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GIULIO DE MITRI. “Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento” (Catalogo, Crac, 2019)

di Gabriella Grande

Sere fa, nella frenesia dei saluti e nella gioia degli sguardi, sono stata arricchita del regalo inaspettato di un libro, entrato, con emozione, poi, a far subito parte del mio giardino di nutrimento e riparo: il Catalogo del Maestro tarantino Giulio De Mitri, Presidente del CRAC Puglia di Taranto (“Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento”, Crac, 2019), che raccoglie testimonianza fotografica e bozzetti di due sue installazioni ambientali, del 2019, presentate in occasione della III edizione del MAS WEEK 2019, Festival di Architettura, Design e Arte:
“UNO SGUARDO ACCESSIBILE”, realizzata, con rigore tecnico, nel Borgo Nuovo, nelle tre vasche della Concattedrale Gran Madre di Dio e “RICONGIUNGIMENTO”, progettata, invece, nel Porto di Taranto, alle due estremità dei Moli di Sant’Eligio e di San Cataldo.

Purtroppo, non ho avuto occasione di visitare queste due installazioni nel periodo della loro fruizione pubblica ed è, quindi, necessario premettere che per poter dire di conoscere un’opera è assolutamente imprescindibile “incontrarla” nella sua materia viva, nella sua irruzione allo sguardo, in quanto esiste una distanza incolmabile tra l’opera e la sua rappresentazione, sebbene il Catalogo del Maestro De Mitri offra un’accurata e dettagliata galleria fotografica delle installazioni a cui faccio riferimento. Nonostante ciò, mi permetto di parlarne, oggi, solo concettualmente, per esprimere, nel modo che più mi rappresenta, la mia gratitudine per la condivisione della testimonianza cartacea di un atto creativo pregevole e che, ancora oggi, a tre anni di distanza, ritengo possa suggerirci un “modo di stare al mondo” che solo i Poeti come Giulio De Mitri sanno fare.


L’uso sapiente che il Maestro De Mitri, in “Uno sguardo accessibile”, ha fatto della luce monocroma blu, proiettata da 36 fari sulle tre vasche della Concattedrale, le ha permesso di diventare, infatti, materia poetica, accendendo di vitalità autonoma i 36 quadrati specchianti in pvc, di 50×50 cm, con i loro effetti cangianti e mutevoli, poggiati su basi di terracotta nelle tre vasche. Colpiti dalla luce azzurra, in dissolvenza, con le sue infinite potenziali mutazioni in successione, hanno reso possibile l’ interazione con il fruitore e le sue plurime risposte percettive ed hanno definito, nello spazio disegnato da Gio Ponti, un ulteriore spazio di animazione di comunicazione poetica, la sola a portare la forma di un’azione capace, nel medesimo tempo, di captare e mandare segnali ad altissimo contenuto sensoriale in una sequenza di riti di passaggio che sembrano testimoniare come quel che di oggettivo incontriamo, ci colpisce, individualmente, sempre in modo soggettivo e De Mitri, in questa installazione, fa di questa pluralità di attraversamenti un’identità che mi ricorda “Autoritratto” di Luigi Ghirri (Parigi, 1976).
Il messaggio essenziale, a mio parere, sia a livello di metodologia adottata che di essenza poetica, racconta che non dovremmo mai dimenticare, inoltre, che le espressioni individuali germinano da un sostrato di natura e di vissuto, come di storia e di memoria e, partendo da questo presupposto essenziale e ricalcando pienamente, a mio parere, il concetto di Arte dichiarato da Deleuze intesa come “captazione di forze”, l’installazione di De Mitri suggerisce quanto sia ancora possibile per questa Città andare incontro all’espressione della sua identità più piena se si accetta di fare esperienza della soglia non prevista. L’area dei quadrati non trattiene un limite, ma, con la sua superficie riflettente, si impone a guida del nostro sguardo in direzioni diverse da quelle che avremmo seguito spontaneamente. Rappresentano la soglia per andare verso qualcosa, la linea di passaggio verso un diverso “sguardo accessibile” sulle possibilità inespresse, ma rivelabili.
L’utilizzo della sola luce blu, questa scelta della monocromia che si offre ai quadrati specchianti, disposti come totem su cui il colore diventa forma in continuo mutamento, in giochi percettivi sempre diversi, mi rimanda a Yves Klein, il quale affermava che il colore blu fosse differente da tutti gli altri colori perché privo di dimensione, e collocabile, quindi, al di fuori del tempo e dello spazio, collocabile dunque in una diversa dimensione, forse proprio quella della possibilità, nascosta eppure suggerita da De Mitri, di un necessario e salvifico cambio di prospettiva, di un’apertura ad un diverso punto di vista sulle cose.
Le superfici specchianti che riproducono, ad ogni variazione d’angolo, immagini sfocate dell’ambiente circostante, del passaggio degli autoveicoli e dei bus e dello stesso fruitore, non solo restituiscono la complessità e l’ambiguità di quel che si vede e si vive, ma predispongono ad accogliere una gamma di risposte possibili non più lineari come quelle dell’occhio umano, facendo luce su quanto sia importante sfuocarsi, lasciare che i contorni, delle cose come delle posizioni, tremino.

