il poeta Massimiliano Bardotti. Io credo nel destino e quel nostro incontro doveva avvenire in quel dato momento. La Poesia è una dimensione bellissima, però, anche faticosa e ci sono momenti che diventano incagli difficili da superare; lui mi ha aiutato a farlo, a non arrendermi davanti alle difficoltà che avevo incontrato. Ho seguito i corsi di Poesia che ha tenuto nella sua Scuola, a Castelfiorentino e in zone vicine, e mi sono stati molto utili, non solo per avere maggiore consapevolezza della necessità di porsi in ascolto e imparare a svuotarsi per accogliere la Poesia, ma anche per tutti i poeti che, attraverso la sua Scuola ho potuto conoscere e apprezzare, e che mi hanno permesso di capire l’importanza della condivisione nella dimensione poetica. La Poesia è un atto del singolo, indubbiamente, però si alimenta anche dell’apertura verso chi nutre le stesse aspirazioni, se si ha la fortuna di incontrare persone disponibili al dialogo.

Grazie, Paolo, per la luce delle tue parole. Lascio che sia tu a scegliere come salutarci….

Vorrei salutarvi, leggendovi la Poesia “Accoglimi” che apre “Oltre il buio della notte”. Per riallacciarmi al discorso sull’amore, in questa Poesia faccio riferimento ad un amore terreno, ma anche ad un amore di ispirazione divina.

“Ci riconosceranno le stelle / manto pietoso al nostro passare / avremo ali nuove e voci da ascoltare./  Dentro tutti i nostri voli / sulle pendici dei monti mai scalati / sarà doloroso e raro / il pentimento di non aver vissuto / un moto come onda che freme / turbamento liquido al domani. / Altre mani attendono il ritorno; / avremo un cielo cupo / o forse un nuovo giorno / per dissetar la sete / ma intanto accoglimi / lasciami cantare, d’un albore nuovo / a incenerire il sole.”

Clicca qui per il video dell’ intervista al Poeta Paolo Parrini su youtube https://www.youtube.com/watch?v=7JlYG4E4D9Y&t=261s

Biografia di Paolo Parrini

Paolo Parrini (Vinci, 1964) vive a Castelfiorentino (Fi). Si laurea a Firenze in Scienze Politiche indirizzo storico nel 1992.

Ha pubblicato sette libri di Poesia:

“Di vita, di solitudine e di amore” (Pagine Edizioni, 2015);

“Di luce e d’ombra” (Aletti Editore, 2016);

“Tra la terra e il cielo” (Aletti Editore, 2018);

“Quando cadranno i giorni” (Giuliano Ladolfi Editore, 2019);

“Oltre il buio della notte” (La Vita Felice Edizioni, 2019);

“Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020);

“Dentro tutte le cose c’è amore” (Puntoacapo Edizioni, 2021).

“Quando cadranno i giorni” (Giuliano Ladolfi Editore, 2019) ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra i quali la vittoria al Premio Giovanni Pascoli L’ora di Barga 2019, il quarto posto al Premio Internazionale Città di Latina 2019, si è, inoltre, classificato tra i trenta finalisti al Premio Camaiore 2019, il quarto posto al Premio Letterario Città di Grottammare nel 2020.

“Oltre il buio della notte” (La Vita Felice, 2019) si è classificato tra i ventuno finalisti al Premio Camaiore 2020.

“Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) è attualmente tra i sei finalisti al Premio Città di Latina.

DENTRO TUTTE LE COSE C’È AMORE DI PAOLO PARRINI (PUNTOACAPO EDITRICE, 2021)

di Gabriella Grande

Dentro tutte le cose c’è amore? Sì, ma “l’amore ti spezza”1, come ci avvertiva già Philip Roth, “frantuma”, come canta il poeta di Castelfiorentino in questi versi (Puntoacapo Editrice, 2021),  capaci, però, di riconoscere nella vibratilità sottile di ogni passaggio, seppur breve e silenzioso, della vita uno stato gestativo continuo, le possibili e sempre nuove dinamiche riparative e costruttive di una forza che è ciclica rinnovazione dell’origine, in cui la frantumazione è il preludio di una rigenerazione che sottrae all’esito finale.

