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PAOLO PARRINI. QUANDO LA POESIA HA IL LINGUAGGIO DELL’ANIMA

di Gabriella Grande

Vorrei attraversare con te i tuoi versi, per permettere al pubblico di conoscere a fondo il poeta e la persona che sei, ma, prima di iniziare questo incamminamento, vorrei porti una domanda in particolare: tu hai costruito una famiglia e hai dei figli e la poesia è, fondamentalmente, un modo di stare al mondo. Cosa significa per un padre lasciare in eredità ai propri figli non solo l’esempio di vita, ma anche la propria Poesia?

È una domanda che mi sono posto più volte anch’io. Per varie vicissitudini personali, sono diventato padre abbastanza tardi, quindi questo argomento mi tocca ancora più profondamente. Ho sempre amato molto scrivere, però lo sviluppo compiuto della mia Poesia si è avuto proprio dopo la nascita dei miei figli. Quanto è accaduto potrebbe sembrare una contraddizione, dal momento che la Poesia assorbe molte energie, sottrae molto tempo alla vita e al quotidiano. Avere figli, lavorare e, nel contempo, scrivere non è semplicissimo. Ma la Poesia che scrivo adesso è, certamente,  il risultato di tutte le esperienze che ho avuto nella vita e quella della paternità è stata, se non la principale, sicuramente tra le più importanti. La vita è fatta di azioni, di movimento e molto meno di ripensamento e di riflessione ed il quotidiano, spesso, sottrae energie e tempo che avrei voluto dedicare ai miei figli. Per questo mi auguro che, tra venti-trent’ anni, sfogliando i miei libri, loro vi trovino tutto quello che, a voce, io non sono riuscito a dire. Ecco, spero che la mia Poesia riesca a fare questo per me.

Vorrei aprire questo cammino in dialogo con te, con un verso della tua Poesia ”Coprimi di te”, che fa parte della raccolta poetica “Oltre il buio della notte” (La Vita Felice, 2019): “Siamo l’ombra e la sete”. In questo verso, l’ombra e la sete diventano archetipi, manifestazioni sensibili dell’attraversamento di due dimensioni interiori, le due facce autenticamente reali della vita, negatività e positività in perenne confronto in una dinamica psichica in cui non si rifiuta nessuna componente dell’uomo, ma, anzi, la si accoglie come parte essenziale di un cammino di crescita o di completamento nell’altro. Il riferimento all’ombra ritorna, poi, in un verso potente in “Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020): “Un giorno saremo, la mia ombra e io, fratelli di sangue.” Che valore hanno l’ombra e la sete per il Poeta che sei e per il tuo modo di concepire la vita?

L’ombra ritorna spesso nella mia Poesia, finanche nel titolo del secondo libro che ho scritto: “Di luce e d’ombra” (Aletti editore, 2016). Senza l’ombra non vi sarebbe la luce e non potremmo apprezzarla in quei brevi sprazzi in cui si concede e che, credo, siano valorizzati proprio dall’ombra stessa. Nel verso che hai citato: “siamo l’ombra e la sete” si parla di un amore. Nel comporla, mi era sembrato di scrivere di un amore terreno per un essere umano, ma, rileggendola, mi è poi accaduto di scoprire che racchiude il senso di un amore più universale. Mi succede spesso, quando scrivo, di non avere piena padronanza di quello che traduco in parole, ma di essere colto e guidato da un’ispirazione, da qualcosa che non so bene definire e che sembra provenire dall’esterno o dall’alto e verso il quale è necessario che io resti in silenzio e mi metta in ascolto, per poi scrivere quasi sotto dettatura. È quanto mi accade, a volte. Sembra quasi che le parole arrivino da un altrove.

Come ti dicevo, nel primo verso che hai riportato, quell’ombra io l’ho riferita ad una persona amata ma poi mi sono accorto che poteva essere riferita anche a Dio e questo è possibile forse perché c’è un’incessante ricerca in me di una fede ultraterrena. Una fede che, purtroppo, non posseggo con la forza, con la saldezza che vorrei, però questa ricerca di Dio in me non ha mai fine, così come non ha mai fine la mia sete di Dio, quella sete di cui mi hai chiesto. Nel secondo verso che hai riportato, invece, tratto da “Un uomo tra gli uomini”, faccio riferimento all’ombra in un auspicio di ricongiunzione possibile, al termine di questa vita terrena, tra il nostro essere terreno e un’anima superiore, tra la nostra parte d’ombra e la nostra parte di sangue.

La sete è dunque sete di Dio? Che valore dai alla sete nella tua poetica?

La sete ha varie sfaccettature: è sete di Dio, è sete d’amore ed anche sete di amore terreno. Siamo fatti di carne e sangue ed è innegabile una forte componente di ricerca, nella vita di tutti i giorni, anche di amore concreto, di affettuosità e di abbracci. Gli abbracci! Mancano troppo spesso, in preda come siamo non tanto dell’egoismo, quanto piuttosto del quotidiano. Abbiamo perso il senso e il valore dell’abbraccio. Un “vero” abbraccio tra le persone è rarissimo, ed in seguito al Covid lo è diventato ancora di più. La sete per me è sete d’amore, ma di un amore inteso nel senso più alto, che consideri l’amore terreno solo come punto di partenza, per abbracciare, infine, qualcosa di cosmico. Ho questa aspirazione, però, troppo spesso anch’io mi perdo in mille rivoli, consumo le tante energie a disposizione in cose di cui mi pento presto. Questa sete è sempre presente in me, si blandisce solo quando soffro. È il mio anelito ad amare e ad essere amato.

Riprendendo il tuo riferimento a Dio e all’attesa fiduciosa di una dimensione ultraterrena, nella tua Poesia si avverte tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade e chiede perdono a Dio, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Cosa rappresenta Dio per te?

Dio rappresenta per me un interlocutore costante. Non essendo un credente saldo nella fede, sono sempre alla tormentosa e continua ricerca di Dio. Sento il bisogno di parlargli, di trovarlo come un vero interlocutore che, proprio nel momento in cui lo cerco, si avvicina e dialoga con me. Parlo molto con Dio, in modo spontaneo. Forse questa è la mia personale forma di preghiera. Molte delle cose fatte nella mia vita probabilmente non le rifarei o vorrei non averle attraversate, ma quello che chiedo a Dio è di darmi la forza di rialzarmi il giorno dopo uno sbaglio o un dolore e di riprovarci, nella piena consapevolezza di tutti i miei limiti. Probabilmente continuerò a sbagliare, ma non vorrei mai perdere questo slancio. Apprezzare il dono di essere vivi e ringraziare, al mattino, perché siamo vivi spero mi possa sempre spingere oltre gli errori che ho fatto il giorno prima. Ne commetterò forse ancora di nuovi, però ci sarà sempre questa ricerca di “una forma di luce”. Io, fondamentalmente, vivo tra le tenebre e la luce. Delle tenebre subisco la loro forza attrattiva, ma sento che, rivolgendomi alla luce, posso limitare il potere delle tenebre.  Ho un’indole altalenante, in oscillazione continua tra la terra e il cielo. I miei limiti umani, che conosco bene, sono un grosso ostacolo, ma il mio sguardo rivolto a Dio mi spinge a non arrendermi mai ai miei sbagli, ma a rialzarmi, il giorno dopo, e a riprovarci, a riprovarci ancora.

Molto bello e vero quello che hai detto e che evidenzia anche quanta importanza dai alla relazione con l’altro che, in questo caso, è Dio. A questo proposito, nel tuo ultimo libro “Dentro tutte le cose c’è amore” (Puntoacapo, 2021) si incontra il verso: “Molto amammo. /Molto non sapemmo farlo, /ma adesso è tempo ancora /dello sguardo”. Il riferimento allo sguardo nella Poesia è sempre molto coinvolgente nella sua complessità. Sartre definisce una terza dimensione ontologica del corpo (le prime due, ovvero “il corpo che sono”” e il corpo che ho” le individua Husserl) e questa terza dimensione fa riferimento al “corpo che sento quando mi sento guardato”. Cosa significa per te sentirsi nello sguardo dell’altro, soprattutto in questo momento storico in cui lo sguardo è diventato il canale privilegiato di comunicazione? E quanto la Poesia può aggiungere alla verità di questo canale privilegiato?

Lo sguardo, in questo tempo provato dal Covid, è, a volte, purtroppo l’unico canale attraverso il quale poter interloquire e avvicinarsi alle persone. Lo sguardo, per me, è anche silenzio. Nel verso che hai riportato, faccio riferimento a tutti i tentativi che avanziamo nella vita, a volte anche molto faticosi, di amare e di essere amati. La ricerca di un amore può farsi angosciante, quando, a volte, diventa ossessiva. Lo sguardo per me è quiete, è pace. Molte volte, nella vita, abbiamo dato e ricevuto, molte volte abbiamo sbagliato, molte altre abbiamo deluso delle persone o ne siamo stati delusi; questa è  la “battaglia” della vita. E poi arriva “il tempo dello sguardo” e per me è silenzio. Mi riferisco non solo allo sguardo tra due persone, ma anche allo sguardo tra l’uomo e Dio e allo sguardo rivolto ad un albero, ad una roccia, ad un bosco, alla neve. Lo sguardo che immagino è quello che non si ferma sull’oggetto, ma che va oltre. Il tempo dello sguardo è il tempo in cui dare spazio, in cui ridimensionare l’ego (non è facile e nei poeti è, spesso, molto cresciuto, ma ne parlo come aspirazione), per svuotarsi e lasciare spazio solo alla Poesia.

Poesia e sguardo sono collegati, nel mio modo di intendere le cose. Poiché lo sguardo è silenzio, è luogo in cui è possibile lasciare spazio all’altro e quindi, prima di tutto alla Poesia.

Abbiamo lottato nella vita, abbiamo amato e siamo stati amati oppure non siamo stati amati e non abbiamo amato. Qualunque cosa sia accaduta nella nostra vita, adesso fermiamoci e, fosse anche solo per poco, impariamo ad abitare il silenzio, ma il silenzio vero, non solo assenza di rumori ma un silenzio interiore che lasci parlare la Poesia. Non è sempre facile! Troppo spesso restiamo sordi al suo segnale. Solo se riusciamo a restare in silenzio e a metterci in  ascolto, arriva la Poesia.

Il bianco è un colore ricorrente nella tua Poesia. Mi ha molto colpita incontrarlo in diverse tue raccolte. In “Oltre il buio della notte”, nella Poesia intitolata “Farfalla bianca” nell’ultimo verso canti: “Poi saremo solo di bianco/ e di neve”. Il riferimento al colore bianco non credo possa rappresentare solo un caso. Sembra una scelta concettuale che rimanda ad un significato più profondo.  A cosa rimanda il bianco nella tua Poesia?

Il bianco, come lo sguardo di cui ti ho appena parlato, per me è silenzio, così come lo è la neve, che al bianco si collega, nell’immaginario di ognuno di noi. La neve, a cui ho sempre pensato come ad un sudario sulle cose, ma un sudario benevolo, perché ha un tempo in cui attutisce tutto e i rumori e poi si scioglie, mi ha sempre trasferito un’idea di quiete.  Il bianco è per me un rimando ad una forma di pace interiore. Proprio come lo è lo sguardo.

La farfalla bianca che hai ricordato è, per me, simbolo di un’estrema purezza. È libertà che si unisce al silenzio e alla purezza. Libertà, purezza e silenzio. Ecco, il bianco è questo per me. A volte, al bianco attribuisco anche un’accezione di morte, ma non in senso negativo, piuttosto come una parte della vita che bisogna provare ad intendere come un cammino, anche se questa visione è difficile da accettare in modo razionale. Nella vita ci incamminiamo verso la morte che, in qualche modo, sarà ancora vita. Questo è il senso di “bianco”, di “pace”, di “trasformazione” che cerco di dare alla morte, trasformazione che ha inizio in questa vita e procede verso qualcosa che non conosciamo, ma che nessuno può escludere. Non sempre, però, riesco a trattenere questo senso di cui ti parlo. Ho le mie grosse crisi e le mie incertezze, ma la morte, nella mia immaginazione,  me la figuro come una grande nevicata bianca, una farfalla che vola, un grande silenzio e un “mettersi in ascolto”, forse con altri metodi di percezione, diversi dai nostri.

Anche nei tuoi versi ti confronti spesso con la morte, ma non è mai la tua ultima parola. Nella notte di “Dentro tutte le cose c’è amore” c’è un verso che canta: “ogni volta morire, poi rinascere”, ovvero la tua poesia canta un eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, rappresentando una forza attiva e reattiva, liberatrice, affermatrice di vita. A quale morte fa riferimento la tua Poesia? In quanti modi si può morire e poi rinascere?

Questi giorni hanno seguito la morte di Franco Battiato, non solo un grande artista ma, soprattutto, un uomo molto spirituale, e ricordo che proprio lui parlava della morte come di un ciclo, non vedendo vita e morte in contrapposizione, ma unite, in qualche modo. Lui sosteneva che nella vita si attraversano tante piccole morti: quando dall’infanzia entriamo nell’adolescenza perdiamo una parte di noi e ne troviamo un’altra, nuova, e poi, così di seguito, nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta e dall’età adulta alla vecchiaia. Anche semplicemente in queste fasi della vita, che tutti, se abbiamo la fortuna di vivere, attraversiamo, si muore sempre un po’, perché, in fondo, la morte è perdere per sempre qualcosa di noi per andare incontro ad altro che, forse, ci rende se non più preziosi, più consapevoli.

È per questo che parlo spesso di morte e rinascita.

La paura della morte mi accompagna sempre – sarei falso a negarlo! – ma, poiché con la morte mi sono molto confrontato nella mia vita, fin dalla più tenera età, ho imparato a restare saldo in atteggiamenti mentali che mi hanno aiutato ad accettarla e a considerarla un passaggio costruttivo. Attraversiamo tante piccole morti nelle varie fasi della nostra vita, con rinascite successive che sono il preludio a quella che poi sarà la morte finale del corpo, intesa come la fine di un percorso che apre la possibilità di un nuovo inizio, per un’ulteriore definitiva rinascita.  In un certo senso, credo che sarebbe importante riuscire a prepararsi tutta la vita alla morte, ma non è facile! Si vivrebbe meglio, se si tenesse sempre ben presente quanto ho detto perché, chi non ha troppa paura della morte apprezza molto anche la vita, chi, invece, purtroppo, vive nella continua, angosciante paura della morte, non riesce nemmeno a gustare quello che la vita gli offre, sia a livello sensoriale che a livello intellettuale e spirituale.

Nelle tue Poesie racconti anche del “dolore di vivere”, dolore che canti come “un ombrello aperto ferito dalla pioggia” (nella Poesia “Senza di te”, in “Oltre il buio della notte”) “questo girare angoli e trovare ferite” (verso che ritroviamo nella Poesia “Aspettami, poi amami” sempre in “Oltre il buio della notte”). Cosa può la Poesia nei confronti di queste ferite? Cantarle equivale già a guarirle?

Forse un po’ sì, ma non è una cosa che è possibile fare per calcolo, in modo volontario. Deve poter avvenire in modo naturale. Non ci si può imporre: “Adesso scrivo per curare questa ferita”. Ce ne accorgiamo sempre più tardi, nel tempo, quanto ci è servito a guarire, scrivere certe cose.

Ogni ferita che subiamo in questa vita ha bisogno del suo tempo per cicatrizzarsi, ad ogni dolore va lasciato il tempo naturale che richiede per guarire. La poesia aiuta perché il dolore specifico, cantato, diviene un dolore universale, ed è come se venisse esorcizzato, viene quindi lenito.

Tante volte, nella mia vita, mi è capitato di attraversare grossi dolori della cui portata non mi sono subito reso conto, ma poi, ad anni di distanza. Rileggendo i versi scritti in quel periodo, ho compreso quanto sia stato importante per me aver scritto di quelle ferite.

Scrivere consente ad un “io” di diventare un “noi” e, in questo “noi”, ci si sente meglio, ci si sente meno soli. È come un abbraccio.

Quando scrivo qualcosa che riguarda una mia esperienza personale e mi rendo conto che è stata condivisa da altre persone, che ne hanno tratto beneficio al punto da dirmi: “Quel tuo verso, quella tua poesia mi ha fatto bene” non provo solo gratitudine, ma mi sembra un “miracolo”, che mi dà la conferma di quanto ti ho parlato all’inizio, ovvero che quel che si scrive venga da un “altrove” di cui non abbiamo che una coscienza parziale.

Quando è venuta ad abitare la Poesia nella tua vita?

La Poesia è arrivata presto nella mia vita, ma non mi sono reso subito conto che si trattasse di Poesia. Ho sempre scritto molto, fin da bambino, riflessioni, pensieri. Al di là del possibile valore di quello che scrivo, se alla mia età attuale mi guardo indietro, posso dire con certezza che era nel mio destino scrivere. Non ne faccio un discorso di valore assoluto, ma mi riferisco ad una mia indole personale.

Pur amando stare con gli amici, sono stato un ragazzo molto riflessivo ed ho sempre letto molto. Mi è sempre venuto naturale “stare in ascolto”. I miei primi versi, scritti intorno ai 14-15 anni, erano più cupi. La mia poetica si è evoluta anche in una modalità più positiva di visione delle cose e della vita.