È grande il mio rammarico per aver perso la possibilità di incontrare e di interagire con questa installazione, che tuttavia riesco ad attraversare, oggi, tra le pagine del catalogo, e che sento di definire “l’ora blu”, “l’ora costante” di Ungaretti che sa accendere la notte del pensiero stagnante.

Proprio come avviene nella seconda installazione: RICONGIUNGIMENTO, realizzata al Porto di Taranto, alle due estremità dei moli di Sant’Eligio e di San Cataldo, in cui lo spazio tra cielo e mare diventa una tela su cui ciò che De Mitri disegna mi fa ripensare ai versi di Roberto Mussapi: “una fibra di luce incapace di scindersi, / la nostra origine inglobata in un abbraccio” (Roberto Mussapi,”Le poesie” Ed. Ponte alle Grazie, Milano 2014).
La geometria tracciata dalla proiezione di coni di due fasci di energia luminosa di colore blu definiscono un contorno immateriale capace di ricreare, anche qui, uno spazio nello spazio, la cui immagine si forma e si rivela nel buio, a sottolineare come ci sia una realtá ulteriore a quella visibile e percepibile. I due fasci di luce disegnano un triangolo equilatero che, nel significato simbolico che associa le figure geometriche ai 4 elementi, rappresenta la terra. In questo caso, terra in cui prende forma il punto di equilibrio tra il mondo interno e quello esterno, tra ciò che è rappresentato e ciò che, invece, è lasciato fuori dalla rappresentazione ma che, nonostante tutto, esiste. È, a mio parere, la terra del ricongiungimento delle soglie possibili, quella percepita e quella a cui si deve tendere per andare verso il cambiamento, verso quell’alternativa che De Mitri “caparbiamente rivendica: il diritto e il dovere dell’arte e della cultura di farsi testimonianza attiva per la ricerca di nuovi equilibri di cui, partendo proprio dal suo stratificato passato, il Sud può divenire l’Avamposto (Catalogo “Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento”, Giulio De Mitri, Crac, 2019, pag.13).