Capire i rapporti dell’amore con la vita richiede già amore e il coraggio di fare ricorso alla dimensione creatrice della Poesia, perché si renda possibile esprimere un concetto limite così sfuggente, ovvero un concetto il cui confine, “un limitare che attende il perdono”, è superiore alla portata umana e nel quale ci si smarrisce senza il linguaggio della Poesia, questo “dono da meritare prima del silenzio” che eleva la nostra temporalità fino all’orizzonte dell’essere.

Nell’attraversamento dei versi di Paolo Parrini – un caleidoscopio delle voci emozionali più intime – ha riecheggiato nella mia mente quanto dice Fantasio nella pièce di de Musset: “Ognuno porta in sé un mondo2 mentre “la notte annera il giorno”, mentre “muore il […] tempo breve” in cui “gli anni hanno corroso i sogni” “a ricercare parole, quelle ancora non dette tra le mille sprecate”. E lo strumento di conoscenza della poesia parriniana è la malinconia. La malinconia3 di Dürer, la malinconia della serie di Munch4. Una malinconia in cui ci riconosciamo tutti, ancora di più in questo particolare periodo storico, su questa terra che ci appare così “dolorosa e fragile”, per mezzo della quale la sua parola poetica rivela e manifesta l’essenza del nostro tempo povero, in  cui la realtà assume, nei suoi versi, le sembianze del vento che strappa, che frusta, che scuote, che fiacca mentre irrigidisce il pensiero  in cui ci sono  ferite che restano irraggiunte, come quelle di giovani vite perse ancora prima di cominciare (“Ragazzi di pineta”) o interrotte  (“Non so se fu una corda”) quando “morire è cosa leggera quando si spegne il sole in un sorriso stanco”. Spetta alla poesia dare voce a queste ferite. Prendendo in prestito le parole di Deleuze, spetta al poeta “andare nei luoghi estremi, alle ore estreme, dove vivono e si levano le verità alte più profonde.” 5

Cantare una ferita equivale a sanarla, ad accogliere l’amore che ne era rimasto sommerso perché inascoltato (“il fiato sui vetri copre le ferite”), restituendogli pace e perdono nella notte che, per il poeta Parrini, viviamo tutti e che altro non è se non un “attimo sospeso tra il nulla e il ritorno”, dimensione dell’esistenza scissa tra due possibilità reattive con opposte volontà di potenza. E in questa notte il “buio […] accoglie l’occhio nudo”, ovvero ci accoglie nudi, esposti, senza riparo, inducendoci, di conseguenza,  ad un difetto di visione della fine e del senso delle cose.

Nel greco antico, “oida” (οἶδα), il tempo perfetto del verbo greco “orao” (ὁράω, che significa “io vedo”)viene impiegato per esprimere, nel presente, il risultato di un’azione avvenuta nel passato; “oida” quindi significa “io so perché ho visto“. L’azione della visione nel passato rende possibile la conoscenza nel presente. Ma Parrini canta la difficoltà della visione e, di conseguenza, l’impossibilità della conoscenza del senso delle cose e, per questo, “morremo senza sapere”. Ma la morte non è l’ultima parola del poeta. In questa notte “ogni volta morire, poi rinascere”, in questo eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, risolvendo ciclicamente il dramma dell’oggettivazione del nulla nel ritorno.  L’amore è dunque una forza liberatrice, affermatrice. Forza attiva e reattiva che “frantuma” (e “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”) imponendo la sua valenza e dominando quanto gli si oppone, affermandone l’essenza, affinché “sia luce e risa. Sia la vita”.

Mentre la natura (simbolo dell’eterno rinnovamento, della rigenerazione) protegge il senso (“è un albero a rammentarti il sole”) “siamo vivi dentro questo dolore che ci tiene svegli e ci costringe a non morire”, “persi nel vuoto”, un vuoto non concepito come assenza, ma come spazio potenzialmente attivo, in cui si avvicenda un processo continuo di alternanza di creazione e annichilimento e in cui la felicità “ci appare a tratti. Lampeggia. Come un faro nel buio”.