Negli anni, ho letto anche tanta narrativa, che ho amato ed amo ancora molto, però il mio linguaggio è la scrittura in versi, che sono come delle fiammate che mi raggiungono e che, poi, vanno certamente rielaborate il più delle volte, però il corpo della Poesia nasce nella sua interezza, nella mia esperienza personale di scrittura. I versi sono un flusso che quando arriva è bruciante.

Ho sempre scritto nella mia vita. Però, per molti anni, anche per motivi lavorativi e familiari, non ho mai pubblicato nulla. Alla pubblicazione sono approdato in età più matura, per il desiderio di raccogliere un po’ dei miei scritti. Mi sono così reso conto di quanto fosse importante per me. Ho dedicato tantissima parte della mia vita a fare altre cose, ma, dopo la prima pubblicazione, ho avvertito quanto fosse importante per me non trascurare più questa modalità di espressione. Ho così deciso di darle spazio e non me ne pento. A prescindere dal valore di quanto ho scritto e scriverò, se non avessi dato spazio a questa parte di me non sarei mai stato pienamente io.

Vorrei concludere questo nostro incontro con una Poesia della tua raccolta “Un uomo tra gli uomini”: “Ho scritto quel che senza voce ho udito / abbracciando vita, corpo e Dio. / Pronto a esplodere, a morire / m’hanno salvato la penna e la poesia.” In questi versi credo sia condensata tutta la tua poetica profonda. In che modo la Poesia ti ha salvato? Di quale salvezza è capace?

La Poesia mi ha salvato perché mi ha permesso di non lasciare inaridire e morire il vero me stesso, che, altrimenti, sarebbe stato soffocato dalla vita quotidiana. Lasciare spazio nella mia vita alla Poesia, mi ha permesso di rendermi conto di come il quotidiano sia una piovra, che avidamente ci sottrae tutte le nostre energie ed il nostro tempo. È davvero importante lasciare spazio anche ad altro nella nostra vita, perché è lì che si annida il vero io, chi siamo veramente. La Poesia salva nel momento in cui ci impedisce di morire dentro, di spegnerci, di diventare quello che non siamo. Questo discorso non è valido solo se riferito alla Poesia, ma a qualsiasi altra forma d’Arte, senza la quale si corre il rischio di morire senza nemmeno aver conosciuto quelle che erano le nostre potenzialità, le doti innate che ognuno di noi ha, ciascuno nel suo campo. Per me la Poesia è stata un’ala, mi ha portato su, seppur di pochi metri, dalla vita che facevo e, adesso, grazie a Lei, posso vederla sotto un altro aspetto e capire quanto tempo ho perso in cose per cui non valeva davvero la pena e quanto sia importante, ora, cercare di rimediare.

Qualche anno fa, ho attraversato una fase di dubbio, di ripensamento sul mio fare poetico e, in quel momento della mia vita, ho incontrato una persona decisamente importante per il mio percorso poetico: il poeta Massimiliano Bardotti. Io credo nel destino e quel nostro incontro doveva avvenire in quel dato momento. La Poesia è una dimensione bellissima, però, anche faticosa e ci sono momenti che diventano incagli difficili da superare; lui mi ha aiutato a farlo, a non arrendermi davanti alle difficoltà che avevo incontrato. Ho seguito i corsi di Poesia che ha tenuto nella sua Scuola, a Castelfiorentino e in zone vicine, e mi sono stati molto utili, non solo per avere maggiore consapevolezza della necessità di porsi in ascolto e imparare a svuotarsi per accogliere la Poesia, ma anche per tutti i poeti che, attraverso la sua Scuola ho potuto conoscere e apprezzare, e che mi hanno permesso di capire l’importanza della condivisione nella dimensione poetica. La Poesia è un atto del singolo, indubbiamente, però si alimenta anche dell’apertura verso chi nutre le stesse aspirazioni, se si ha la fortuna di incontrare persone disponibili al dialogo.

Grazie, Paolo, per la luce delle tue parole. Lascio che sia tu a scegliere come salutarci….

Vorrei salutarvi, leggendovi la Poesia “Accoglimi” che apre “Oltre il buio della notte”. Per riallacciarmi al discorso sull’amore, in questa Poesia faccio riferimento ad un amore terreno, ma anche ad un amore di ispirazione divina.

“Ci riconosceranno le stelle / manto pietoso al nostro passare / avremo ali nuove e voci da ascoltare./  Dentro tutti i nostri voli / sulle pendici dei monti mai scalati / sarà doloroso e raro / il pentimento di non aver vissuto / un moto come onda che freme / turbamento liquido al domani. / Altre mani attendono il ritorno; / avremo un cielo cupo / o forse un nuovo giorno / per dissetar la sete / ma intanto accoglimi / lasciami cantare, d’un albore nuovo / a incenerire il sole.”

Clicca qui per il video dell’ intervista al Poeta Paolo Parrini su youtube https://www.youtube.com/watch?v=7JlYG4E4D9Y&t=261s

Biografia di Paolo Parrini

Paolo Parrini (Vinci, 1964) vive a Castelfiorentino (Fi). Si laurea a Firenze in Scienze Politiche indirizzo storico nel 1992.

Ha pubblicato sette libri di Poesia:

“Di vita, di solitudine e di amore” (Pagine Edizioni, 2015);

“Di luce e d’ombra” (Aletti Editore, 2016);

“Tra la terra e il cielo” (Aletti Editore, 2018);

“Quando cadranno i giorni” (Giuliano Ladolfi Editore, 2019);

“Oltre il buio della notte” (La Vita Felice Edizioni, 2019);

“Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020);

“Dentro tutte le cose c’è amore” (Puntoacapo Edizioni, 2021).

“Quando cadranno i giorni” (Giuliano Ladolfi Editore, 2019) ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra i quali la vittoria al Premio Giovanni Pascoli L’ora di Barga 2019, il quarto posto al Premio Internazionale Città di Latina 2019, si è, inoltre, classificato tra i trenta finalisti al Premio Camaiore 2019, il quarto posto al Premio Letterario Città di Grottammare nel 2020.

“Oltre il buio della notte” (La Vita Felice, 2019) si è classificato tra i ventuno finalisti al Premio Camaiore 2020.

“Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) è attualmente tra i sei finalisti al Premio Città di Latina.

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CON L’OPERA NON SI BARA. LA DIGNITÀ NELL’ARTE COME NELLA VITA

Conversazione con GIAN RUGGERO MANZONI

(poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer)

 

  1. Uno dei Suoi libri a me più cari è “Il dolore” 1. Ne ho attraversato le pagine come si attraversano le grandi cattedrali vuote nel tardo pomeriggio, in punta di piedi, per non interrompere il silenzio nel quale scorrevano le Sue parole e il Suo rapporto con la figura di Suo padre. E tutto questo è arrivato a me, lettore, come qualcosa di sacro, da maneggiare con cura. Che cosa è veramente  sacro per Lei?

In primo luogo la vita. Sì, la vita è sacra e, come compimento della vita, lo è anche la FOTO IN EVIDENZAmorte. Sono convintissimo che il grado di civiltà e di elevazione di un popolo lo si deduca dal suo modo di confrontarsi con la morte, con questo passaggio. Sacra è anche la poesia, la scrittura, sacra è l’opera per se stessa. Noi siamo chiamati a santificare la nostra vita, e in questa nostra esistenza c’è il lavoro, c’è l’opera che io vivo ed ho sempre vissuto come una dimensione sacra. Questo pensiero è molto vicino ai mistici ebraici, per i quali si glorifica Dio, la divinità anche tramite il lavoro che si fa. Se tu sei un calzolaio devi essere il miglior calzolaio perché è nel tuo fare che non solo glorifichi la vita e il tuo essere, ma anche  la divinità, il tuo Creatore. Ma se si vuole evitare di parlare di divinità, il glorificare la propria vita  e rispondere alla chiamata a certe dimensioni dell’essere, è già un essere nel sacro. Ogni gesto, ogni parola ha la sua dimensione altamente liturgica, per cui la vita stessa diventa una dimensione sacrale. Questo l’ho imparato negli anni. Tutto, dai gesti della vita di ogni giorno, al lavoro che compi, all’amore per il tuo o la tua partner, fino ad arrivare addirittura al gesto amoroso, all’amplesso –  che ha una sua sacralità se è vissuto nella giusta maniera –  tutto io penso che dipenda da questo: dal senso di sacro e dal valore sacro che tu attribuisci a questa tua dimensione terrena.

  1. Sempre nel Suo libro “Il dolore”, in un verso fa riferimento al vuoto: “Con il fango si modella il vaso, e l’impiego del vaso sta nel suo vuoto”…L’impiego del vaso sta nel suo vuoto, proprio in quel vuoto che ci fa tanta paura! I Suoi versi mi hanno richiamato alla memoria Heidegger che, nel suo saggio “La cosa”, affronta lo stesso passaggio,  così come lo fa la tradizione taoista, nel testo “Tao Te Ching” in particolare. La parola vuoto poi, in un verso di “Tutto il calore del mondo” 2  Lei la cesella, tra due punti, uno all’inizio ed uno alla fine della parole, quasi a contenerlo: ”La talpa. Il vuoto. La Bestia”.  Ma al vuoto Lei non fa riferimento solo nella Sua espressione scritta, ma anche in quella pittorica, perché nelle Sue opere io riscontro un‘ alternanza di pieni costruiti con il colore  e di vuoti, se non di forme,  di spazi. Che cosa rappresenta il vuoto per Lei? Come artista, in che modo si confronta o si scontra con il vuoto,  in tutte le sue manifestazioni?

17457670_10212587748750936_622643375654266701_nPer ritornare al discorso che si faceva prima, questo vuoto va riempito. È  in questo gioco tra vuoti e pieni che si svolge la nostra vita e ne prende forma. Il vuoto non è il nulla del nichilismo, il vuoto è componente fondamentale al fine di dare una dimensione e una direttiva al nostro essere. Si nasce vuoti,  ingenui, puri, privi di qualsiasi struttura o sovrastruttura, si ha solo la dimensione genetica che ci hanno trasmesso i nostri genitori, però,  intellettualmente parlando, si è ancora vuoti, e solo in seguito apprendiamo, via via ci viene insegnato e capiamo. Io penso che il vuoto sia il percorso; il vuoto è il cammino dell’intera vita, e credo che si muoia quando il vaso è colmo, ovvero quando si è  arrivati al massimo grado di consapevolezza. Ciò potrebbe sembrare paradossale, iperbolico se riferito alla morte di un bimbo, eppure sono convintissimo che un bimbo muoia perché in quell’età aveva già raggiunto la massima pienezza. Io penso che si muoia nel momento in cui si raggiunge la massima consapevolezza della vita, che può essere racchiusa  anche in un sorriso, in un sorriso di un bambino appunto. Probabilmente quel bambino aveva capito molto più di noi che viviamo invece per 70, 80, 90 anni. Ecco, quanto ho descritto è il vuoto per me, il vuoto a cui siamo chiamati al fine di riempirlo. Infatti, nella metafora che hai citato nella mia poesia, si evidenzia come stia proprio nel vuoto il valore del vaso, perché è in quel vuoto che il vaso assume un compito come contenitore. Noi siamo dei contenitori fondamentalmente, il nostro corpo contiene, e siamo a nostra volta contenuti. Possiamo definirlo un bellissimo “gioco” tra vasi comunicanti, per cui noi assorbiamo il sapere, ma, nello stesso tempo, diamo sapere, cognizione e conoscenza di ciò che ci circonda; riempiamo e, contemporaneamente, ci riempiamo. Questo è il vuoto. È fondamentale il suo valore, perché ci consente di dare lettura alla condizione e alla dimensione in cui noi stiamo vivendo.

  1. Mi tengo ancora agganciata a quel vuoto per chiederLe prima di tutto se è stato necessario fare vuoto dentro di Sé per affrontare la traduzione dell’Esodo 3 e della Genesi dal greco antico e cosa Le ha rivelato di Gian Ruggero Manzoni la traduzione? Perché, in fondo, tradurre significa anche accettare di essere “tradotti” dal testo. In un modo del tutto inaspettato, la traduzione può diventare anche un’occasione di incontro con se stessi, a volte. È stato così anche per Lei?

Certamente! Soprattutto quando ti parametri con il Testo Sacro per antonomasia ed, in4aggiungi particolare,  con una delle componenti del Pentateuco. Ho iniziato con la traduzione dell’ Esodo perché lo considero un libro fantastico e perché mi ha sempre affascinato la figura dell’ebreo errante. Io ho amato moltissimo nella mia vita un poeta che considero grandissimo: Edmond Jabès. Mi è sempre piaciuta la figura dell’errante che poi  errante non è. È errante su questo pianeta per conoscere, per vedere, per incontrare, ma non lo è dal punto di vista della Fede,  del sapere o della consapevolezza di sé. Nell’Esodo mi sono ritrovato in alcune figure portanti, ma non in quella di Mosè, non mi sento e non mi sono mai sentito una guida di tale spessore, di tale grandezza! Mi sono ritrovato, invece, in certi personaggi apparentemente marginali, come Aronne e Giosuè. In Giosuè ho ritrovato tante parti di me stesso! La grandezza della Bibbia, del nostro Libro Sacro è questa: l’interscambiabilità, la possibilità di mutare il rapporto con la stessa, “entrando” nei vari personaggi,  fino ad arrivare, nel Nuovo Testamento, e diventare un tutt’uno con il Cristo stesso. Passare alla traduzione della Genesi – che spero di pubblicare a breve –  dopo l’Esodo era inevitabile! O si passava alla Genesi oppure sarei dovuto saltare all’Apocalisse, e non è detto che non  lo faccia! La Genesi mi interessava non tanto per la dimensione della Creazione quanto per un momento in particolare: la costruzione della Torre di Babele 4, la mutazione nei vari esseri viventi del linguaggio, e la conseguente incapacità degli uomini di riuscire a relazionarsi quale punizione divina. È la superbia umana che ci divide! Se Dio nella Bibbia conferisce ad Abramo la capacità di dare il nome a tutto ciò che lo circonda, ovvero dà la possibilità all’uomo di chiamare il suo spazio, di chiamare il suo luogo, di chiamare gli elementi che compongono il suo stato e di chiamarsi, ecco che con la Torre di Babele tutto crolla. Prima della Torre di Babele ci si capiva tutti, dopo non ci si capiva più. Penso che nella Genesi sia interessante proprio questa contrapposizione tra la nascita e il divenire del nostro essere,  e l’incapacità di poter trasmettersi l’un l’altro questo nostro bagaglio, questa nostra testimonianza di percorso. Questo mi ha appassionato particolarmente e penso che possa e debba interessare a tutti coloro che si avvicinano alla parola. Credo sia fondamentale la conoscenza e l’approfondimento dei tanti idiomi, dialetti, vernacoli che popolano il mondo. Mi ha sempre stimolato conoscere qual è il diverso modo di chiamare le componenti fondamentali del nostro essere. Per esempio, ho riflettuto lungamente sul nostro dialetto romagnolo, che ci ha dato e sta dando dei grandissimi poeti: Raffaello Baldini, Tonino Guerra, Giuseppe Bellosi, Giovanni Nadiani scomparso di recente e Nevio Spadoni. Nel nostro dialetto romagnolo la parola “amore” ben poco viene usata,  preferendo il “ti voglio bene” al “ti amo”. La parola amore, invece, viene più adoperata per indicare il sapore, “amòr” (sapore=amòr). È  molto interessante scoprire come una parola che in italiano  esprime  il sentimento più alto, nel dialetto romagnolo non venga pronunciata per pudore (perché l’amore, per i nostri vecchi che parlavano in dialetto, era considerato un assoluto che, probabilmente, si rivolgeva esclusivamente agli assoluti appunto, e nella vita era troppo dire ti amo, e l’amore si esprimeva verbalmente con un “ti voglio bene”) e venga invece  usata per indicare il sapore. “Ha un buon amòr” ovvero “ha un buon sapore”. È bello questo! Io penso che nella Genesi la questione inerente la Torre di Babele e la mutazione del linguaggio, per quanto sia stata sconcertante, ha fatto sì che noi potessimo maggiormente indagare sulla nostra lingua, sulla lingua dei nostri padri  e, contemporaneamente, sulla lingua altrui. Per cui anche quella che sarebbe dovuta essere una punizione divina, è diventata un’occasione “misericordiosa” perché ci ha concesso poi –  per chi lo coglie ovviamente – un altro piacere. In questo, fondamentalmente, risiede il senso del tradurre sia l’Esodo che la Genesi da una lingua morta come il greco antico, così come dall’aramaico e dall’ebraico antico (diverso da quello moderno): prendere coscienza e stupirsi di vedere come una stessa immagine sia stata espressa in greco, in ebraico, in aramaico. Il grande piacere della traduzione e il suo senso profondo risiedono soprattutto nel rapporto con la lingua, con il suono, con il nostro suono, con la nostra voce;  ti viene affidato un testo e tu devi cercare di tradurlo al meglio nella tua lingua, dopo averlo compreso.

 

  1. In principio erat Verbum. In principio fu la parola, un suono credo, e la sua vibrazione di fondo. Credo che anche all’origine della creazione di un’opera d’arte ci sia una vibrazione, un suono interiore. Cedo allora alla tentazione di rivolgerLe la domanda che Jak Gambardella nel film “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino pone all’artista performer Talia Concept,  senza purtroppo ottenere risposta. Cos’è per Lei una vibrazione?