BIOGRAFIA di GIULIO DE MITRI

Giulio De Mitri è nato a Taranto. Presidente del CRAC Puglia di Taranto (Centro Ricerca Arte Contemporanea). Ha compiuto studi umanistici ed artistici (Accademia di Belle Arti e Università). È professore ordinario di prima fascia in Tecniche e tecnologie delle arti visive contemporanee all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Impegnato da anni in una ricerca sulla storia e sull’immaginario della cultura mediterranea, protagonista italiano nella creazione di installazioni luminose. Ha sempre lavorato su progetti in grado di generare estremo coinvolgimento emotivo e spirituale nel fruitore, manifestando una sensibilità e una leggerezza che spesso l’arte contemporanea ignora. Ha esposto in mostre personali, collettive e di gruppo ed è stato invitato a numerose rassegne in Italia e all’estero, tra le più recenti si segnala: Mediterranean dream, Pinacoteca Provinciale, Salerno; La seduzione del monocromo, Museo Civico dei Bretti e degli Enotri, Cosenza; Esperidi, Studio d’arte contemporanea “Pino Casagrande”, Roma; Biennali di Venezia LIV e LII per gli eventi: Sguardo contemporaneo, Palazzo Bianchi Michiel del Brusà e Padiglione Italia; J. Beuys. 
Difesa della natura, Thetis, Arsenale Novissimo; XV Quadriennale, Roma; 20 artisti per i 150° dell’Unità d’Italia, Palazzo Reale, Torino; Intramoenia Extra Art (a cura di A. Bonito Oliva e G. Caroppo), Castelli di Puglia; La luce come corpo, Galleria Peccolo, Livorno; XV e XIV Biennale d’Arte Sacra Contemporanea, Museo Stauros d’Arte Sacra Contemporanea, San Gabriele, Isola del Gran Sasso (Teramo); Videoart Yearbook 2007 e 2006, Bologna; Environmental Art Festival Lakonia: arthumanature topos 2007, Sparta, Sellasia e Geraki (Grecia). Dell’ampia bibliografia si segnalano le pubblicazioni più recenti: P. Aita, Accanto al meno, un ipotesi nell’arte contemporanea, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ), 2013; G. Gellini, Temporary Installations /Light Art in Italy 2012, Maggioli Editore, 2013; G. DeMitri / Oltre nella luce, (con testi di P. Aita, R. Barilli, G. Bonomi, V. Dehò, A. Iori C. Spadoni), Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2012; Giulio De Mitri / Il grandemare, Libro d’artista, Edizioni Peccolo, Livorno, 2012; B. Corà, Giulio De Mitri / La luce come corpo (con testi di R. Branà, L. Canova, B. Corà, L. P. Finizio, B. Tosi), Edizioni Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; T. Coltellaro, Fatti d’Arte, un percorso nel contemporaneo tra arte, società e territorio, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2010. 

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NOSTALGIA (2022) Regia di Mario Martone

di Gabriella Grande©

“’[…] Come l’esistenza/ che non matura – resta sempre acerba,/ di splendido giorno in splendido giorno – io non posso che restare fedele/ alla stupenda monotonia del mistero./ […] Pari, sempre pari con l’inespresso/all’origine di quello che io sono” (Pier Paolo Pasolini).

Ed è il tentativo di recupero dell’origine e l’attraversamento della sua ferita a trattenere, in una Napoli evanescente e contraddittoria, Felice Lasco, il protagonista del travolgente lungometraggio presentato in concorso al Festival del Cinema di Cannes, anche dopo la morte della madre che aveva sempre rifiutato di raggiungerlo all’estero e a cui si è potuto riunire, per assisterla, solo negli ultimi momenti della sua vita.
Il tempo e lo spazio, che separano ció che lui è ed ha nel presente (una avviata carriera da imprenditore, una moglie, interpretata dalla raffinata Sofia Essaïdi, innamorata e rispettosa dei suoi spazi e dei suoi tempi interiori ed un futuro medio-orientale luminoso), dall’adolescente che era stato, sottratto alla dissolutezza, si aggrumano e la nostalgia si contrappone alle attese, alle aspettative sul futuro ed emerge, fondamentale, a tentare di rendere decifrabile la storia identitaria di Felice, mutilata dalla perdita forzata dell’adolescenza che ha fatto seguito ad un evento violento e drammatico condiviso con l’amico fraterno Oreste Spasiano (interpretato da un convincente e ombroso Tommaso Ragno).
Di nostalgia si può vivere, ma si può anche morire, quando porta il protagonista del film a trattenere una certa distanza dalla realtà e a farlo restare fermo in un giorno assoluto in cui si orienta l’unico “tempo vero”, un “ventre materno”, una sorta di madre “ambiente” che – Felice ne è certo – sarà in grado di accoglierlo con un amore incondizionato, rispondendo alla sua esigenza di riparazione della frammentazione subita, e da cui poter essere anche attaccato, ma senza esserne distrutto. Un “tempo vero” che Felice si illude di poter riattraversare con una vecchia Gilera 125, alla ricerca di una ripetizione impossibile, ma che resta, invece, tempo parallelo al suo, non più abitabile, perché definitivamente perduto, come la madre.
La potente opera di Mario Martone (adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Ermanno Rea, Edizioni Feltrinelli, 2016), si apre con una citazione di Pier Paolo Pasolini tratta da “Poesie in forma di rosa”: “La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso, non possiede”. E, come l’Edipo pasoliniano, Felice sembra credere che la vita debba continuare e finire dove comincia, in un grembo-luogo di identificazione.