Perdonaci Dio” recita un verso di Parrini, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Ma, come canta l’inno a Patmos di Hölderlin : “Dio è vicino, ma non si lascia afferrare” e, nel frattempo, “la pelle è un ramo sconfitto”. Verso in cui c’è tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade. L’immagine sembra rimandare alla matematica dei rami, teoria sostenuta da Leonardo e poi dimostrata scientificamente, secondo la quale la disposizione dei rami sugli alberi non è casuale, ma segue regole matematiche, per adattarsi meglio a resistere alla violenza del vento ed evitare la rottura dei rami. Nella poesia di Parrini il vento è metafora della vita e la pelle “è un ramo sconfitto” dalla violenza di questo vento di solitudine e di abissi incolmabili in cui il poeta confessa: “non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi”, riprendendo il tema della visione compromessa dal buio in cui abitiamo e che, spesso, diventa anche non coincidente con l’altro con cui ci interfacciamo, per una vita o per pochi attimi. E la non coincidenza dello sguardo neutralizza l’esperienza dell’altro e ci conserva nella nostra fragilità, perché guardare l’altro dà la possibilità di conquistare un potere che è autenticamente umano, ovvero non il potere sull’altro, ma il potere con l’altro, che rende più umani. Per questo, il poeta suggerisce: “molto amammo. Molto non sapemmo farlo, ma adesso è tempo ancora dello sguardo”, senza temere il vuoto in cui ognuno di noi è perso, la tempesta che il singolo attraversa e in cui “inesausto batte il cuore, s’infrange sullo sterno e sul costato.” Il vuoto diventa un alleato per il poeta, perché lo rende disponibile all’evento parola, non più povera, ma presenza reale intersoggettiva, nutrimento, pane. E il pane, ci ricorda Parrini, “è un pezzo di vento impigliato dentro il grano”, verso che considero centrale della poetica parriniana.

Il grano, questo seme di nutrimento generato dall’amore che è in tutte le cose e nell’evento parola, trattiene il “vento”, ovvero la realtà e la ferocia, l’incomprensibilità di alcune sue manifestazioni e ne genera un impasto che, purificato dal dolore, diventa “pane”, possibilità di far crescere dentro di noi quello che mai si esaurisce, apertura all’esperienza dell’essere che può manifestarsi in una pacificante luce nel buio: “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”. L’amore, quindi, nell’alternanza tra il nulla e il ritorno, non solo stabilisce il carattere selettivo del ritorno, ma diventa lievito e predispone al miracolo: “Tu vedi ombre che inseguono il sole, eppure è già notte stanotte”. Tu, caro lettore, che attraverserai la poesia di Parrini, “fallo con dolcezza. Smorza il grido, resta come neve bianca” e, forse, come me, ti sorprenderai a ritrovarti in “La notte stellata sul Rodano” di Van Gogh6, in cui una coppia di innamorati svela il segreto della vita: “ogni uomo è amore se lascia scorrere le sere buie in un immenso oceano”.

“Tremo se penso che potremmo  perderci così, senza aver stretto le mani”. “Saremo l’amore che abbiamo lasciato”.

Gabriella Grande

Dentro tutte le cose c’è amore – Paolo Parrini | puntoacapo (puntoacapo-editrice.com)

Non ci siamo persi mai,

la vita che non vivemmo è tutta qui, in queste mani segnate,

nelle rughe all’angolo della bocca

nei piedi feriti dai vetri lungo il cammino.

Non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi.

Paolo Parrini

1  Philip Roth, “L’animale morente”, Einaudi, 2013

2 A. de Musset. “”Fantasio” in Théâtre complet a cura di S. Jeine, Gallimard, Paris 1990, p. 109

3 Melancholia I. 1514. Incisione di Albrecht Dürer, dal trittico Meisterstiche

4 Malankoli è una serie realizzata dal pittore norvegese Edvard Munch e composta da 5 tele (1891-1896) e due xilografie (1897-1902)

5 G. Deleuze, “Nietzsche e la filosofia”, Coportage, Firenze, 1978, p. 160

6 Van Gogh, “La notte stellata sul Rodano”. 1888, Musée d’Orsay di Parigi