4okLa mia è la generazione delle “Good vibrations”, delle “buone vibrazioni”. Sono nato nel ’57 e in quegli anni l’espressione “buone vibrazioni” veniva usata spesso, ma era una metafora per stimolare alla ricerca del raggiungimento di un’armonia interiore e al tentativo di trasmettere e ricevere armonia dagli altri.

Ma in riferimento  al suono, entrando più propriamente nella questione della scrittura e dell’oralità,  io penso che la buona vibrazione ci venga data dalla giusta  modulazione della nostra stessa voce, dalla capacità di saper leggere e  dalla capacità di “vivere” la vibrazione. Questo è molto importante anche per il poeta! Non sono molti i poeti capaci di recitarsi, però anche questo, a mio avviso, dovrebbe far parte del loro bagaglio, perché non dimentichiamo  che il poeta è nato con una cetra in mano, cantando quello che aveva scritto e che aveva immagazzinato da altri prima di lui. Pensiamo alle canzoni di gesta, provenzali, e al rapporto diretto tra la parola orale, la parola scritta e la musicalità. La buona vibrazione è data dalla capacità di trovare in se stessi il giusto tono e, di conseguenza, anche la giusta armonia, riuscendo così a trasmetterla anche esternamente. Anche le “buone parole” sono  buone vibrazioni.

Ritornando, poi,  alla prima domanda sul sacro, quando sei  in grado di cogliere la vibrazione tu vivi  una sacralità. La vibrazione, flow, è il flusso che ti arriva dall’esterno e che tu emani di tuo verso l’esterno. La vita stessa è una questione di flussi,  e ritorniamo al discorso  del  vuoto e del pieno. Per questo motivo ho detto prima che esiste una sacralità anche nel congiungimento carnale, perché è uno scambio di flussi, di energie, di vibrazioni. La vibrazione è quel tremito, quella dimensione archetipica molto vicina all’origine che ti appartiene e che, allo stesso tempo, è parte del grande suono che è l’Universo. Ora sappiamo che non esiste silenzio nell’Universo, ma tutto ha un suono, gli stessi pianeti  che ruotano hanno un suono. Noi siamo circondati dal suono. Io penso che quando si nasca si abbia come patrimonio anche questo suono, e riconoscere il proprio suono e  il suono dell’altro è fondamentale per poter vivere in armonia. Viviamo in un mondo sempre più caotico in cui la parola viene usata molto male, spesso con grande volgarità ed urlata e, di conseguenza,  manca in essa la giusta vibrazione. Mi riallaccio al discorso sulla liturgia fatto in precedenza perché penso sia fondamentale e “ liturgico” usare la parola con la giusta intonazione e quindi con la giusta vibrazione. Quanto è importante sviluppare la grande capacità di entrare in sintonia completa con il tuo suono, cioè quello che dell’Universo hai in te! Ricordo un’azione artistica, al Beaubourg di Parigi, di un artista francese che aveva riportato esclusivamente il suono del nostro pianeta Terra, registrato da satellite. È  un suono verso la e, è un eeee  all’infinito. Quando entrai nel Beaubourg  subito pensai che in quel eeeee, in quel suono c’ero anch’io, ci siamo tutti. Siamo nel suono del nostro pianeta, ne facciamo parte, ma, contemporaneamente,  siamo anche nel suono della totalità,  perché sono convintissimo che l’uomo abbia in sé il germe totale dell’origine, sta a noi scoprirlo.

  1. Di uno dei Suoi reading poetici presenti su YouTube, dal titolo “Il lento movimento dei ghiacci”5 ho trattenuto un verso: “L’estasi non la si può rubare all’altro. Ognuno l’ha di suo, al pari della strada che l’ha generata”. La strada che genera l’estasi nell’arte, attraversa spesso la terra del dolore. Lei è stato visitato tanto dal dolore nella Sua vita (mi riferisco anche all’esperienza di guerra). In che rapporto, secondo Lei, si pongono le ferite della vita e l’esperienza dell’estasi?

Entriamo in un campo molto delicato, profondissimo, basilare, fondamentale per la 2oknostra esistenza. La nostra esistenza è spesso dolorosa, è quasi totalmente dolorosa, ma non scopro nulla di nuovo. Considero doloroso anche quando un uomo se ne sta mani in mano. Il non fare nulla, lo stare al mondo, essere vivo e non fare è, forse, il dolore più intenso che l’uomo  possa esprimere.

L’esperienza del dolore è sicuramente  un passaggio fondamentale della vita, fa sì che tu poi riesca a cogliere l’importanza di ogni attimo della tua esistenza e di  quello che veniva definito “il senso di morte” che non è il male di vivere, la depressione, non è la malinconia, ma il sapere che si nasce per morire, e che già nel momento del concepimento, siamo in viaggio verso la morte. Questo è il dolore profondo dell’uomo: sapere che, pur essendo verbo incarnato, parola, suono, vibrazione incarnata, un giorno terminerà, finirà, e il rapporto continuo con questa componente diventa estatico. Ecco, l’estasi è questa capacità, che definirei “eroica”,  di riuscire a continuare a vivere pur sapendo che comunque ci aspetterà la morte. Vivere facendo, dando senso, spessore e  dimensione fideistica a questo tratto di strada che ci vede in questa dimensione, con la consapevolezza che passeremo momenti di grande dolore e che finiremo. Questa è l’estasi.

Poi si arriva all’estasi dei santi, dei mistici, nei quali lo stato contemplativo non è da confondere con lo stare mani in mano, perché non si tratta assolutamente di uno stato passivo, ma di uno stato attivo, perché nella contemplazione, come nella meditazione,  c’è compenetrazione, per cui si è  in movimento, non in stasi. I mistici raggiungono le somme vette dell’estasi  – ma lì arriviamo nei massimi sistemi, lì arriviamo ai sommi – per noi invece, nella nostra semplicità, nella nostra umanità e quotidianità, l’estasi è la capacità di  riuscire a cogliere la bellezza e il senso profondo di questa esistenza  molto dolorosa, nonostante si assista sempre più spesso  a quale grado di bestialità può ridursi l’uomo nei confronti di un altro uomo.

Per tornare al nostro discorso artistico-creativo, difficilmente si riesce a trasformare l’estasi in parola scritta o in un segno. Forse in pittura si ha qualche possibilità in più che nella scrittura, anche se questo si rivela comunque molto difficile, come peraltro è impossibile fermare totalmente in arte  i sentimenti e le emozioni che si vivono. Anche questo fa soffrire, è un ulteriore dolore che ci costringe a fare i conti con il nostro limite e a tentare di trasformarlo in qualcosa di prezioso,  perché anche questo nostro limite ha in sé una componente estasiante (strettamente legata a estetico, estasi-estetico) per cui c’è il bello oltre il dolore. Il dolore ti fa cogliere il bello: questa è l’estasi. Anche in questo la figura del Cristo insegna. Nella componente massima del martirio e della macerazione della carne c’è bellezza oltre il dolore, una bellezza ed una grandezza sconcertanti. È logico che delle ferite e del dolore della vita si farebbe molto volentieri a meno, ma è fondamentale cercare di  dare un senso profondo anche al dolore.

  1. Che valore dà all’attesa? E nell’arte, quanto è importante saper aspettare per il pittore e quanto lo è da critico d’arte, invece, quando si pone in relazione con un’opera?

1okCome ho già detto prima, la vita stessa è un’attesa, siamo qui tutti in attesa dell’evento finale. I vari discorsi che stiamo affrontando sono collegati. L’attesa esiste ed è il momento in cui tu aspetti che la tua vibrazione interiore, il tuo flusso interiore, la tua energia interiore si ricongiunga con l’energia dell’intero o, per chi è credente, del divino. Quello è il momento massimo della creatività che può essere poi testimoniato su carta, su tela, a livello teatrale, cinematografico, soprattutto musicale, ma può anche non essere testimoniato. Però esiste, ed io confido che esista in tutti gli uomini, anche in quelli che non si propongono dal punto di vista creativo ed artistico. In tutti gli uomini questa attesa è l’attesa del superamento di una condizione, quella umana, per entrare in un’altra condizione quasi metafisica, metaempirica. È quella dimensione che non ha né spazio né luogo, che non ha componente entropica,  non è governata dal  caos, bensì è la dimensione dell’essere completo. L’attesa è  attendere questa dimensione.

Lo stesso accade quando tu vieni a contatto con un’opera d’arte o anche quando vieni a contatto  con un’altra persona, con un oggetto, con la tua penna stilografica, addirittura con la tua automobile. Lo sperimenti tutte le volte che entri in relazione con qualcuno o qualcosa e cogli l’essere completo di ciò che stai fruendo. Ho citato ad esempio l’ automobile. C’è chi vede un’automobile solo come un ammasso di ferro in cui c’è dentro un motore, però l’automobile è, in realtà, una proiezione dell’uomo, così come lo è il computer. Quando salgo nella mia automobile non vedo solo un ammasso di ferro, vedo un cuore che batte e che sono i pistoni, vedo  tubature che sono le vene, vedo un essere. È fondamentale saper cogliere l’essere e il fare umano in tutto ciò che ci circonda. L’attesa è quel momento in cui tu entri nella stessa lunghezza d’onda di ciò che hai davanti. E così siamo ritornati al suono, alla vibrazione, a tutto ciò che si è detto finora. Quando entro nella mia auto vedo anche l’operaio che l’ha costruita, vedo  l’operaio che,  prima di aver dato il volante a quello che l’ha assemblato, ha dato vita a questo volante, vedo il primo della filiera che ha dato filettatura alla vite. Nella capacità di ampliamento, nella visione a 360° di un’opera (quadro, scrittura, musica) o del lavoro altrui con cui entriamo in relazione, risiede il senso profondo. Mi sento romantico anche quando parlo di tecnologia  perché il romanticismo è quello struggimento che ti prende quando riesci a cogliere “il tutto” e ad entrare in rapporto anche con l’operato umano – perché anche quello fa parte di noi – diversamente dai  primi romantici il cui  rapporto era con la natura, con tutto ciò che li circondava e di cui facevano parte. L’attesa è il mettere a fuoco la conoscenza, per cui l’attesa è uno stato di coscienza, di  consapevolezza. L’attesa è il momento in cui tu sei consapevole, e l’oggetto o l’altro fuori da te, è a sua volta consapevole e ti emana, ti riflette una sua consapevolezza. Mio nonno aveva una vecchia bilancia a due piatti sorretti da due asticelle che misuravano il peso dell’uno e dell’altro piatto. Quando le due asticelle erano allineate voleva dire che su ambedue i piatti c’era lo stesso peso. Ecco,  quando le due asticelle della bilancia sono a contatto e sulla stessa lunghezza, quello è il momento in cui dall’attesa tu passi alla dimensione attiva, e l’evento si è creato.

  1. È stato chiamato alle armi ormai molti anni fa, e poi la vita Lo ha chiamato all’arte…Quanto Le costa questa chiamata all’arte come artista? E da critico d’arte, quanto si deve essere grati al fiat dell’artista?

5OKIo ho sempre detto, e continuo a sostenerlo, che la capacità di esprimersi creativamente, artisticamente è innata. Il talento o ce l’hai o non ce l’hai. Che poi si possa essere artisti o poeti di vita anche senza scrivere una poesia e che si possa essere pittori anche senza dipingere,  questo l’ho ribadito anche prima, ma la capacità di riuscire a trasformare in opera non si impara, ce l’hai di natura. Il quid famoso c’è o non c’è.  Sono convintissimo di quello che diceva Baudelaire, ovvero  che per 23 ore e 59 minuti si è tra virgolette “degli ebeti” e poi c’è quel minuto nella giornata in cui si scatena il tutto, nella persona che ha quel quid. La chiamata all’arte diventa da un lato esaltante, perché si pone tutta la propria vita al servizio di quel quid, di quella componente innata, però, nello stesso tempo, può diventare dolorosa per il motivo a cui ho accennato prima, ovvero per la nostra incapacità quali esseri umani, quali esseri imperfetti di riuscire a rendere, tramite un linguaggio,  quello che sentiamo. Io penso che la massima forma d’arte e il massimo grado di esplicazione di quello che uno sente dimori  in una carezza, in un bacio, in un palpito, in un leggero sfregamento tra essere ed essere, tra te ed un albero, tra te e il tuo cane, perché in quel caso non hai bisogno del linguaggio. Ecco perché è tanto importante il corpo!  Non rendiamola demoniaca questa materia, perché ci permette di supplire alle tantissime impossibilità del linguaggio. La nostra completezza, seppure nell’imperfezione, è proprio in questa unione anima-spirito-mente e contemporaneamente corpo. Forse è in questa unione che si riesce veramente a cogliere quel momento estatico (e ritorniamo ancora all’estasi). Il dolore, come ho detto e voglio ripeterlo, è nella consapevolezza che non si riuscirà mai ad esprimere fino in fondo ciò che veramente si sente. Lì ci viene in aiuto il corpo: gli occhi, uno sguardo, un sorriso, una lacrima. Forse lì abbiamo il compimento e il pieno di quel vuoto di cui si parlava prima. Questo è il senso profondo dell’essere in arte.

L’essere in arte vuol dire cogliere il tutto o tentare di cogliere il tutto, per poi riuscire, bene che vada, ad esprimerne un decimo, e questo è il dolore per ciò che senti e che non riesci ad esprimere, anche se hai tutte le parole del mondo dalla tua parte, anche se hai tutta la  capacità nella mano per tracciare un segno, un profilo, anche se hai l’orecchio assoluto se sei un musicista. L’incapacità di arrivare a definire il tutto, questo è il massimo dolore. Ma, come dicevo prima, in questa consapevolezza c’è anche la nostra massima forza! Questa consapevolezza è anche la bellezza, l’estasi di cui ho parlato prima, la dimensione estetica e, sotto tanti punti di vista, anche etica perché nella conoscenza dei nostri limiti si entra anche in una dimensione etica e si riesce a dare un valore e un senso morale al nostro essere, alla nostra vita e alla vita in generale. Lo stoicismo viveva di questo, ed io ho sempre amato gli stoici e in fondo mi sento uno stoico per questo. Penso che l’arte sia un continuo inseguimento di una perfezione che non raggiungeremo mai, ma forse questo è il senso profondo della vita e dell’uomo e non solo dell’arte, cioè sapere che non si arriverà mai alla meta e si continuerà sempre invece a ricercarla.

Tu sai benissimo che come essere umano non potrai toccare l’Assoluto e il sapere chi sei, perché sei qui e dove si andrà, potrai solo sfiorarlo. Potrai averne parvenza per un attimo, ma per un attimo impercettibile. E lo stesso accade con la Verità: sai dov’è la Verità, la senti, la cogli, però poi questa ti sfugge. È una continua ricerca per raggiungere quell’attimo. Il famoso Aleph di Borges, la visione totale. Ecco, l’artista sa questo, mette in atto il suo talento per tentare di far sì che appaia l’Aleph, che appaia la visione del tutto anche solo per un attimo, anche solo per un secondo. È quasi alchemica la cosa! Anche solo quel secondo compensa l’intera vita. Non si sfugge da questo! Quel secondo ti ripaga di tutto, della tua ricerca, del tuo studio, della tua applicazione…Ti ripaga di tutto.

  1. Vorrei concludere rivolgendoLe la domanda che Cezanne fece a Vollard pochi anni prima di morire: “Non è forse l’arte una forma di sacerdozio, che richiede al puro di cuore una consacrazione totale?”

Certo! Diventa una missione di vita, diventa un’abnegazione, un darsi totalmente. Per8C OK Ph. Matteo Bosi anni e anni,  se io passavo una giornata senza aver affrontato la tela bianca o il foglio bianco, anche solo per fermare una parola con la mia penna stilografica (io ho sempre amato scrivere con la penna stilografica! Poi mi sono dovuto adeguare alla macchina da scrivere, e adesso al computer, però la piacevolezza della penna stilografica resta sempre. Chiamatemi passatista, ma io amo ancora l’inchiostro che va a segnare, a tratteggiare, a fermare, a vergare!) stavo male, ma non perché avevo questa necessità di esprimermi, ma perché mi sentivo in colpa nei confronti di ciò che mi era stato donato. La capacità di esprimersi creativamente, artisticamente, è un dono, è un grande dono come lo è per un buon falegname riuscire a fare dei bei mobili, per un muratore riuscire a  costruire delle case e via discorrendo. Per essere sincero anche adesso, che ho 60 anni, se passo un giorno così, a pescare ad esempio, anche se sono consapevole che quel momento mi serve per accumulare  energie, sensazioni, pensieri, visioni che poi confido prenderanno forma, in seguito, o sulla carta o su tela o su altro ancora, avverto ancora quel senso di colpa! Se io dicessi che non ho mai avuto timore di affrontare il foglio bianco o la tela mi si potrebbe prendere per matto, ma è così! Io non ho mai avuto paura, anzi! Era lì che iniziava la mia vita! Era lì che io iniziavo a sentirmi al mondo e ancora adesso è lì che inizio a sentirmi al mondo, ed è per questo che quando non facevo e non ho fatto mi sono sempre sentito in colpa nei confronti della mia vita, del tempo che mi è stato dato e di quello che sarà in questa dimensione. Ecco, questo è il senso del sacerdozio. Nell’arte si è sacerdoti 24 ore al giorno. Se sei chiamato a questo non puoi rinnegarlo, è un atto blasfemo. Io ho avuto amici che purtroppo, pur con grandi talenti, hanno deciso, a un certo punto, di smettere, perché il fare arte li distruggeva. Può anche distruggere fare arte! Proietti talmente tante energie che può anche distruggerti. Bisogna stare molto attenti! Bisogna saper diluire le forze, perché hai a che fare con l’opera, col palpito… è vita, bisogna curarla e curare te stesso mentre pratichi, perché ci si può rimanere dentro, ci si può morire e tanti sono morti di arte in questo rapporto con l’espressione, con la creatività.