Così come luogo di identificazione e non solo mezzo di comunicazione diventa il linguaggio per il protagonista. Vissuto quarant’anni all’estero, catapultato, a quindici anni, in una realtà in cui non conosceva la lingua del Paese e la sua lingua Madre (l’italiano) non era più sufficiente per farsi comprendere, è stato segnato dall’essere un emigrato, e non solo a livello linguistico. Massimo Vedovelli (filosofo e linguista) traccia molto chiaramente questa condizione dell’emigrato, in cui ”tutto gli sembra parziale; tutto gli appare come segnato da linee di confine che invece di indicargli i territori nella loro identità, confondono e mescolano, nascondendo al migrante la ricerca della propria identità”.
L’italiano di Felice, al suo arrivo a Napoli, è stentato e ricco di interferenze linguistiche e le sue abitudini fortemente legate alla religione musulmana (non beve alcool e fa precedere la preghiera dall’abluzione purificatoria).

Man mano che costruisce il suo progetto di restare nella sua città d’origine, ritrova la propria identità e si riappropria della lingua Madre e finanche del suo idioma musicale. Solo allora, vediamo uno straordinario Favino (vincitore del meritatissimo Nastro d’Argento*) liberarsi in una coinvolgente danza orientale condivisa con i “ragazzi” di don Luigi Rega nel cortile della Chiesa di Santa Maria della Sanità, che diventa espressione di un sé ritornato integro e, per questo, dinamico.
Il desiderio di rivedere l’amico Oreste (nonostante la consapevolezza chiara di ciò che è diventato: ‘O Malommo, boss spietato, capo di bande criminali, di ricetattori e di prostitute) è, in realtà, desiderio orientato verso ciò che resta a testimoniare la perdita, perché è possibile elaborare ciò che è perduto, solo se quel che si è perso non è parte della nostra forma identitaria. La nostalgia di Felice è un desiderio di vedersi tornare in un “luogo” che resta dove tutto è stato perso e che, nonostante tutto, continua a parlargli.
Per questo, sono accoglienti e consolatorie le presenze di don Luigi Rega (il parroco della Chiesa Santa Maria della Sanità che recupera e sostiene i giovani a rischio), di Adele (la giovane storica dell’Arte che lo accompagna nell’attraversamento della Napoli sotterranea, tra catacombe e ipogei) e di Domenico, vecchio amico e innamorato della madre di Felice con cui, in diversi momenti del film, delimita e attraversa il non-luogo dell’assenza del padre.

Ma questi 3 personaggi, nonostante siano animati, nei confronti del protagonista, da un profondo desiderio di accoglimento e di recupero ad un metro dal baratro, riescono ad intercettare solo la dimensione visiva e cinestesica di Felice; i suoi luoghi interiori ne vengono solo sfiorati, come i vicoli di Napoli, percorsi sempre troppo in fretta.
La lezione dello psichiatra e umanista Starobinsky, forse, avrebbe aiutato a non consentire alla nostalgia di infliggere la ferita mortale, se si fosse interrogato lo snodo cruciale del passato per illuminare il presente e per cercare un punto di coerenza interna, perché, in fondo, anche questi 3 personaggi positivi non fanno che ripetere lo stesso errore commesso, a fin di bene, dallo zio di Felice, che, quarant’anni prima, nel tentativo di salvarlo, lo aveva costretto alla fuga in Libano e ad un forzato reset, senza alcuna elaborazione dell’accaduto, per rimanere poi a lavorare tra Cairo e Africa fino al suo ritorno a Napoli per assistere la madre morente.
Don Luigi, Adele, Domenico e finanche Oreste, ‘O Malommo, gli chiedono di andare via per sempre da Napoli, di “scomparire”, di operare ancora una volta una frammentazione, un nuovo reset rispetto al passato, rispetto a quell’evento drammatico dopo il quale, per un lungo periodo, Felice racconta di non aver più parlato, di non essersi più fatto ascoltare e di non essersi più ascoltato, di non essersi più “sentito”. Gli si chiede di nuovo e ancora di non “sentirsi”, di non “ascoltarsi”.
Il filosofo Agamben sostiene:” Diffidate tanto nella vita privata quanto nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro […] Solo un’indagine archeologica sul passato può permetterci di accedere al presente”.
Il nostro presente, come il nostro futuro, devono poter trovare un legame con la nostra storia interiore, altrimenti la nostalgia rapirà l’anima indietro, ma per divorarla, non per “ristorarla alla fonte”, come, invece, sostiene il filosofo Galimberti, consentendole l’elaborazione che è alla base della scelta di guardare avanti.
Felice, invece, sceglie di abitare il tempo delle corse sulla moto Gilera 125, delle ubriacature, dei tuffi nel Mare di Napoli, sceglie di acquistare una vecchia casa da abitare con la moglie, dopo averla restaurata come crede di poter fare con il tempo, fermo ad una fase arcaica sempre giovane e senza giorni, acquisendone come “religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta” (Pier Paolo Pasolini).
Ma il passato, come il grembo materno, ha un tempo di accoglimento vitale, superato il quale diventa pericoloso cercare ancora, nostalgicamente, nutrimento nelle sue buie viscere e il futuro deve voler trovare altri luoghi da abitare come uteri generanti o come qualcosa che gli assomigli.