Sì, si è sacerdoti nell’arte. È per questo che dicevo che ogni gesto, ogni parola, ogni incontro assume poi una sacralità. È fondamentale questo. Se non ci poniamo come esempi, e il sacerdote si deve porre come tale (veste una divisa), questo mondo è in grave pericolo! Se si perde questa sacralità legata all’opera, al lavoro, allo spirito che lo anima – e non mi riferisco solo a noi che facciamo arte, ma anche agli altri, anche all’impiegato che lavora 8 ore ad una scrivania – siamo finiti, e l’Occidente sta rischiando moltissimo da questo punto di vista! C’è un involgarimento e c’è anche tanta gente che si inventa creativa senza esserlo. Ormai si è arrivati al punto che tutti vogliono stampare il loro libro, tutti vogliono fare la loro mostra di pittura e va benissimo! È giusto che la gente si esprima, ma attenzione! Da qui ad essere sacerdoti ce n’è ancora. Innanzitutto devi avere una Fede forte, mentre molti confondono la ricerca di identità o l’ego come Fede. E no! Non ci siamo! Che l’artista sia anche molto spesso un egocentrico fa parte dell’iter della creatività, ma deve essere un ego poi motivato e sostenuto dall’opera, diverso da questo debordante bisogno di protagonismo dilagante che  rivela una società che sta perdendo il senso del sacro.

In una società in cui il sacro è dominante, invece, ognuno dà il giusto valore sia a se stesso che all’altro. Per cui tu sarai bravo a fare l’idraulico ed io sarò bravo a  scrivere una poesia, ma non è che io sia migliore dell’idraulico o lui è migliore di me, però si riconoscono i ruoli. Viviamo in un mondo in cui i ruoli non esistono più e, di conseguenza, non esiste più neanche l’autorevolezza del ruolo. Il sacerdozio implica un’autorevolezza. In questo sono molto vicino a Savonarola, sono molto etico. Se ti poni in una maniera, devi essere coerente. È questo che manca in chi si improvvisa. È giusto dipingere, però non confondiamo quello che è hobby o diletto, con quello che è lavoro, con quello che è opera, cioè ricerca continua, tentativo di svelamento, tentativo di raggiungere quella perfezione che si sa mai raggiungeremo, ma che è comunque il nostro compito come esseri umani. Infatti si scoprirà probabilmente che cos’è l’Universo, cosa siamo noi in questo Universo, però probabilmente si apriranno anche porte per altri Universi. Se non si ha questa visione dell’infinitudine e degli assoluti che implica questa infinitudine –  perché in questa ricerca non si va avanti a random! – non si può essere sacerdoti! È  inconcepibile che ci siano migliaia di poeti in Italia che stampano un libro e non leggono i libri degli altri. Io dico sempre che se tutti quelli che scrivono, comprassero un libro di un altro, finirebbero i problemi editoriali, ma tutti scrivono e nessuno legge. Ma prima di scrivere bisogna leggere! È inutile che ci si inventi. Non si può scrivere, dipingere, scolpire non interessandosi  minimamente di ciò che è stato scritto o di ciò che si sta scrivendo, dipingendo o scolpendo. Ci si deve rendere conto di far parte di una catena, come lo è lo scienziato, e si deve avere il giusto rispetto nei confronti di questo, ben sapendo che dopo di noi verranno altri che tenteranno di dire l’indicibile.

Non esiste più nemmeno la critica, oggi si fa della cronaca! Si raccontano le mostre, si racconta ciò che uno ha dipinto, ma non si entra in ciò che quell’artista ha dipinto. E la stessa cosa si fa per i libri, si fa della cronaca dei libri, dei romanzi si parla della trama così come lo si fa dei film, ma non si cerca di dire qualcosa in più. Sono rimasti pochissimi i veri critici. Anche quello è un ruolo fondamentale che sta venendo a mancare. Più nessuno è in grado di fare critica, oppure i creativi stessi si pongono come critici e, tante volte, questo non è un bene, perché ci dovrebbe essere una critica neutra, una critica esterna al mondo della creatività, una critica che ti sa leggere senza coinvolgimento diretto del proprio ego. La mancanza dei ruoli genera il caos, la piena confusione: troppi mercanti dentro al Tempio! E questo è un grosso rischio se non già una spia, un segnale che, forse, la nostra civiltà, la nostra realtà di ordine culturale, civile, artistico, storico, filosofico stia per  arrivare ad un capolinea e che quello che avevamo da dire lo abbiamo già detto. Saranno poi altri in avanzata che diranno.

Bisogna stare molto attenti! Quel sacerdozio di cui ho parlato implica una riflessione continua, un’analisi continua, un continuo “essere sul pezzo”.

Stai sul pezzo, stai lì! Non ci si può distrarre!

Anche adesso tra me e te stiamo facendo arte e non ci stiamo distraendo e il nostro dialogo diventa una creazione, è un’opera. Questa è opera, in due stiamo dicendo Messa, potremmo essere in dieci, potremmo essere in cento. È importante dare il senso profondo all’opera, altrimenti si rischia il caos. Il sacerdozio nell’arte si misura con la durata, con l’abnegazione, si misura con quello che sei riuscito a fare in vita, ma attenzione! a esprimere con le tue forze e non perché avevi dei padrini, amici o amici degli amici, perché un’altra componente fondamentale è che con l’opera non si bara! Non puoi barare! Se il bluff c’è, prima o poi viene fuori. È un assoluto. Un prete  non può  credere in Dio a corrente alternata! Potrà eventualmente porsi delle domande, ma queste domande non devono mai scalfire la Fede. Dal punto di vista artistico, non ho paura di dirlo, io sono un integralista, un fondamentalista; non si può essere diversamente e, mai come in questo momento storico, bisogna essere inflessibili, rigorosissimi anche con se stessi, partendo da se stessi.

Con l’opera non si bara e mai è consolatoria l’arte! Entriamo nella dimensione esaltante, che è il contrario. L’arte entra nell’esaltazione e l’esaltazione entra nell’estasi di cui si parlava prima. È una dimensione estatica e si sbaglia tremendamente se si pensa che l’arte sia consolatoria, che la poesia sia il lacrimatoio, ma è tutt’altro! L’arte ha in sé un grosso segnale di forza e di coraggio, e l’opera è una dimensione energetica, di grande tensione emozionale. L’opera ti chiama a questo: alla forza, al coraggio, alla tensione, allo stupore…soprattutto allo stupore!  Allo stupirsi di continuo anche di se stessi e di ciò che riescono a toccare altri meritevoli.

Mai è consolatoria l’arte! L’opera ti chiama al coraggio di affrontare il dolore a testa alta, da esseri umani. Il dolore ti può piegare, ti può far inginocchiare, ma la fronte deve rimanere sempre alta, anche in ginocchio. Ho detto prima che di opera si può anche morire però, a questo punto, meglio morire di opera piuttosto che non affrontare se stessi nell’opera e accostarsi all’opera con la lacrima o strisciando. Meglio morire! L’opera non ti vuole così! L’opera ti vuole nella tua verità, ti vuole nella tua completa  sincerità e ti vuole anche nella tua  modestia perché sei arrivato fin dove potevi, però sei degno fin lì. Dignità! Dignità! Il sacerdozio implica una grandissima dignità. Oggi,  invece,  siamo in un mare di mezze figure, per usare un termine caro a Sciascia,  di “quaquaraquà”,  e questo è deleterio per il nostro fare arte e per la nostra civiltà. Io sono convintissimo che l’unica possibilità di incontro tra diverse culture, civiltà e religioni possa avvenire solo riconoscendosi reciprocamente una dignità e la capacità di narrarsi come persone degne. Nel racconto ci può essere l’incontro, nella narrazione di ciò che per noi è sacro (ecco, ritorniamo al sacro) mentre  l’altro ci racconta  ciò che  è sacro per lui e, alla fine, scoprire che il suo sacro ed il nostro sacro collimano. Sono molto junghiano in questo, esiste un io collettivo, siamo tutti parte dello stesso formicaio, mentre  questo mondo tenta di  confondere sempre di più, ed ecco che ritorniamo alla Torre di Babele di cui ho parlato.

L’uomo sta peccando troppo di superbia, è un peccato che stiamo commettendo soprattutto noi occidentali. Tutto si fonda sulla superbia. È il primo peccato; il demonio pecca di superbia. È sempre quello il nocciolo della faccenda: mancanza di umiltà, mancanza di modestia, e mancanza di capacità di capire quando ci si deve inchinare, perché ho detto che si deve restare sempre a testa alta, ma quando c’è da onorare qualcosa o qualcuno bisogna sapersi anche inchinare, questo fa parte della dignità ed anche di  quella componente estetica fondamentale in ogni campo che consente di superare la volgarità e di entrare nella dimensione della bellezza, del buon gusto, dello stile. Viviamo in un mondo che ha perduto lo stile!

Recuperare lo stile è fondamentale, perché ci si possa far riconoscere non solo come scrittore,  come pittore, ma  come essere umano, come appartenente ad una comunità di esseri umani.

Gabriella Grande

 

1  “Il dolore” con disegni di Omar Galliani. Gian Ruggero Manzoni. Ed. All’insegna del pesce d’oro/Scheiwiller, Milano, 1991
2   “Tutto il calore del mondo” con disegni di Mimmo Paladino. Gian Ruggero Manzoni. Ed. Skira,   2013
3   “ESODO secondo Gian Ruggero Manzoni”, Raffaelli Editore, 2010
4     Genesi, 11,1-9
5    Performance poetica di Gian Ruggero Manzoni,  accompagnato da Walter Santoro – sala AxA Palladino Company, Campobasso, 27 ottobre 2012 (al link: https://www.youtube.com/watch?v=Ynvmcvrrfg0 )
 
NOTA BIOGRAFICA E PERCORSO ARTISTICO  DI GIAN RUGGERO MANZONI al link:

http://www.gianruggeromanzoni.it/

BIBLIOGRAFIA DI GIAN RUGGERO MANZONI
Poesia
  • Il mercante di allodole, con serigrafie dell’autore. Ed. Mazzotti, Bagnacavallo, 1981.
  • Filokalia, con disegni di Sergio Monari. Ed. Cervo Volante, Roma, 1983.
  • Le tavole dei reziari, con opere di Sergio Monari. Ed. I Telai del Bernini, Modena, 1983.
  • L’ orizzonte dei baratti, con disegni di Tommaso Cascella. Ed. Cervo Volante, Roma, 1984.
  • La religione del suono, con disegni di Tommaso Cascella. Ed. Le parole gelate, Roma, 1985.
  • Il sicario della Tiade, con disegni di Garouste, Barni, Monari, Bonechi, Galliani. Ed. Cleto Polcina, Roma, 1985.
  • Seth. Ed. Walberti, Lugo di Romagna, 1986.
  • Discorsi Latini. Ed. Premio di Poesia Savignano, Savignano sul Rubicone , 1986.
  • Il tredicesimo mese/Il tempo abbandonato, con disegni di Tommaso Cascella. Ed. Ellequadro, Genova, 1990.
  • Il codice. Ed. Origini/La Scaletta, San Polo d’Enza, 1991.
  • Il dolore, con disegni di Omar Galliani. Ed. All’Insegna del Pesce d’Oro/Scheiwiller, Milano, 1991.
  • Le battane di bronzo, con disegni di Bruno Ceccobelli. Ed. La Stamperia dell’Arancio, Grottammare, 1994.
  • L’ evento. Ed. Moby Dick, Faenza, 1997.
  • Nell’ abbraccio dell’ io, con acquarelli di Luigi Ontani. Ed. Enrico Astuni, Fano, 1998.
  • Il digiuno imposto, con opere di Mimmo Paladino. Ed. Matthes & Seitz Verlag, Monaco di Baviera, 2000, e Ed. Emede, Buenos Aires, 2002.
  • Deserti di quiete, con disegni di Aldo Mondino. Ed. I Quaderni del Circolo degli Artisti, Faenza, 2001.
  • Gli addii. Ed. Moretti & Vitali, Bergamo/Milano, 2003.
  • Resistere fino all’ultimo uomo, con opere di Iller Incerti. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2004.
  • Scritture scelte Volume I e II. Ed. del Bradipo, Lugo di Romagna, 2006.
  • Elogio alla diversità, con opere dell’autore. Ed. Arte Com, Avellino, 2008.
  • Tutto il calore del mondo, con opere di Mimmo Paladino. Ed. Skirà/Rizzoli, 2013.
  • Nel vortice della acque superiori, con opere di Omar Galliani. Ed. Raffaelli, 2015.
Narrativa
  • Gotthold Nysa. Edizioni del Bradipo, Lugo di Romagna, 1989, poi Ed. Feltrinelli, Milano, 1996.
  • L’impresa, con serigrafie di Enzo Cucchi. Ed. Essegi, Ravenna, 1991.
  • Caneserpente. Ed. Il Saggiatore, Milano, 1993.
  • Il Francese. Edizioni del Girasole, Ravenna, 1995.
  • Autoritratti, con opere dell’autore. Ed. Essegi, Ravenna, 1998.
  • Gli sfidanti metafisici, con disegni di Lucio Del Pezzo. Ed. Corraini, Mantova, 1999.
  • Tango Croato, con disegni dell’autore. Ed. Campanotto, Pasian di Prato, 2001.
  • Il Morbo. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2002.
  • La Banda della Croce. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2005.
  • L’albero di Maehwa. Ed. Gruppo Albatros (nella collana da lui diretta), Roma, 2008.
  • Una macchia nel sole. Edizioni del Girasole, Ravenna, 2009.
  • I teatranti perduti. Ed. Gruppo Albatros (nella collana da lui diretta), Roma, 2013.
  • Acufeni. Ed. Guaraldi, Rimini, 2014.
  • La voce. Ed. Carteggi Letterari, Messina, 2016.
Teatro
  • Penteo. Ed. Altri Termini, Napoli, 1987.
  • Cutman (con Raffaele Rago). Ed. Walberti, Lugo di Romagna, 1987.
  • Il sonno di Macbeth (con Nicola Macolino). Edizioni del Bradipo, Lugo di Romagna, 2009.
  • Per colui che è, con disegni dell’autore. Ed. Il Vicolo, Cesena, 2016.
Varie
  • Pesta duro e vai trànquilo/Dizionario del linguaggio giovanile (con Emilio Dalmonte). Ed. Feltrinelli, Milano, 1980.
  • Pelàsgi/I poeti romagnoli in lingua (con Davide Argnani). Ed. Maggioli, Rimini, 1986
  • I manifesti/Gli scritti di un sicario. Ed. Walberti, Lugo di Romagna, 1989.
  • La guerra dei poeti, con opere di Marco Pellizzola. Ed. Essegi, Ravenna, 1992.
  • Peso vero sclero/Dizionario del linguaggio giovanile di fine millennio. Ed. Il Saggiatore, Milano, 1997
  • Piloti, aviatori, cosmonauti, motociclisti, con opere pittoriche dell’autore. Ed. Essegi, Ravenna, 1999.
  • Guerrieri, con opere pittoriche dell’autore. Ed. Essegi, Ravenna, 2000.
  • Teatri per la memoria (con Giosetta Fioroni). Ed. Essegi, Ravenna, 2000.
  • Il giardino dei giusti, un dialogo con Giacinto Cerone. Ed. Essegi, Ravenna, 2001.
  • Oltre il tempo/11 poeti per una Metavanguardia. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2004.
  • Esodo (biblico, traduzione e cura). Ed. Raffaelli, Rimini, 2010.
  • Magie Barbare. Ed. Palladino, Campobasso, 2012.
  • Nuova Vandea (con Adernò, Zanin, Baj). Ed. Officine Ultranovecento, Pordenone, 2013.
  • Briganti, Saracca & Archibugio. Ed. Il Ponte Vecchio, Cesena, 2015.
  • La torre. Ed. Il Ponte Vecchio, Cesena, 2016.
  • Lunga vita al Genius Loci. Ed. I Libri da Bruciare, Modena, 2016.
  • Francesca Alinovi, in suo ricordo (con Antonella Colaninno). Ed. Di Felice, Teramo, 2017.
Mostre pittoriche (le più rappresentative)
  • Del visceralismo. Prov. di Ravenna e Compr. Lughese, mostra itinerante, 1981.
  • Ribelli nella tradizione (con Enrico Calderoni). Sala R. Verde, Faenza, 1982.
  • Dooks (collettiva). Vecchia Dogana del Porto, Marsiglia, 1983.
  • Mito e furia (collettiva). Palazzo del Senato, Milano, 1983.
  • Science verb total et classicisme continuè (collettiva). Gall. Picop e Comunità Europea, Parigi e Bruxelles, 1984.
  • XLI Biennale di Venezia 1984.
  • Faust. Teatro G. Freytag e Case Occupate di Fasanenstrasse. Monaco di Baviera e Berlino, 1985.
  • Apocalisse Identitaria (collettiva). Gall. Cleto Polcina, Roma, 1986.
  • XLII Biennale di Venezia 1986.
  • Waffe. Magazzini del Porto, Amburgo, 1987.
  • Il Principio della libertà (collettiva). Presso le sedi della Fondazione Hirtsch, Boston, New York, Chicago, 1988.
  • GRM – espressione/tradizione/trasgressione. Gall. Gian Ferrari, Milano, 1990.
  • L’Impresa (con Enzo Cucchi). Gall. Modidarte, Ferrara, 1992.
  • Risk ad Atene (collettiva). Rostand Art Center, Atene, 1993.
  • Racconti popolari. Gall. Sumithra, Ravenna, 1993.
  • Bomber. Gall. Michael Werner, Colonia, 1994.
  • Malattia mentale. Saletta Comunale d’Esposizione, Castel San Pietro Terme, 1994.
  • Gian Ruggero Manzoni, opere recenti. Gall. Riposati, Roma,1995.
  • L’evento. Gall. Enrico Astuni, Fano, 1997.
  • Percorsi barbari. Antiche Pescherie, Lugo di Romagna, 1998.
  • Omaggio a GRM. Arte Fiera, Forlì, 1998.
  • Paesaggi Italiani. Gall. Enrico Astuni, Fano, e Tropico del Cancro, Bari, 1999.
  • GRM. Gall. Michael Werner, Colonia, 1999.
  • Guerrieri. Gall. 360°, Montecchio Emilia, 2000.
  • Piloti, aviatori, cosmonauti, motociclisti. Gall. Enrico Astuni, Fano, 2000.
  • Santo manganello-santa falce e martello (con Iller Incerti). Exsalumificio/Gall. Artipici, Modena, 2000.
  • Il patriota esteta. Italian Veterans Association, New York, 2001.
  • Il Giardino dei Semplici. Gall. Gasparelli, Fano, 2001.
  • Il digiuno imposto (con Mimmo Paladino). Museo Nazionale di Buenos Aires, Buenos Aires, 2002.
  • Carte recenti. Emeroteca del Museo del Louvre, Parigi, 2004.
  • Resistere fino all’ultimo uomo (con Iller Incerti). Museo del Senio, Alfonsine, 2005.
  • La capitale dell’Impero (con Roberto Cornacchia). Atelier R. Cornacchia, Lugo di Romagna, 2005.
  • La rabbia dei Santi 1. Spazio 9 Artecontemporanea, Faenza, 2006.
  • La rabbia dei Santi 2. Galleria Exhibition Art, Fano, 2006.
  • Gian Ruggero Manzoni. Zentralbibliothek, Zurigo, 2007.
  • Ciao favole, ciao natura. Palazzo dei Congressi, Jesi, 2007.
  • Miracoli. Palazzo del Commercio-Sale Lino Longhi, Lugo di Romagna. 2008.
  • Elogio alla diversità. Gall. Portfolio, Senigallia, 2008.
  • La sindrome di Icaro (collettiva). Borgo Storico Seghetti Panichi, Castel di Lama, 2008.
  • Appartenere (collettiva). Dimore e Chiese Storiche delle città di Imola, Faenza e Lugo di Romagna, 2008.
  • Io divinità – Opere su carta. Bookshop Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Praga, 2008.
  • Selvatico (collettiva). Palazzo Sforza, Cotignola, 2008.
  • L’ombra della parola. Fondazione Tito Balestra, Longiano, 2008.
  • Di ritorno dalla Bosnia. Galleria Exhibition Art, Fano, 2009.
  • Fango Rumori Zanzare Cookies e Rock in Road. Station Gallery, Tortoreto, 2010.
  • L’Arca di Noè fa il diavolo a quattro (collettiva). Pharmacy Industry Art Venice, Mestre, 2010.
  • Twenty Pounds of Therica. Ex Convento SS.Cosma e Damiano, Venezia, 2011.
  • Fine corso (collettiva). Espace Polychrome. Namur, Belgio, 2011.
  • UBU sotto tutti gli aspetti, Lato & Figurato (collettiva). Palazzina Azzurra. S.Benedetto del Tronto, 2012.
  • Apokalips (collettiva). Grattacielo Pirelli – Palazzo della Region Milano, 2012.
  • Magie Barbare. A x A Palladino Company. Campobasso, 2012.
  • Opere sacre di sabotaggio. Pescherie della Rocca. Lugo di Romagna, 2013.
  • Corrispondenze (collettiva). Loggetta del Trentanove. Faenza, 2014.
  • PescaraArt (collettiva). Loft Box&Office. Pescara, 2014.
  • Pagine ad arte. Biblioteca “Maria Goia”. Cervia, 2014.
  • Gian Ruggero Manzoni. Museo d’Arte Moderna “Vittorio Colonna”. Pescara, 2015.
  • V International Forum – Creative Life (collettiva). Bolognano di Pescara, 2015.
  • Propositum Artis (collettiva itinerante). Ancona, Ascoli Piceno, Gubbio, Macerata, L’Aquila. 2016.
  • Le mutevoli forme. Bottega Gollini Arte Contemporanea, Imola, 2016.
  • Artisti in permanenza (collettiva). Gall. Il Melograno, Livorno, 2016.
  • Artistes Italiens Sur l’Affichage (collettiva). Chambre de Commerce Italianne pour la France, Marsiglia, 2016.
  • Eroi barbari. Galleria Il Vicolo, Cesena, 2016.
  • II Biennale d’Arte della Croazia. Museo Città di Labin, 2016.
  • L’equilibrio del guerriero. Fortezza di Radicofani – Siena, 2016.

 

 

PILLOLE DELL’INTERVISTA A GIAN RUGGERO MANZONI

Aspettando l’intervista integrale a GIAN RUGGERO MANZONI (poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer)  domani 29 settembre 2017, ecco qualche pillola  da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.

L’emozione ineffabile dell’ascolto della voce di un Autore “necessario”.

 

GIORGIA ZECCA: L’ARTISTA CHE DIPINGE CON LA LUCE

La fotografa e pittrice Giorgia Zecca (Taranto, 1995), nel giugno 2017 ha  partecipato all’O­pen Tour presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, esponendo il trittico “Il borgo/Il mare/La luce” (recensito su questo blog)  e con lo stesso lavoro ha partecipato alla mostra MediterrArte curata dal professore Bruno Benuzzi e Enrico Ace­ti, presso la Galleria ArtForum Contempo­rary e successivamente a Beirut, in Libano.

 

  1. Stai per laurearti all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Cosa significa per te scegliere l’arte non solo come passione, ma come percorso di vita?a1

Io ho iniziato in maniera molto ingenua l’Accademia di Belle Arti, perché a Taranto non sono mai riuscita a respirare molta arte come avrei desiderato, come invece ne sentivo la necessità,  e guardavo all’Accademia di Belle Arti di Bologna come ad  un sogno. Poi, però,  già  dopo il primo anno a Bologna, ho capito che  è  la fotografia il mezzo con cui mi esprimo con maggiore verità, mentre la  pittura  – che è il corso che ho scelto di seguire in Accademia – non è esattamente la mia strada. Quindi posso dire  che ho scelto l’arte come percorso di vita, come professione,  perché mi piacerebbe tanto lavorare sempre nel mondo dell’arte, però ciò che mi appassiona davvero moltissimo è la fotografia. Infatti questi  tre lavori sul Mediterraneo (*)  scaturiscono  proprio da questa passione per la fotografia e per la mia terra.

  1. Mi hanno molto colpita le tue foto sul Mediterraneo (*). La luce è la grande protagonista. Quando decidi lo scatto, quello che insegui è la bellezza che la luce conferisce alla forma delle cose, alla loro relazione o lo stato d’animo, l’emozione che smuove in te quello che la luce è stata in grado di rivelarti in quel momento? Ovvero, è  la luce che ti svela qualcosa o sei tu che interpreti la luce?1

La luce è una cosa che sento molto dentro, proprio come uno stato d’animo. Io  vivo la luce in maniera molto emotiva da sempre,  da quando ero piccola.  Quando vado a fotografare, per me la luce è fondamentale, perché mi piace modificare le foto il meno possibile e quindi se riesco a trovare, nel posto in cui sono, la luce “perfetta”, sia per come mi sento io in quel momento sia per come valorizza l’architettura del luogo o il paesaggio, allora quello è proprio il momento ideale per scattare una foto. In generale,  quando torno a casa dopo aver visitato un luogo, sento  a pelle di aver fatto delle belle foto se c’era una bella luce, se c’era la luce “esatta”, ovvero la luce che rispecchiava il mio stato d’animo. Spesso, invece, mi capita di sentirmi delusa  proprio in base alla luce.  Magari quel giorno c’era un temporale o una giornata meno luminosa ed io,  invece,  ero molto luminosa “dentro” e quando poi andavo a scattare, non riuscivo a cogliere niente di interessante e tornavo a casa delusa. Questo mi è successo un sacco di volte. Quindi,  indubbiamente,  la luce è uno dei motivi centrali della mia vita in generale, ma anche della fotografia e del mio stile.

  1. Sempre parlando delle tue foto (*), la bellezza di quegli scogli, del modo in cui sono stati scolpiti dal Mediterraneo sta anche nel loro essere indifesi, nella loro assoluta mancanza di protezione.  L’artista, secondo te, è indifeso come quegli scogli quando lo investe l’intuizione di quello che creerà?5

Sì, siamo tutti indifesi. Un po’ in generale tutti gli artisti lo sono. L’ho potuto notare anche in Accademia. Noi artisti siamo presi dal momento,  dall’ispirazione,   ma poi quando a lavoro finito lo guardiamo insieme ai Professori, ad altri artisti o nel contesto di una mostra, siamo tutti fragili, siamo tutti  impauriti, siamo tutti spaventati. L’artista in generale tende ad essere facilmente un bersaglio. È  un concetto soggettivo l’arte, per questo   è “soggetta”  (scusa il gioco di parole!) proprio ad essere colpita anche dai pareri più brutali o a non essere capita proprio per niente. E a me è successo tante volte, anche in questi anni, di avere in mente un’ idea ben precisa e poi, quando  invece mostravo la mia opera,  veniva capito tutt’altro e mi sentivo colpita, mi sentivo ferita nel profondo, proprio perché non veniva colto il senso che volevo dare all’opera. È un continuo lavoro su me stessa, anche perché  da quelle critiche sono derivati gli spunti di riflessione per capire meglio  come mai il mio lavoro avesse dato quell’impressione e non quella che mi ero programmata di dare.

 

  1. Nel saggio “Della regola del gusto” il filosofo Hume scrive che “la bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla, e ogni mente percepisce una diversa bellezza.” Cos’è bello per te?

    3 ph violetta petrelli
    Ph: Violetta Petrelli

Per me è bello sicuramente tutto ciò che ha un fascino.  Io faccio sempre distinzione tra bellezza e fascino, perché vengo più affascinata  che colpita da qualcosa di bello e basta. Quindi se guardo qualcosa,  per essere bella per me,  deve affascinarmi, deve darmi  delle suggestioni, deve essere qualcosa che mi spinge a dei sapori, a degli odori, che mi coinvolge sotto tutti i punti di vista sensoriali. Devo essere affascinata anche sinestesicamente. Per me è bello tutto ciò che ha una luce particolare  o un aspetto che rimanda a qualcos’altro, un segno del tempo che mi fa riflettere sul passato. Infatti mi piace tantissimo tutto ciò  che è usato:  abiti usati, vecchi orologi, vecchie scatole, tutto ciò che ha i segni del vissuto.

 

  1. Il mondo non è solo come lo vediamo, è anche come lo dipingiamo per chi è in grado di farlo, come te. Quando dipingi o quando fotografi, a lavoro finito, c’è stato una volta (o più volte) in cui ciò che avevi creato aveva un messaggio anche per te, ti ha aperto alla comprensione di qualcosa di te a cui non avevi pensato prima di quel momento?

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Ph: Sara Palmiotti

Sì, è successo molte volte. Anche il lavoro sul Mediterraneo mi ha fatto scoprire il mio profondo legame alla mia terra. Nonostante  quel lavoro sia sul Mediterraneo in generale,  è inevitabile notare che comunque c’è un forte richiamo alla Puglia, alla mia terra. Nei miei lavori si percepisce questa mia mediterraneità, anche in quelli pittorici,  che comunque non vedo molto “miei”, parlano meno di me,  sono molto più forzati.

Anche nella scelta dei colori, negli accostamenti fatti in maniera del tutto inconsapevole, senza una volontà precisa, c’è sempre qualcosa di Mediterraneo:  l’accostamento del blu all’arancione e  all’oro, per esempio, e c’è anche  sempre qualcosa che rimanda alla Magna Grecia:  i colori caldi, la luce. È quanto  è accaduto con il lavoro sul Mediterraneo in cui, nell’assemblare tutte quelle foto diverse in modo da creare una profondità e  nuovi  paesaggi, il risultato finale parlava di me.  Chi le guarderà potrà, in un certo senso, “entrarmi dentro”, perché quelle foto è come se fossero me, una parte di me.

 

  1. Se potessi dipingere adesso, in questo momento, o scattare una fotografia partendo da un colore, quale useresti? E perché?9

Sceglierei l’azzurro. I colori che “mi perseguitano” da sempre sono l’azzurro e il verde. Però, in particolar modo in questo periodo, è l’azzurro  il colore che cerco e che preferisco, soprattutto in contrasto con il bianco. Mi piace anche indossarlo perché,  in questo momento,  potrebbe  rispecchiare meglio di qualunque altro colore, il mio stato d’animo. L’azzurro  è un colore molto profondo, emotivo, “lunatico” quasi, ed io sono un po’ così in questo periodo: lunatica. Quindi, indubbiamente, l’azzurro è il colore che, in questo momento, mi rispecchia maggiormente  e che sicuramente mi affascinerebbe tanto  se adesso dovessi scattare una foto.

  1. Quale messaggio vorresti trasmettere con la tua arte? Quando dipinge, quando fotografa, cosa ci sta dicendo Giorgia Zecca?4

Io vorrei infondere serenità, equilibrio. È  quello che ho sempre cercato di fare anche con i dipinti, non ho mai pensato di esprimere sofferenza, dolore, castrazione o tutti questi sentimenti che spesso invece caratterizzano l’arte contemporanea. Spesso mi è capitato, durante  questi tre anni di Accademia, di  discutere con i miei compagni e con i Professori  proprio di quanto, secondo me, sia ingiusto questo stereotipo dell’artista “maledetto” che soffre e che deve necessariamente esprimere la propria sofferenza nelle sue opere. Io ho sempre voluto esprimere la serenità, l’equilibrio.

Vorrei che la gente guardando i miei lavori si sentisse rilassata… come se stesse prendendo una boccata d’aria.

Gabriella Grande

 

Giorgia Zecca (Taranto, 6 dicembre 1995) Diplomata nel 2014 al Liceo Linguistico Internazionale Aristosse­no di Taranto, ha iniziato a frequentare il corso di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bolo­gna nell’ottobre dello stesso anno.

Nel giugno del 2016 ha partecipato alla mostra “Get out” presso la Galleria Più, curata dal pro­fessore Lelio Aiello.

Nello stesso periodo ha esposto un trittico di fo­tografie in occasione dell’Open Tour presso l’Ac­cademia di Belle Arti di Bologna.

A giugno del 2017 ha di nuovo partecipato all’O­pen Tour presso l’Accademia di Belle Arti espo­nendo il trittico “Il borgo/Il mare/La luce” e con lo stesso lavoro ha partecipato alla mostra MediterrArte curata dal professore Bruno Benuzzi e Enrico Ace­ti, prima presso la Galleria ArtForum Contempo­rary e successivamente a Beirut, in Libano.

(*) Trittico e recensione:

https://gabriellagrandeblog.wordpress.com/2017/09/11/lanima-della-luce-nel-trittico-il-borgoil-marela-luce-dellartista-giorgia-zecca/

 

“LA POESIA È UN DESTINO” – Intervista a Andrea Bassani

Il poeta Andrea Bassani pubblica nel 2016 il poema Lechitiel (Terra d’Ulivi edizioni). Una sua silloge tratta da Lechitiel è pubblicata e recensita dalla poetessa Maria Grazia Calandrone sulla rivista internazionale “Poesia” del Febbraio 2016, n°312(1). Per il suo poema riceve una  lettera di critica positiva dal Cardinale Gianfranco Ravasi e la segnalazione di Franco Manzoni sul Corriere della Sera, inserto “La lettura” n°275, del 5/03/2017 (2). Riceve, inoltre,  una critica alla poetica da Bernard Tiburce, bibliotecario del Centro Pompidou di Parigi(3). Parallelo e altrettanto vissuto come espressione poetica è il suo percorso pittorico.

11235274_1408421269483829_2128664420743976431_n1. L’armonia che conferisce musicalità alle tue poesie nasce da un ordine che si è stabilito nel tempo o da un disordine  che è stato illuminato?

C’è un disordine che riordino. Se è vero che scrivere è mettere in ordine, per me scrivere è ordinare un disordine interiore. O meglio, più che di un disordine si tratta di un’insofferenza che tenta di portare caos ed io intervengo con la poesia e la ordino, la metto in riga.