*Nastro d’ Argento per migliore attore protagonista, migliori attori non protagonisti, migliore regia, migliore sceneggiatura

AURELIO AMENDOLA. “Un’antologia. Michelangelo, Burri, Warhol e gli altri”

Celebra 60 anni di carriera del Maestro della fotografia Aurelio Amendola, la Mostra antologica a cura di Paola Goretti e Marco Meneguzzi, visitabile nelle sale del Castello Svevo di Bari fino al 25 giugno 2022.

Un allestimento che si attraversa in punta di piedi, raccolti in se stessi come in poche Cattedrali in cui la Bellezza è più forte della voce dello stupore.

Potrei anticiparvi che incontrerete straordinari ritratti d’artista, immersive foto di architettura e della più grande opera di Land Art esistente al mondo (il Grande Cretto di Ghibellina di Alberto Burri), originali punti di vista di sculture del Rinascimento italiano (che Amendola disegna con la luce come Van Gogh racconta, in una lettera al fratello Theo, di fare con i tronchi dei salici: lavorandoci “finché non c’è dentro un po’ di vita”), incursioni nell’Arte Contemporanea e nel bianco e nero del Maestro Amendola che si traduce in un vero e proprio atto creativo.

Potrei preannunciarvi i suoi happenings e la potenza con cui, tra gli altri, documentano Alberto Burri che, nel suo studio di Città di Castello, attraversa l’obiettivo con la ferita della combustione, Claudio Parmiggiani che crea e si sottomette alla scheggia e ai frantumi del suo labirinto di cristallo, Mario Ceroli (che Achille Bonito Oliva chiama “l’archi-scultore”), le cui grandi ali di farfalla, intagliate in legno in un’alternanza di pieni e di vuoti, sembrano legare, con un respiro, empirico e trascendente.

Potrei… Ma non racconterei comunque nulla dell’esperienza che farete davanti ad ogni singola fotografia, che diventa essa stessa “corpo”, ridefinendo il significato comune della fotografia.

È alterità radicale che supera il margine tra simbolico e reale che fa, generalmente, da scudo tra l’osservatore e l’oggetto o il soggetto rappresentato. Ad ogni scatto, ritroverete amiche le parole che Lacan scrisse nel Seminario VII: “Mi è estraneo, eppure al centro di me”.

Gabriella Grande

IL GESTO FOTOGRAFICO DI CARMINE LA FRATTA, TESTIMONE DI UNA VOLONTÀ CHE CHIEDE DI RESISTERE

La fotografia è guerriera quando attraversa il nostro tempo senza giustificarlo, diventando testimonianza di un cambiamento profondamente umano, raccontato nella poetica della forma.

A distanza di alcuni giorni dai festeggiamenti del Santo Patrono della città di Taranto, si vestono di ulteriore potenza espressiva gli scatti del fotografo tarantino Carmine La Fratta che raccontano come la volontà abbia subìto un contagio collettivo e la dimensione dello spirituale stia cedendo lo spazio interiore sacro, da difendere saldamente, ad un intervallo sempre più precario, in rapida evaporazione cosciente.