2. Se scrivere, per te, “è mettere in ordine”, disegnare cos’è?

Disegnare è lasciarsi mettere in ordine. Io disegno come scrivo, per me non c’è differenza. Il disegno, infatti,  nasce da un verso che non arriva. Ho la penna sul foglio in attesa di un verso e, invece,  arriva una linea, poi due, che diventano tre, che diventano un disegno, ma lo stato di coscienza o di non coscienza di quando disegno è pressappoco simile a quello di quando scrivo:  io vado in una forma di assenza, diversa da quella della poesia scritta, in quanto benefica, totalmente benefica. Il disegno mi scarica, mi rilassa e in qualche modo mi cura. Anche la poesia mi cura, ma è qualcosa che vivo con una maggiore violenza, perché è un parto che richiede più forze, più energia, più sofferenza ed è anche qualcosa che, quando se ne va, quando esce dal mio corpo, dalle mie dita, mi lascia sfinito, spossato, stremato come se avessi appena corso la maratona della sete. Questo non accade con il disegno. Però sia nel tempo del disegno che in quello dello scrivere – o sarebbe meglio dire nel non-tempo del disegno e nel non-tempo dello scrivere –  io vivo sempre il tutto con lo stesso fine: per me è fare poesia, è esprimere un messaggio poetico. Nel disegno quindi non c’è nessuna ambizione tecnica, nessuna ambizione pittorica, il fine è sempre lo stesso con l’unica differenza che  invece di scrivere parole, traccio linee.

La ricerca dell’essenzialità è un percorso poetico che prosegue nel disegno.

Ed è una ricerca consapevole, voluta?

Non è che la stia facendo in maniera consapevole, sta accadendo. Le cose accadono. Io sono sempre stato vittima degli avvenimenti. Sono stato travolto dalla poesia, dalla ricerca, dalla spiritualità, dalla fede. Non ho cercato niente di quello che ho, di quello che ho incontrato. Chi cerca non trova. Bisogna rimanere svegli, attenti, e aspettare. Le cose se devono accadere, accadono, ti piovono in testa. La poesia non è una cosa che ottieni, la poesia è un destino, è una cosa che accade. Ti capita la poesia.

23. Attraverso l’arte e la sua astrazione è possibile arrivare a comprendere qualcosa che esiste ma non è rivelato?

Sì, assolutamente! L’artista è sempre un canale. È artefice incosciente ed esecutore. Impugno la penna e sono impugnato. C’è un lungo braccio che comincia dal nulla  e tende verso l’infinito ed io sono una porzione di questo braccio, ma non sono io che lo muovo. Non ho volontà di movimento nell’arte né di decisione, eseguo un movimento che nasce da prima di me e non so dove andrà a terminare, un po’ come l’onda in mezzo al mare che non sa da chi è spinta e non sa dove andrà a morire.

4. Perché hai scelto di disegnare con una penna, piuttosto che con pennelli o art pen?

Utilizzo lo stesso strumento per la scrittura in versi e per il disegno, perché il fine  è esprimere un messaggio poetico. Passare a art pen o pennelli nel disegno vorrebbe dire rinunciare a questo messaggio per pormi con ambizione pittorica. Ma io non voglio esprimere la pittura: voglio esprimere la poesia. Il mio disegno è come la canzone per Leo Ferré, che non aveva ambizioni canore. A lui non  importava la tecnica, non era il canto che gli interessava. Usava la voce come una penna, cantava la poesia e  per cantare la poesia, per scriverla, per disegnarla, affinché  la poesia si lasci afferrare, è necessario rimanere poveri.

95. “De la musique avant toute chose”, scrive Verlaine in Art poétique. A diciannove anni hai costituito una blues band del quale eri il  cantante, i tuoi versi hanno una meravigliosa musicalità, e il tuo sito www.andrea-bassani.com  si apre con il brano “L’uomo che ascoltava la malinconia”, composto da te. Che cos’è la musica per te?

La musica è per me esattamente ciò che intendeva Verlaine. Non la musica che esce dal violino o dal pianoforte, ma la musica che viene tradotta con il violino, con il pianoforte, con la voce, con la scultura, con la pittura, con la poesia. La musica è l’ispirazione, una voce insonora che non si ascolta, che non giunge all’orecchio, ma che si sente con qualcosa di noi, con qualche antenna interiore di cui disponiamo e che poi traduciamo in altro, in arte, in note se non in parole, se non in tele, o incisioni, o disegni. L’ispirazione poetica è questa musica, è la stessa creatura. Per me fare poesia è seguire la musica. Quindi la musica viene prima di tutto, perché la musica è la radice, la genesi, la madre di tutte le arti, ma  questa musica: una musica che non ha né forma , né colore, né suono.

6. In Lechitiel canti la bellezza, ma  qual è la tua vera musa?5 - Copia

La mia vera musa non è la bellezza. La bellezza è la mia antagonista, la mia grande nemica. La mia musa è la musica, la musica di cui abbiamo appena parlato e che abbiamo chiamato “musica” perché  noi abbiamo bisogno di dare nomi alle cose. E così chiamiamo Dio, chiamiamo il vento, il fuoco, chiamiamo la musica, chiamiamo la poesia, ma chissà chi c’è dietro questi nomi! Forse chiamiamo sempre la stessa cosa con nomi diversi. Io penso che la mia musa, qualunque sia, qualunque nome realmente abbia, provenga dalla dimensione da cui giunge quella musica di cui abbiamo parlato. È questo il fascino della poesia: non conoscere il segreto di chi si nasconde dietro le parole, dietro i nomi.

7. Nel “Cantico della bellezza” un verso recita: “è la bellezza la regina del mondo./ Tutto il resto sono schiavi che le corrono incontro/ e si buttano supini ai suoi piedi/ pregandola perché li calpesti almeno una volta.” (da Lechitiel, Terra d’ulivi edizioni – “Cantico della bellezza” –  pag. 108). Cosa significa per te contemplare una bellezza fisica e cosa, invece, contemplare un’opera d’arte?

È totalmente diverso. La bellezza in movimento, quella fisica,  è una bellezza che assume un valore straordinario  proprio nel suo essere in movimento, nel suo essere viva e quindi sfuggevole. Ha gambe per scappare, per allontanarsi, ha mente per pensare, ha voce per rifiutarti,  e quindi è una bellezza che passa e scompare  e proprio per questo assume un valore inestimabile, straordinario, prezioso. La bellezza di un’opera d’arte è statica, provoca meno dolore nell’esteta perché  è accessibile quando e come l’esteta voglia. Io posso andare agli Uffizi, prendere  una sedia e stare un’ora davanti alla Venere del Botticelli. Che cosa c’è di più bello della Venere del Botticelli? Niente! Però io ho accesso a quella bellezza quando  e come voglio. La bellezza di una donna  – o per te di un uomo – invece passa e se ne va e scomparendo crea un dolore misterioso,   che non riusciamo a gestire, che muove tante altre cose dentro di noi  e per questo è insopportabile. La bellezza è insopportabile, è offensiva.

Perché offensiva?

È offensiva perché genera la bruttezza, genera la non bellezza, crea distanza, snobba, passa oltre, calpesta. Non ha pietà la bellezza, non ha umanità. La bellezza è lilitiana, è lunare, è collegata ad una figura apparentemente angelica, ma ha un animo diabolico, nasconde un mostro. Bisogna fare molta attenzione alla bellezza. molta attenzione.

Tu insegui ancora la bellezza?

Assolutamente no. La subisco chiaramente ancora, ma non la inseguo perché ho capito che è un’illusione. Inseguo un’altra bellezza, che non è quella estetica ma che è la bellezza interiore, la bellezza del mistero, la bellezza della magia, la bellezza della saggezza, la bellezza della sensibilità,  la bellezza della carità, la bellezza della misericordia, la bellezza della compassione. Queste sono le bellezze che inseguo ora.

Andrea Bassani_438. Se in questo momento io ti dicessi: “Guardami” ?

Mi viene in mente un mio disegno. Lo sto vedendo ora, nella mente.

È di  fortissimo impatto emotivo l’ “incontro” con quel disegno!…

È molto forte perché c’è quella parola “Guardami” legata al disagio immediatamente successivo alla lettura della parola del non poter guardare nessuno, perché tutte le figure hanno occhi che guardano altrove. Il disegno ti chiede di essere guardato, ma non ti guarda. È una lontananza.

E tu chiedi di essere guardato?

Io chiedo di essere amato.

39. Hai parlato di lontananza. Che cos’è, per te, la lontananza?

La lontananza è dolore, per me è stata sempre dolore. Poi c’è una vicinanza interiore nonostante la lontananza fisica: tu puoi essere lontano da qualcuno ma sentirlo dentro, sentirlo vicino. Dio è  lontano, ma al tempo stesso è dentro di te. Quindi la lontananza è un concetto probabilmente più fisico, più materiale. Quando due persone si amano sono un tutt’uno, possono essere lontane fisicamente – e questa lontananza crea dolore –  però non sono realmente  distanti. Quindi io penso che la vera lontananza sia il distacco delle anime, sia il distacco delle energie. Essere lontano da qualcuno o da qualcosa, per me, significa esservi distaccato a livello energetico.

10. Il futuro è potere divorante o attesa per te?

Quale futuro? Il futuro dell’uomo o il futuro dell’entità? Il futuro di colui che ti sta parlando o il futuro  di colui che è oltre, prima delle parole?

A te quale futuro interessa?

A me interessa il mio futuro, non quello di Andrea Bassani, perché io non sono Andrea Bassani. Andrea Bassani non esiste: è un’etichetta, è un nome, è un sacco che si svuoterà. Il futuro dell’uomo è la morte, è la distruzione. Il futuro dell’entità, dell’io, del vero io, è racchiusa nel verso:“Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno,  canto XXVI, vv. 116-120) ovvero siamo fatti per imparare l’arte dell’amare, l’arte  del vivere insieme. Bisogna  imparare questo, soprattutto. L’essenziale  è imparare ad amare. L’anima, il nostro corpo spirituale, il nostro vero io  viene nutrito dal rapporto con l’altro fondato su  uno scambio emotivo d’amore che può non consistere  necessariamente nell’ abbracciarsi, baciarsi, stare insieme e guardarsi negli occhi. La carità, la compassione, l’attenzione verso il dolore altrui, anche piangere insieme a qualcuno, sedersi accanto a un disgraziato e disperarsi con lui nell’impossibilità di aiutarlo è scambio d’amore, cioè il tentativo di creare un’unione con gli altri nell’attenzione al dolore altrui. Tutte queste cose fanno sì che io possa avere un futuro. E quando dico “io” , non sta parlando Andrea Bassani. Non parla né il poeta né l’uomo, parla qualcuno che non sono io e sono vero io.

In Lechitiel tu scrivi “Chi cerchi non è qui” (LXXV, pag.90) Quel verso si riferisce 7certo ad altro, ma io lo recito per chiederti: dove sei? Dov’è quel qualcuno che parla e che – come  hai detto – non sei tu ed è il tuo “vero io”?

Sono qui, ma l’essere che fa parte di me, che avrà un futuro, un futuro perché immortale, non corrisponde alla figura di Andrea Bassani. Andrea Bassani è una figura mortale che sarà distrutta per l’eternità e questa è una consapevolezza importante, perché se noi non raggiungiamo questa consapevolezza continueremo ad identificarci con il nostro nome e cognome  e quindi ad avere davanti il traguardo unico  e comune della distruzione, della morte, della fine, del non più nulla per sempre, ma non è così. È qui che risiede il grande inganno, nell’identificarci con il nostro corpo fisico, con la nostra persona sociale, umana; nell’identificarci con il nostro sacco, con il nostro involucro piuttosto che con la sostanza. In questo modo quale prospettiva futura si ha davanti? Solo quella della morte, dell’oblio, del buio, del nulla. Abbiamo paura della fine perché  sbagliamo a identificarci. E commettiamo questo errore perché  non ci cerchiamo, perché non iniziamo un viaggio  per cercarci, per trovarci,  ma stabiliamo che noi siamo quello che vediamo nello specchio. Non è così! Ecco perché faccio queste distinzioni: una parte di me avrà un futuro, l’altra (il poeta,  Andrea Bassani, la figura sociale) non l’avrà, l’involucro morirà, sarà distrutto e quindi avrà un futuro breve, brevissimo. Noi dobbiamo pensare al futuro come alla nostra immortalità, che dipende da noi; è nelle nostre mani, perché se l’anima non viene nutrita finirà con lo spegnersi. Non dobbiamo dare cibo solo al nostro stomaco. Dentro di noi c’è qualcuno di molto più affamato.

11. Sei passato dal vivere una esistenza in alcuni momenti al limite ad una vita in 4cui ti sei posto tanti limiti. Il limite, questa linea di confine che un tempo hai più volte superato e che oggi, invece, scegli nel senso della rinuncia, cosa rappresenta per te?

Ho deciso controvoglia la limitazione. L’ho deciso come un uomo decide se essere fucilato o no. E chiaramente io ho scelto di non essere fucilato, ma questo ha comportato una serie di doveri molto impegnativi. Io credo che ogni uomo abbia un suo destino; c’è una grande strada maestra per ognuno di noi e la mia strada mi ha portato dove mi trovo adesso ed io non ho opposto resistenza,  ho accettato quello che  il destino mi ha proposto. È certo che l’evoluzione spirituale di un uomo comporta che il soggetto debba ribellarsi a se stesso. Si ingaggia  una lotta contro se stessi, l’uomo antico, l’uomo primitivo, l’uomo legato all’istinto del piacere, al cibo, al sesso, al vizio, alla lussuria si ribella all’uomo nuovo, all’uomo di luce che sta nascendo. C’è un conflitto interiore continuo  tra le nostre luci e le nostre ombre, tra i nostri demoni e i nostri  angeli e siamo un campo di battaglia, come recita un verso di Lechitiel: “E già divento campo di battaglia, guerra e pace.” (LXII, pag. 75). Per raggiungere il mio obiettivo sono costretto a pormi dei grossi limiti, dei divieti. Non ci si arriva diversamente. È necessario lasciare tutto per strada. Si arriva nudi.

12. Vivere cosa significa per te?

Vivere è aspettare. Vivere, per me, è aspettare la vita. È attraversare una morte in attesa della vita. È  un’attesa consapevole, una lucida attesa in cui io semino luce, cerco di darmi al servizio della luce. Non mi preoccupo di me, non mi interesso più di me, ma mi adopero per quello che è necessario alla luce.

13. C’è un messaggio che vorresti lasciare più di ogni altro?

Il messaggio che vorrei lasciare è questo: “Non abbiate paura di morire. La morte non esiste. Amate,  perché voi sarete per quanto avrete amato.”

Gabriella Grande

6Andrea Bassani (Bergamo, 1980). A diciannove anni, insieme a un gruppo di amici, costituisce una blues band del quale è cantante e si esibisce in locali notturni lombardi. A ventisei anni stampa la sua prima raccolta di poesie dal titolo Amore Androgeno (Edizioni d’arte Imedea). Per Alberto Casiraghy pubblica la plaquette Mare (Pulcinoelefante) con un disegno di Giacomo Pellegrini. Incontra la poetessa milanese Alda Merini, nel suo appartamento sui Navigli, alla quale sottopone i suoi scritti. Durante un secondo incontro la stessa poetessa lo invita a proseguire sulla strada della versificazione con più alte ambizioni. Nel 2007, in seguito a un’importante conversione spirituale, lascia famiglia, amici, lavoro e si trasferisce a Pistoia. Trascorre cinque anni d’inattività artistica durante i quali si dedica allo studio delle filosofie orientali e al volontariato.  Solo nel 2013, a seguito dell’incontro col prof. Ernesto Marchese, relatore di una serie di conferenze sulla poesia classica e contemporanea, ricomincia a scrivere. Il suo cantico della bellezza viene letto nelle sale affrescate del comune di Pistoia dalla compagnia teatrale “il rubino”. Una sua silloge tratta dal poema Lechitiel è pubblicata e recensita dalla poetessa Maria Grazia Calandrone sulla rivista internazionale “Poesia” del Febbraio 2016, n°312(1). Riceve due lettere di critica positiva dal Cardinale Gianfranco Ravasi (2). Riceve una critica alla poetica da Bernard Tiburce, bibliotecario del Centro Pompidou di Parigi(3). Otto inediti vengono pubblicati su Nazione Indiana(4). Pubblica nel 2016 per “Terra d’Ulivi edizioni” il poema Lechitiel. Alcune sue poesie si possono ascoltare su canali youtube. Parallelo e altrettanto vissuto come espressione poetica è il suo percorso pittorico. Nominato giurato per la prima edizione (2017) del premio di poesia Maria Maddalena Morelli “Corilla Olimpica” città di Pistoia  insieme ad Ernesto Marchese, Matteo Mazzone, Marco Marchi, Gabriella Grande, Giacomo Trinci, Antonella di Tommaso.
Attualmente vive a Pistoia.

(1https://andrea-bassani.com/category/lechitiel/recensione-di-m-g-calandrone/

(2https://andrea-bassani.com/category/archivio-stampa/

(3https://andrea-bassani.com/category/nota-critica-di-bernard-tiburce-bibliothecaire-centre-pompidou-parigi/

(4https://www.nazioneindiana.com/2016/04/14/martirio-dei-poeti/

PILLOLE DELL’INTERVISTA A ANDREA BASSANI

Aspettando l’intervista integrale al poeta Andrea Bassani, domani 23 aprile 2017, ecco qualche pillola  da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE” e, in apertura, un regalo per tutti noi 😉

Buon ascolto!

PROMO – “Lo specchio delle parole” (con il poeta Andrea Bassani)

Domenica, 23 aprile 2017, 3° appuntamento con la rubrica “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.

Incontreremo…

Scopritelo nel promo 😉

Domani, su YouTube, Pillole dell’intervista. ^_^

PILLOLE dell’intervista a Franz Krauspenhaar

Aspettando l’intervista integrale allo scrittore Franz Krauspenhaar, domani 31 marzo 2017, ecco qualche pillola  da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.

PROMO – “Lo specchio delle parole” (con lo scrittore F. Krauspenhaar)

Venerdì, 31 marzo, 2° appuntamento con la rubrica LO SPECCHIO DELLE PAROLE.
Domani, su YouTube, PILLOLE dell’intervista.

Chi incontreremo?

Scopritelo nel promo

“LA SCIENZA DELLA PASSIONE” – Intervista a Franz Krauspenhaar

Nel 2016 Franz Krauspenhaar (scrittore, poeta e musicista milanese) ha pubblicato il romanzo Grandi momenti (Neo edizioni) e la raccolta di poesie Capelli struggenti (Marco Saya editore). Si avvia verso le fasi conclusive il progetto di musica elettronica Nerolux, che nasce come derivazione delle esperienze musicali maturate nei due dischi realizzati precedentemente col duo Atelier Vidocq.

  1. 12998648_1076016455799511_3760069408809642707_nCosa significa scrivere per te?

Me lo sono chiesto tante volte. Significa respirare con un altro polmone, con un polmone di riserva. È una boccata d’ossigeno di fronte alle piccolezze della vita, nonostante anche la scrittura abbia le sue cose minime, naturalmente, le sue cose ridicole, le sue cose negative come tutto, del resto. È soprattutto  una passione che si concretizza, una passione  che ho fin da bambino, ma che per un certo periodo avevo abbandonato per fare altro e che, poi, è ritornata prepotentemente a un’età, come si suole dire, già matura.

  1. Quando hai tra le mani un tuo libro, in questo “incontro” tra l’uomo che sei e l’uomo che eri nel tempo in cui hai scritto quel determinato romanzo e quella particolare raccolta di poesia, in quale rapporto ti poni con ciò che hai lasciato di te in quelle pagine?

Sai, questo rapporto non è sempre lo stesso. Dipende un po’ dal momento e dal libro. Io difficilmente rileggo completamente un libro che ho scritto. Praticamente non mi succede mai. Posso  rileggere qualche brano e quando mi capita di farlo con i miei romanzi, a volte, trovo 225850_2052118419413_5428483_ndelle cose che non rifarei, sinceramente. La poesia, invece,  è già un libro a sé, è come se fosse già un libro piccolissimo che, insieme agli altri libri che sono le altre poesie,  formano una piccola biblioteca. Questa è la mia visione. E in quel momento posso provare un’emozione, positiva o negativa, anche un po’ di tenerezza per come avevo risolto certe cose allora e come, invece, non le risolverei  più in quel modo, ma magari anche peggio! Nel senso che oggi, essendo forse più avvertito su certe cose, non mi lascerei andare come  allora all’errore. Anche se  l’errore  è sempre da mettere tra virgolette nella poesia. Non esiste un errore vero e proprio, perché non si tratta di un errore di montaggio come nel cinema, ma è qualcosa che possiamo chiamare ingenuità. Sì, ingenuità. Ecco, oggi non mi lascerei più andare ad un errore di ingenuità.

  1. Hai parlato di tenerezza. Nel ricordare, come hai dovuto fare in “Era mio padre”(Fazi Editore, 2008) hai mai provato la sensazione che la tenerezza potesse essere violenta,  potesse ferire?

Certo. In quel libro sicuramente la tenerezza è un’arma a doppio taglio. Scrivendo, si ripensa a certe cose –  cose tenere, moti d’affetto, carezze  – che possono diventare abrasive proprio perché è passato del tempo. È  passato, soprattutto, un momento di esistenza che non c’è più, quella persona non esiste più se non nel ricordo. Quindi, sì, la tenerezza è un’arma a doppio taglio, però è anche una delle cose più belle che ci sono state date in qualche modo, che sono a  nostra disposizione, non solo nella vita comune, ma anche nell’ espressione artistica. Però bisogna saperla maneggiare con cura, perché è un qualcosa di molto vibratile, come si sposta di un centimetro cambia quasi colore, come un prisma. La tenerezza è come una specie di gioiello che abbiamo dentro di noi e che possiamo portare come dono agli altri. È delicata e forte nello stesso tempo.

  1. In “Biscotti selvaggi” (Marco Saya Editore, 2012) un verso recita: “Vivere da falchi senza zampe”. Quanto costa vivere così?

È la condizione umana questa, il più delle volte; c’è poco da fare. Siamo dei falchi,  non tutti naturalmente. Tra di noi ci sono  dei falchi  a cui hanno tolto le zampe o che si sono, per così dire,  automutilati. Nello zoo, nel bestiario umano esistono anche  questi esseri, costretti a non essere liberi, liberi veramente.

Quanto costa vivere così? Costa un sacco di soldi!  Però possiamo anche vivere così, pur continuando a combattere per non esserlo. Non è una condizione fisica e quindi quelle zampe possono ricrescere di tanto in tanto o anche spesso. Siamo degli animali con la ricrescita facile, e anche difficile, del resto…

  1. E a proposito di libertà, un verso della tua poesia “Libero” in “Le prove di esilio” (Sillabe di Sale editore, 2015, coautore Michele Caccamo) recita così: “Sono stato libero, poi non lo sarò più./ Poi lo sono stato, e ora non so più esserlo”. Che significato dà un grande scrittore come te alla parola libertà?

È una parola che non è solo una parola.  Per molti è una parola e basta, da usare a seconda delle convenienze. Per me è  fondamentale. Già l’atto dello scrivere è un atto di profonda libertà. È anche per questo che scrivo: per essere libero.

  1. Esistere o resistere? Cosa richiede più coraggio?

Sono praticamente le due facce della stessa medaglia: senza resistenza non ci può essere esistenza e, ovviamente,  senza esistenza non  ci può essere resistenza. Soprattutto devi resistere alla vita stessa, a come ti si pone, ai suoi colori scuri per poter poi godere anche dei suoi colori pastellati, anche se i colori pastellati non sono poi esattamente il mio tipo di colori – io amo  lo scuro, amo il nero, amo il dark –  ma è per spiegare  che resistere ci permette di non dimenticare che la vita è fatta anche di colori più rilassanti, più vivaci, più belli insomma. Più belli? Beh, anche  il concetto di bellezza, come ben sappiamo, è sempre mutevole.

Cos’è la bellezza per te?

La bellezza può essere anche qualcosa di inquietante. I racconti di Lovecraft sono bellezza, Edgar Allan Poe è bellezza. Non dobbiamo cercare la bellezza nel cosiddetto bello classico, altrimenti ne abbiamo preso soltanto una parte. Questi esteti, che ci raccontano che la bellezza per esempio è un abito firmato, non sono artefici di bellezza, ma semplicemente della loro bellezza. Anche io ho la mia bellezza naturalmente, ma non mi considero proprio un esteta, in quanto l’esteta è molto più superficiale. Io vado, invece, un po’ più a fondo, quindi diciamo che sono  più bravo io, ecco!

  1. “Intorno a me il deserto, ma sono proprio certo di NON aver sbagliato strada”. È un verso di “Capelli struggenti” (Marco Saya, 2016). Cosa vuol dire, per te,  non sbagliare strada?

In quel verso c’è una punta di amara ironia, perché noi non abbiamo in mano il nostro destino,  come, invece, mi dicono in molti. Credo che sia una grande sciocchezza.  O meglio, lo abbiamo fino ad un certo punto, perché il destino è qualcosa che va un po’ oltre le nostre capacità, può essere semplicemente il caso, alcuni lo chiamano karma. Io non credo a nulla nello specifico, quindi può andar bene tutto, per quanto mi riguarda. Non sono sicuro di nulla e, per questo, in un certo senso mi sento libero anche di fronte a particolari credenze.

  1. Immagina la scena: stoppare la palla al limite dell’aria di rigore, liberarsi dei difensori, battere con un diagonale e…NON fare gol e poi ritornare a correre dietro quella stessa palla. Non solo richiede una debordante dose di passione (quella passione di cui hai scritto in un tuo libro proprio  dal titolo “La passione del calcio” (Perdisa Pop edizioni, 2010), ma interpella la fiducia in se stessi, nelle proprie capacità. Quanta fiducia richiede la scrittura? E fiducia in che cosa?

1902043_779415848792908_5813271888063047781_nFiducia in quello che si fa. La passione richiede fiducia, è ovvio, ma può anche autoalimentarsi, perché, soprattutto all’inizio, è normale essere molto insicuri, molto indecisi e non credere veramente, fino in fondo nel proprio valore. Il valore cresce tra le nostre mani, ma solo se viviamo nell’applicazione della nostra passione, come se la passione fosse una scienza. Dobbiamo applicare la passione giorno dopo giorno nel lavoro duro. La scrittura è un fatto di lavoro, un fatto di passione e lavoro, di applicazione anche ferrea spesso. È necessario lavorare molto, anche se oggi  mi sembra che questa componente essenziale stia venendo un po’ meno. Si cerca  il successo semplice, con una scrittura spesso poco profonda, poco scrittura; la maggior parte delle volte è più una redazione che una scrittura.

  1. Stai per concludere un tuo nuovo progetto “Nerolux”, brani di musica elettronica e sperimentale.

È un progetto musicale che si avvia verso le fasi conclusive. Naturalmente quando si lavora in autoproduzione si incontrano dei problemi che nelle grandi  produzioni si risolvono subito perché si dispone di tanti soldi. In autoproduzione, invece,  bisogna anche arrangiarsi con l’aiuto di professionisti che  per te hanno  poco tempo e che quindi per te lavorano solo nei ritagli di tempo.

Questa per me è una bellissima esperienza che va oltre la letteratura, anche se, alla fine, la considero un’ espressione artistica in qualche modo anche letteraria, fa sempre parte di quel grande contenitore di vita che è l’arte nel quale un artista può variare, usando anche altri “pennelli”. È un qualcosa di nuovo a cui sono arrivato a 50 anni, ma che come idea ho avuto sempre dentro, pur non credendo mai di poterci riuscire davvero. Alla fine, invece, ci sono riuscito in qualche modo, poi naturalmente si vedrà.

Io ho già fatto un paio di dischi di musica elettronica con un duo che poi si è sciolto. Sono stati due esperimenti parzialmente riusciti e adesso vediamo cosa succede con questo Nerolux.

La musica elettronica sperimentale ha un carattere ibrido, è un linguaggio che ignora o addirittura  contraddice gli schemi rigidi ed  il brano, spesso, si fonda su un incontro tra continuo e discontinuo. Sembra quasi che tu faccia una  scelta di interagire con il caos piuttosto che controllarlo. È così?

Si, esatto. È un po’ la mia caratteristica anche in poesia, in parte anche nel romanzo. Hai inquadrato perfettamente la questione:  interagire con il caos, mettere sul piatto vari elementi. Uno stile può essere caratterizzato anche dalla varietà dei sottostili che sono all’interno. Ci sono dei miei  romanzi che sembrano scritti da  persone diverse, perché  per me è tutto una sperimentazione. Ma non una sperimentazione per la sperimentazione – quella non mi interessa e poi è stata già fatta – è una sperimentazione mia, personale,  su di me come autore perché voglio toccare  argomenti e stili diversi. Non mi accontento mai, ecco!

È il segreto della bellezza di quello che scrivi.

Non lo so. Può darsi.

  1. Nella canzone “Il tutto è falso” Giorgio Gaber canta questi versi: “Il tutto è falso/il falso è tutto /il falso è un trucco/un trucco stupendo/per non farci capire/questo nostro mondo/questo strano mondo/questo assurdo mondo/in cui tutto è falso/il falso è tutto…” Il falso è tutto? Sei d’accordo con Gaber?

Questo testo, come tutti i testi delle canzoni di Gaber, è molto bello  e molto profondo, però per me il falso non è tutto. Non potrei dire la stessa cosa.  È un testo per canzone e, in quanto tale, ha bisogno anche di dire il falso, per essere vero. Anche  noi scrittori dobbiamo raccontare il falso per arrivare ad una sorta di verità, ad una verità parziale naturalmente. Verità parziale che è poi, spesso,  anche la verità, perché non è nelle nostre capacità di umani parlare di verità totale. Però,  attraverso la verità parziale possiamo arrivare ad una verità  che possa essere grossomodo condivisa,  se non da tutti,  da molti. Ciò che è falso fa parte della nostra vita ed è ciò che ci osteggia, ciò che ci vuol fare del male. È  un po’ la rappresentazione del diavolo, viviana nicodemo 2diciamo così. La falsità ci uccide giorno dopo giorno, ci impedisce di vivere, ci tronca quelle zampe se siamo dei  falchi. Il falco che cerca di volare è sincero, cerca di fare il suo mestiere e  invece il falso cerca di non farglielo fare e quindi è  controllo, è mancanza di libertà, è ipocrisia, tutte cose contro le quali troppo poco ci battiamo.

Ci vuole una guerra vera a propria contro queste cose, ma non la combattono in tantissime persone perché è molto difficile e ci sono anche  pochi strumenti per farla,  anche se siamo in piena era tecnologica. Ma è proprio quest’era tecnologica a controllarci, per renderci sempre più fintamente intelligenti e più veramente stupidi.

E cosa  è profondamente vero, per te, invece?

I sentimenti. I sentimenti sono veri. I sentimenti sono quanto di più vero. È attraverso il moto dei sentimenti che noi possiamo vivere davvero, possiamo resistere per esempio, possiamo mandare avanti la nostra battaglia, che è una battaglia sentimentale in prima istanza. A me danno del cinico, perché il più delle volte io mi diverto ad essere più cinico  di quello che sono. Certamente sono uno che ha visto  tante cose e non si fa grandi illusioni, quello no.

  1. Se nel mondo si perdessero, all’improvviso, tutte le parole e tu potessi trattenerne una sola, quale tratterresti?

A me piacerebbe dire amore perché farei un figurone. Direi sentimento, ma non perché è la parola più bella del vocabolario, ci sono parole più belle secondo me, anche più forti, più passionali. Ecco, forse la parola passione, ancor di più, rappresenta quello che io vorrei non sparisse mai dal vocabolario e dalla vita. Sì, è questa la parola che tratterrei tra tutte: PASSIONE.

                                                           

                                                                         Gabriella Grande

 

libri del FranzFranz Krauspenhaar (Milano 1960) ha pubblicato 9 romanzi, 1 saggio narrativo e 5 libri di poesie. Ha fatto parte, per quattro anni, della redazione del blog Nazione Indiana e ha cofondato il blog La poesia e lo spirito e la webmagazine Tornogiovedì. Scrive di letteratura, arti e costume per riviste e giornali. A breve sarà nella redazione della nuova rivista letteraria Il Maradagal. Si occupa da qualche tempo anche di musica elettronica.

“Anime nude” – Intervista a Michele Cipriani

L’attore Michele Cipriani è attualmente impegnato nello spettacolo teatrale “Il nullafacente” di Michele Santeramo e regia di Roberto Bacci, in scena dal 30 marzo al 2 aprile 2017 al Teatro Studio Mila Pieralli  di Scandicci (Firenze), Fondazione Teatro della Toscana.

  1. micheleciprianiPPCos’è il teatro per te? 

Il teatro per me è l’unica forma possibile di esperienza collettiva. È stato inventato per  permettere all’uomo di guardare se stesso, di confrontarsi con i suoi difetti e i suoi  limiti e di riflettere sui possibili  modi per superarli. All’inizio era un’esperienza religiosa e, in fondo,  lo è rimasta tuttora. Anzi, oggi, forse lo è ancora di più, perché  in un mondo sempre più alienato, il teatro è l’unico tipo di esperienza che ti permette di  vivere una comunione con gli altri, quindi,  per me è,  prima di tutto,  una forma di comunicazione. Soltanto pochissime  altre esperienze ti consentono di collegarti intimamente ad altre persone in un modo  così immediato e forte. Credo che il teatro rappresenti una possibilità. Gli esseri umani senza le relazioni non esistono e il teatro è uno dei luoghi in cui la gente può – e potrà anche e soprattutto  in futuro –  sfuggire all’alienazione  e alla solitudine, per vivere  un’esperienza insieme ad altri esseri umani, e forse anche  – e qui esagero,  ma solo fino ad un certo punto –  per continuare a sperimentare che cosa  significa essere umani. Proprio per questo credo che il teatro non morirà mai. Riguardo a questo io sono drammaticamente ottimista – per usare un’espressione del teologo Vito Mancuso – perché se il teatro dovesse morire significherebbe che è morto anche l’uomo, perché vorrebbe dire che l’essere umano  non ha più voglia di vedersi, di rappresentarsi.

  1. Quanto è schermato l’attore di teatro dall’invadenza di una storia rappresentata? C’è una resa alla verità del personaggio che interpreti di volta in volta o una lotta, una tensione continua?