Ph Carmine La Fratta

Il primo scatto condensa il volto di una città che le difficoltà e i sacrifici hanno mortificato e complessificato. La luce calda dei lampioni, allineata con cura con la fila delle candele, prima accese, poi spente e infine di nuovo accese, in un’alternanza che rimanda a quella della luce semaforica, in quello snodo di Corso Vittorio Emanuele II in cui il segnale stradale pedonale raffigura un uomo con il volto coperto da un adesivo, è la sintesi di uno stato d’animo che si manifesta in questo istante di collettiva “distrazione”. Nessuno sguardo verso il Santo, nessuna ferma volontà di accogliere il momento nella sua potenza emotiva ed anche il selfie lo si preferisce da un’angolazione che difficilmente catturerà il Patrono e il senso di quello che si sta vivendo. Dritta e fiera davanti al passaggio di un’icona, che dovrebbe costruire un anello tra il trascendente e il reale, c’è solo una palma perché la Natura quell’atto di volontà di far “resistere” la Bellezza lo compie ogni giorno, in silenzio.

Ph Carmine La Fratta

Anche il suo secondo scatto sembra raccontare la stessa ricerca dell’uomo di un tangibile che riesca a scuotere una volontà troppo minata dall’insoddisfazione, da un reale che celebra un rito che pare non essere sempre in grado di dare risposte. Zaccheo salì sull’albero per vedere il passaggio di Gesù nella città di Gerico (come ci racconta Luca nel suo Vangelo). L’uomo che La Fratta ha immortalato nel suo scatto è il contemporaneo Zaccheo che, nella spettacolarizzazione del gesto, esprime l’estremo tentativo del desiderio di restare vivo. Desiderio significa letteralmente “mancanza di stelle”. L’opera fotografica di La Fratta sembra ricordarci che dobbiamo riscoprire il modo di “trovare le stelle”, perché una società che si allontana dalla legge del suo desiderio, si ammala e uccide la volontà.

Ph Carmine La Fratta

L’ultimo scatto ci incaglia come pesci nella rete dell’obiettivo, tra desiderio di trascendenza, che spinge incessantemente avanti, e la necessità a cui sottopone “l’animale che ci portiamo dentro” e che assoggetta il desiderio alle necessità del capitalismo. Il vicolo stretto e angusto della Città vecchia, che La Fratta ha scelto come cornice di questo racconto fotografico, è uno dei tanti rami in cui l’Imperatore bizantino Niceforo Foca fece organizzare la struttura urbanistica della città di Taranto, dopo la distruzione del 927 per mano dei Saraceni, per proteggere la città dagli attacchi di nuovi invasori, rallentando il passaggio nei vicoli che consentono, ancora oggi, l’attraversamento di una sola persona alla volta. Un vicolo che racconta, quindi, la volontà di resistere di un passato la cui eco ci “co-stringe” a non cedere alla renitenza alla leva della Volontà, e invita a diventare dei nuovi Philippe Petit (il funambolo delle Torri gemelle del World Trade Center di New York) in equilibrio sul quel filo della luce che, nell’opera fotografica di La Fratta, segna il confine tra conflitto e desiderio, e trasmette l’eredità del gesto dell’Arte che restituisce il senso della volontà di presenza attiva, perché niente cambia finché non ci lasciamo interrogare dal mistero delle cose a cui l’Arte sa dare forma e rappresentabilità.

Gabriella Grande

Carmine La Fratta vive a Taranto, punto di partenza della professione fotografica. Appassionatosi al teatro, collabora con compagnie e testate giornalistiche locali nel documentare il lavoro di preparazione degli spettacoli e foto di scena. Fin dai primi anni di lavoro, le sue immagini sono diventate un importante risorsa di archivio e testimonianze attraverso gli anni con mostre, pubblicazioni, copertine, manifesti. Nel periodo 1978/1981, lavora collaborando con l’ufficio pubbliche relazioni come fotografo industriale in seno alla Italsider di Taranto, documentando varie fasi di lavoro, produzione utili per pubblicazioni e divulgazioni tecniche, sempre per l’Italsider ha seguito eventi culturali collaborando con importanti artisti e scrittori, fra tutti Domenico PORZIO. Collabora con vari enti, tra cui l’ente Provincia di Taranto che gli consente di entrare in relazione con realtà legate al territorio. Segue il premio “Ori di Taranto”. Documenta a Tellaro (Liguria) momenti di vita dello scrittore e regista Mario SOLDATI. Vincitore del concorso “Vougue sposa” e del Premio colore di ClicCiak per le fotografie di scena del film “Il miracolo” del regista Edoardo Winspeare. Fotografo di scena per i film “Scilla non deve sapere” del regista Bruno Oliviero con Blasco. Direttore della fotografia del film “Marpiccolo” del regista Alessandro di Robilant. Delle sue foto sono state scelte dalla Puglia Commision Film per la mostra del Cinema di Venezia 2010. Fotografo nel pool ravvicinato della sala stampa della Santa Sede, ha seguito la visita a Taranto di Giovanni Paolo II. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive a carattere nazionale. Le sue foto sono presenti in istituzioni e collezioni pubbliche e private. Le recensioni sui suoi lavori sono presenti in varie pubblicazioni.
Pubblicazioni:
“Iconografia dei santi a Taranto” (Regione Puglia)
“Iconografia sacra a Taranto” (Regione Puglia)
“Iconografia dei santi a Manduria” (Regione Puglia)
“Ventuno anni dopo” (A&B editori)
“Passione Tarantina” (Edizione Archita Taranto)
“Giuseppe Rossetti Pittore” a cura di Silvano D’Uggento (edito da Banca Antonveneta)
“28 e 29 ottobre 1989…ho fotografato un santo” Pubblicazione con il patrocinio della Ambasciata Polacca in Vaticano (Caforio Editore)
“Settimana santa a Taranto “ (Edit@ Casa Editrice)