La capacità di costruire con l’immaginazione  un’altra possibilità esistenziale è una cosa MIK2estremamente affascinante, almeno per me,  quindi io d’emblée  non pongo nessun tipo di resistenza. La costruzione a cui mi riferisco è sempre e solo intellettuale. Io non  credo agli attori che dicono di essere realmente quello che interpretano. Per me è una menzogna;  non  potrai mai essere veramente qualcun’altro. Quello che fai sono solo costruzioni intellettuali che,  se sei bravo,  risultano così credibili da coinvolgere chi ti guarda, ma non sono mai  vere, perché una cosa è la verità ed un’altra è la credibilità. Non parliamo mai di verità, ma di credibilità. Io vivo sempre un certo distacco dal personaggio che interpreto perché, in fondo,  non sono mai  veramente io. Sarebbe terrificante altrimenti. Immagina se dovessi tutti i giorni perdere l’amore della mia vita come fa Romeo o provare  rabbia per l’ingiustizia subita come Amleto! Sarebbe un’esperienza devastante, penso  che un essere umano non ne uscirebbe vivo. Allo stesso modo,  ci sono stati dei momenti della mia vita in cui un particolare tipo di personaggio ha toccato degli aspetti della mia anima che mi hanno messo in seria difficoltà,  perché costruire quel tipo di esperienza, anche solo con l’immaginazione, è stato così forte da coinvolgermi come essere umano, nonostante io provi sempre a distinguere l’attore dall’essere umano. A me è successo, per esempio, quando ho dovuto interpretare un personaggio che faceva violenza. L’ho fatto, ho costruito quel personaggio,  ma quell’esperienza  mi ha lasciato degli strascichi.  Certe volte si va a sollecitare qualcosa di troppo simile alla vita, e per questo meno facile da gestire psicologicamente.  Anche se stai giocando a costruire un’altra vita, un’altra personalità, un’altra identità,  in quel momento stai facendo un’esperienza. E anche se la fai con il dovuto distacco, può farti male.

Credo sia necessario molto autocontrollo, per non sprofondare in quelle emozioni…

Il bello di fare questo lavoro è che è un continuo interrogarsi su se stessi e su cosa significa essere umani. Ma è anche un’arma a doppio taglio, perché ci sono delle volte in cui  tutta questa continua  sollecitazione, da parte di  esperienze meno facili da gestire nel trattare alcuni personaggi, può  anche fiaccarti dentro. Ad esempio, nel mio ultimo spettacolo, “Il nullafacente” di Michele Santeramo,  si parla di una persona che non vuole fare niente e ha dei motivi profondi per non voler fare niente. I quesiti che ti pone quel disgraziato, come essere umano,  sono abbastanza ficcanti e si subisce la tentazione di dire: “Ma sì, effettivamente ha ragione lui! Affondiamo anche noi in quella disperazione, diventiamo anche noi assolutamente passivi!”.  È necessario, per questo, un certo lavoro interiore per guardare quello che ti succede, quello che vivi sulla scena e per vagliarlo, valutarlo alla luce della tua coscienza e così sublimarlo,  perché  tu non ne venga schiacciato.  Nel teatro si ricevono continuamente sollecitazioni di questo tipo e si  è molto più soggetti alla stanchezza interiore rispetto ad altri lavori, in cui devi semplicemente eseguire delle cose senza doverti preoccupare di quello che stai vivendo in quel momento.

  1. Il protagonista dello spettacolo di Michele Santeramo, “Il nullafacente”, si sottrae da tutto quello che non rientra nei suoi bisogni. Non è un personaggio che non fa nulla in assoluto, ma decide di fare solo quello che desidera profondamente; fa molto, ma per se stesso. Tu cosa credi non si debba fare per stare bene?

Il tema che affronta “Il nullafacente”  mi coinvolge profondamente e mi sono interrogato molto sul significato di questo spettacolo. Concordo pienamente con la prima fase dell’atteggiamento del nullafacente, ovvero con il suo tentativo  di liberarsi da qualcosa. Il primo passaggio che il nullafacente compie è, infatti, quello che potremmo definire  della libertà da, attraverso il quale, arriva a scegliere di vivere una specie di ecologia interiore, allontanandosi da tutte le sollecitazioni false di ciò che lo circonda.  Questo lo trovo un passaggio  corretto e lo condivido. La  seconda fase, invece, la svilupperei, personalmente, in un modo diverso dal nullafacente, compiendo il salto ad una libertà per. La libertà guadagnata si dovrebbe poi poter  spendere, e farlo in qualcosa per cui ne valga la  pena. Non è possibile non fare assolutamente niente. Lo stesso nullafacente, quando raggiunge una condizione di vuoto totale, cura il bonsai,  si dedica a qualcosa, a dimostrazione del fatto che  l’uomo non è fatto per vivere nel vuoto più totale, semmai  per riempire il vuoto, con la propria creatività ad esempio.  Secondo me, la  scelta di non fare niente del nullafacente è dettata da una profonda disperazione,  che scaturisce dalla consapevolezza  che la persona amata sta per morire. È  sicuro  al 100% che la perderà e il suo atteggiamento  è una difesa dalla sofferenza della vita. Bisognerebbe vedere che cosa succederebbe – ma non ne abbiamo la controprova – se lui,  invece,  di avere la certezza al 100% che la persona che ama sta per morire, avesse anche solo il 20% di speranza. Come  spenderebbe quel 20% ?Il personaggio del nullafacente è  molto umano, non una maschera, non una caratterizzazione di un’idea,  e,  come tutto ciò che investe la sfera dell’umano,  è molto complesso, e non lo si può interpretare solo alla luce di un discorso filosofico su come dovrebbero andare le cose e su come, invece,  non vanno.  Questa la grandezza dei testi di Michele Santeramo.

  1. Cosa ha da dirci, invece, il personaggio che interpreti, ovvero “il proprietario” ? E quale tipologia di uomo smaschera?

Il proprietario è, per certi versi, lo specchio convesso del nullafacente. È molto interessante come personaggio perché lui, pur rivendicando i soldi (che il nullafacente gli deve),  non è una persona avida; lui vuole i suoi soldi, la sua unica preoccupazione è riuscire a recuperare quello che è suo, sostanzialmente per lui si tratta di recuperare se stesso, questo suo se stesso che gli sfugge e che produce in lui  una ferita da ingiustizia;  è un problema di identità. Infatti ripete spesso: “Quei soldi sono miei,  perché non dovrebbero tornare a me?” , quasi a voler significare: “Perché questa parte di me non sta con me?” Il proprietario è l’unico personaggio ad avere una spinta ideologica pari a quella del nullafacente. Ma, mente il nullafacente  è quello che Brecht definirebbe “l’uomo di carattere” e  prende le distanze dai bisogni della società,  Il personaggio del proprietario è, invece,  perfettamente integrato nella società, è una sorta di caratterizzazione simbolica dell’uomo medio attuale.

  1. Per te, che devi imparare a memoria le battute di un copione, cos’è la memoria?

La memoria è qualcosa di molto tecnico. Ci sono alcuni aspetti della nostra professione che non hanno a che fare solo ed esclusivamente con l’aspetto artistico, ovvero il pensiero, l’anima e lo spirito che ci metti, ma  che sono artigianali, puramente tecnici, e che richiedono mestiere più che anima, e la memoria, per me, è uno di questi. È uno strumento che mi consente di fare tecnicamente il mio lavoro.  Conosco attori,  anche molto bravi, che hanno dovuto smettere di lavorare perché non avevano memoria o perché non erano riusciti ad esercitarla, ad allenarla o a disciplinarla. Io ho la fortuna di avere un’ottima memoria, ma l’ho anche  allenata, per cui riesco a imparare un copione anche in 4-5 ore, ormai. Ma non c’è niente di straordinario. È lavoro, è esercizio.

  1. Cosa rappresenta, per Michele Cipriani quella linea di confine tra il palco e la prima linea di sedie della platea?

Lì c’è il motivo per cui lo faccio. La prima, la seconda, la terza,ma  anche l’ultima fila sono il motivo per cui sono sul palco di un teatro. Ci sono molte falsità e ipocrisie rispetto a questa cosa, quando si afferma che non lo si fa per il pubblico, per farsi guardare. Io sono profondamente convinto che ci sia un aspetto narcisistico  nel nostro lavoro e che sia ingiusto negarlo. Lo fai perché  c’è un  pubblico, ma,   anche e soprattutto,  perché  speri che in quella prima fila ci sia quello che io chiamo il tuo spettatore, cioè lo spettatore ideale per il quale  tu reciti. È per lui che  lo fai, perché speri e credi che questa persona,  ipotetica  o reale che sia,  capisca quello che stai facendo e il motivo per  cui tu sei lì e che stia con te, mentre  tu riesci  a dargli veramente qualcosa.  Quando succede, quando ti rendi conto che sta succedendo, si vive una delle esperienze più belle che un essere umano possa fare.

  1. Un verso di una poesia di Yves Bonnefoy (da “Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve”, Einaudi, 2001, pag. 42-43) recita:  “Ma l’acqua è sempre chiusa in fondo al pozzo, la stella vi resta sempre prigioniera”. Nello spazio chiuso del teatro,  “la stella”, ovvero la scintilla di verità che si inscena, resta prigioniera?

MIK1Il teatro è verità. Nel momento in cui lo si fa,  solo per  il fatto che delle persone, sul palco,  stanno cercando di “raccontare” una storia, e delle altre sono lì,  tra il pubblico,  a vivere quella esperienza insieme a loro, penso si stia facendo una profonda esperienza di verità –  di quella verità di cui tu parli – esperienza in cui l’essere umano illuminato, che è dentro ognuno di noi,  viene fuori. Noi viviamo la maggior parte della nostra vita nell’incoscienza. Il teatro fatto bene è una pillola di coscienza che ti è dato di  prendere. Uno spettacolo teatrale, quando funziona – come “il nullafacente” – è vita condensata se tu sei lì, in quel momento,  al 100%. Per questo faccio una grandissima fatica, mentre lavoro, ad accettare di  vedere i telefonini accesi , che siano  o meno con vibrazione o in modalità aereo, perché riconosco in questo il tentativo disperato della gente di arrampicarsi ancora al fuori. Ma io vorrei poterle dire:  “Almeno per qualche ora sparite dal mondo, state qua! State qua! Concedetevi la possibilità di essere veramente”. Sembra che la gente non ci riesca, abbiamo una potentissima attrazione per la dispersione e questo lo trovo  tristissimo. Quella stella di cui tu parli è un barlume di vita pura che rimane intrappolata lì, nello spazio del teatro,  solo quando tu vivi l’esperienza dello spettacolo pienamente, con tutto te stesso.

  1. Per te il teatro è una domanda o una risposta?

Tutte e due contemporaneamente. Il teatro è in piccolo quello che, secondo me,  ogni uomo dovrebbe fare nella vita: ovvero cercare di dare ordine al caos della vita, così piena di contraddizioni, di cose che fanno male, ma, per fortuna,  anche di tante cose che fanno bene ed è  quindi  piena di domande. Tramite il teatro si cerca  di raccontare la vita e le esperienze di altri esseri umani, di cui se ne deve avere inevitabilmente coscienza profonda (altrimenti non sarebbe possibile raccontarle), nel  tentativo di mettere ordine a questo caos. Si attua una catarsi, che è poi il motivo per cui è stato creato il teatro e che mi consente di vivere l’esperienza di un altro essere umano attraverso la quale capisco delle cose della mia  esperienza di vita. Qualche volta questo ci aiuta a trovare delle risposte, altre volte fa nascere in noi altre domande,  che prima di quella esperienza dello spettacolo non saremmo stati in grado di porci. Molte persone dopo lo  spettacolo “Il nullafacente” ci raccontano che  stanno  facendo delle riflessioni sulla loro vita mai nate prima. È questo che ci fa dire che quello spettacolo è servito.

  1. È il personaggio che si interpreta a tornare in esilio nel testo, fino alla prossima interpretazione, oppure il vero esiliato è l’attore, nel momento in cui si distacca da un grande personaggio?

Mi è capitato, di recente, di dover abbandonare un personaggio a cui sono molto affezionato, perché purtroppo per motivi di lavoro non potevo farlo più. Non c’è esilio, ma ti rimane dentro il ricordo di un amico, di un qualcuno che è stato con te per un tempo significativo della tua esistenza e che,  per certi versi, dentro di te rimane ancora. L’esilio prevede che tu possa staccarti da questa cosa, ma in realtà non è esattamente ciò che accade.  Piuttosto è come avere un album di fotografie tra le mani e ricordarti delle volte in cui siete stati insieme, e le cose che avete condiviso. Questo ovviamente non accade con tutti i personaggi, ma solo con quelli che ti hanno dato  qualcosa.

Quale personaggio ti è stato più amico?

Il personaggio che a me ha dato di più come essere umano si chiama Vincenzo ed è il protagonista dello spettacolo teatrale “La rivincita” di Michele Santeramo,  da cui poi è stato tratto il romanzo. Vincenzo è  un puro che,  per una serie di circostanze,  ne passa di tutti i colori nella vita, ma riesce a mantenere una sua dignità  ed una sua forma di resilienza che gli permette di andare avanti. Ricordo, in particolar modo, un momento bellissimo durante l’incontro con il pubblico, subito dopo una replica,  al Teatro Tatà, a Taranto. Parte dei problemi di questo personaggio derivavano dell’avvelenamento che aveva subito a causa dei pesticidi, perché faceva il contadino. I temi dello spettacolo toccavano  tematiche contingenti alla questione dell’Ilva – peraltro il  Tatà è un teatro che sorge proprio sotto le ciminiere dell’Ilva – e nel confronto con il pubblico abbiamo affrontato anche i problemi della città e della gente che vive lì. È  stato un momento molto significativo per me,  perché si è ricollegato molto alla mia storia personale. Mia nonna abitava in via Grazia Deledda,  quindi proprio di fronte all’Italsider,  ed ho avuto la percezione  netta che il personaggio di  Vincenzo  fossi io   ed  anche quello che  vorrei essere,  il riscatto che vorrei raggiungere, riuscendo a fare lo stesso tipo di lavoro interiore e lo stesso tipo di percorso psicologico. Credo che quello sia il personaggio che mi è rimasto più amico.

  1. Quindi nel teatro si è attori o anime nude?

L’attore è un’anima nuda. L’attore, diceva Artaud, è un atleta del cuore. È un cuore cheMIK3 si muove, che si tende al massimo, che non può avere barriere, difese, esposto ad una continua sollecitazione emotiva. È necessaria una grande forza d’animo perché, spesso e volentieri, le cose che fai ti provocano dolore oppure, banalmente,  non riesci a farle. Non sempre riesci a fare quello che gli altri ti chiedono e credono che tu possa fare e questo significa essere esposti sempre alla possibilità di un fallimento. In realtà non riesci mai a raggiungere la pienezza neanche durante una replica, perché dentro di te hai delle idee più grandi di quello che potresti fare rispetto a quello che concretamente fai.

  1. Se interpretassi te stesso sul palco, voltandoti verso la platea, cosa diresti? Cosa direbbe Michele Cipriani se interpretasse se stesso?

Non so quanto potrebbe essere interessante questo personaggio, ma delle cose da dire le avrebbe. Però, quando ti concentri troppo e pensi di dover dire delle cose interessanti, probabilmente finisci anche per essere banale. Forse proverei semplicemente a raccontare la mia storia, cercando  di coinvolgere il pubblico senza preoccuparmi troppo di quello che potrei dire. Penso che sia giusto così e che tutti i grandi personaggi ragionavano in questo modo. Voglio pensare che Amleto,  quando si chiede se convenga  essere o non essere,  lo faccia per una sua riflessione personale e tutta la discussione  che si crea intorno a questo dilemma,  poi,  sia sorta solo perché lo spettatore che guarda, si  sente interrogato da quel dubbio. Sarebbe interessante chiedersi se Amleto quella  domanda se la fa per sollecitare degli interrogativi in qualcuno o se la fa semplicemente perché se la fa. In effetti, se ci pensi, credo che sia molto più probabile che sia così.  C’è lui in quella  stanza che si chiede, come tutti: “Ma io che cosa campo a fare?” E tutto quello che ne consegue deriva semplicemente dal fatto che quella questione è così umana! Lo pensiamo tutti! Ed è dirompente proprio per questo:  perché lo proviamo tutti. È un’esperienza dell’anima. Ecco, se interpretassi me stesso sul palco direi:

“Guardatemi così come sono. Così come sono”.

                                                                                            Gabriella Grande

Michele Cipriani si è diplomato alla Civica Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano nel 2000.Tra gli spettacoli in cui ha lavorato ricordiamo: Hedda Gabler (Teatrino Clandestino. Regia di Pietro Babina), La Bottega del caffè (Teatro Filodrammatici. Regia di Paolo Giorgio), La Rivincita (Teatro Minimo. Regia di Leo Muscato), Alla Luce (Pontedera Teatro.Regia di Roberto Bacci), Lear (Pontedera Teatro. Regia di Roberto Bacci). Dal 2009 collabora con il Teatro Kismet di Bari con cui ha messo in scena gli spettacoli: Il Malato Immaginario, Il Paradosso del Poliziotto, Vite Spezzate. È cofondatore, insieme all’attrice Arianna Gambaccini, della compagnia KilkoaTeatro.