PRIMA DELLA VOCE di Paolo Parrini (Samuele editore, 2021)

Non so voi, ma quando io ho un libro di poesia tra le mani e il cuore, trattengo negli occhi il titolo per tutta la durata della prima lettura del testo, per cercare di agganciare con ago e filo invisibili le maglie della “rete” che tiene insieme tutte le parole e il senso, e quel filo diventa poi per me, nelle letture successive, l’impalcatura su cui lascio asciugare le parole che, in poesia, trasudano sempre mentre si “compiono”.

Ma, questa volta, il Poeta spiazza e il titolo diventa veicolo che trasporta il lettore verso una direzione che comprenderà solo alla fine di questo viaggio poetico che si compie in una “terra” tesa tra il titolo dell’opera e l’ultima poesia che, collocata strategicamente tra l’indice e il colophon (che chiude l’opera in ultima pagina), svela dove il cammino poetico approda temporaneamente, proprio dove ha avuto inizio, dove ha sempre inizio: prima della voce.

Il titolo trattiene l’essenza dell’opera e ne svela l’origine, aprendo al lettore una porta sulla “stanza segreta” dove tutto prende forma, su quel “non luogo” pre-verbale dal suono pieno, che non passa attraverso un contenuto semantico, ma attraverso un aspetto sensoriale che anticipa la nascita della parola poetica che è, di fatto, quell’esitazione prolungata tra suono e senso secondo la definizione a me tanto cara di Paul Valery.

Il poeta Parrini accompagna con grande maestria in un percorso circolare che ha approdo nel punto di inizio dove “l’emozione sale a cercare il fiore incolto” che sboccia dai semi di una percezione ancora informe, nuova o sovrapposta. E ricorda al lettore che, in poesia, si parte sempre “per tornare a casa”, facendo riecheggiare, in questa esperienza di circolarità del percorso poetico, nel ripetersi del ritorno dalla forma pre-verbale (punto di partenza della poesia) al linguaggio poietico, le parole di T.S. Elliott: “e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il luogo per la prima volta […] dove l’ultima terra da conoscere sia quella che era il principio”.

Parrini introduce il lettore ai suoi versi con la complicità della fotografia di Michela Goretti (che lavora sul piano dell’articolazione inconscia della realtà), dialogando con lo scatto dell’artista non solo in copertina, ma ritornando a intercettare la sua proposta di “luoghi dell’inconscio” anche nella seconda e nella terza di copertina, in cui si “compie” il senso dei primi versi parriniani che il lettore incontrerà in questo viaggio e con cui traduce le tappe del percorso trasformativo reso possibile dalla poesia.

Dal punto di vista simbolico-figurativo, lo specchio trattenuto tra le mani che, in copertina, riflette “la pace degli alberi” (raccontata dal primo verso a pag. 13) pur nel loro intricarsi, colloca il soggetto nel luogo della creatività, rappresentato dalle radici tanto vicine al corpo. La donna dallo sguardo ingabbiato nella seconda di copertina racconta “La terra (ovvero il somatico) che aspetta dietro un cancello stretto (rimandando all’impossibilità di rappresentare, all’incapacità di comprendere alcune sensazioni)” (p.13). La mente è imprigionata mentre la memoria del corpo è libera di sentire e di registrare il vissuto. La poesia ha il potere di liberare il sé corporeo (la mente più arcaica); ha il potere di liberare dalla gabbia della non rappresentabilità. Infine, l’immagine della donna che copre il volto con un mazzo di fiori trattenuto tra le mani in terza di copertina sussurra il verso: “sulla via camminata in mille ore/ il sunto d’un dolore/ poi il mandorlo fiorito là” (p.13). Da un punto di vista simbolico, i fiori (che sembrano avere radici nel corpo, nella memoria ancestrale del soggetto fotografato come del poeta) rappresentano il lavoro trasformativo della poesia proprio su quella “terra che aspetta”.

L’attesa, che ritorna più volte nella poesia del Parrini ha bisogno di essere nominata e riconosciuta, mentre “tutto si addormenta per poi svegliarsi ancora” (p.26) e racconta la “La resurrezione di ogni giorno” che non rappresenta solo un chiaro riferimento alla vita, ma alla poesia stessa intesa come processo trasformativo e di resurrezione che ri-conduce a sé, alla propria voce e all’incontro con l’altro attraverso la parola poetica, nella sua capacità di far risuonare nel presente le parole “e dire l’amore, prima del vento/ prima della sera.” (p.22)

Il codice condiviso della poesia e della fotografia nell’opera di Parrini traduce, nelle forme armoniose di voci polisemiche, il codice nascosto della parola poietica, ovvero di una parola capace non solo di dire, ma soprattutto di agire, su chi la riceve, ad un livello più profondo, perché la parola poetica è parola del risveglio della possibilità. Parola quindi che richiede, questa volta in maniera esplicita, un ascolto polisensoriale e, di conseguenza, un’efficace messa in comunicazione con l’altro che il Poeta non identifica solo come lettore passivo, ma come interlocutore necessario, come presenza cooperante.

Lo specchio trattenuto tra le mani ha bisogno di un’immagine da riflettere per dar senso alla funzione per cui esiste, la gabbia ha bisogno che un altro la apra perché se ne possa liberare il contenuto e i fiori hanno bisogno che ci sia qualcuno o qualcosa che se ne prenda cura per non appassire. I luoghi dell’inconscio raccontati da Michela Goretti hanno bisogno dell’altro, fondamentale per il compiersi, e per il dare forma a quanto esiste prima della voce. Quell’altro che Parrini chiama alla condivisione: “Alla mia sera aggiungi la tua/ al mio dolore il tuo.” (p.16) e che considera importante al punto da riproporre lo stesso verso in un’altra poesia, quattro pagine più avanti (p.20): “Alla mia sera aggiungi la tua”. ”Non siamo fatti di certezze” e, per questo, abbiamo bisogno di non perderci mentre “si scompone la sera” (p.20).

Se scuoti la tovaglia le briciole/ di pane ti indicano il cielo” (p.14) e il verso, tronco a metà pagina, diventa trampolino per le emozioni che (ci ricorda il Poeta), se liberate, nutrono lo spirito del tempo ed è questo nutrimento ad indicare il cielo inteso come crescita personale del poeta e del lettore, ovvero ad annullare il tetto della rimozione, lasciandoci sempre scoperti fino a “farsi raggio o crepa.”(p.52)

Sia benedetto questo spazio fatto altrove” (p.52) che è la poesia, il luogo della trasformazione, della possibilità, l’autunno lucido di pioggia che canta il Parrini nel verso che porto con me in questa vita che “ha troppi incagli e mura senza appigli.” (p.26):

Tra tutti i miei anni scelgo/ quest’autunno lucido di pioggia/ perché posso cambiarlo ancora,/ prima del buio.” (p.41)

Tutto è ancora possibile, prima del buio, prima della voce.

di Gabriella Grande

https://www.samueleeditore.it/prima-della-voce-paolo-parrini/

La mia ombra è fatta di pietre
scalcinate, il mio cielo
si perde stretto fra i tetti e le grondaie.
non ho il senso della pianta
alla finestra, m’hanno rubato
il sole appena nato.
E so il sale e il tempo
maturo dell’estate
scritto sui muri e le pareti antiche.
tra tutti i miei anni scelgo
quest’autunno lucido di pioggia
perché posso cambiarlo ancora,
prima del buio.

GIUSY CAROPPO. TRA SCRITTURA ESPOSITIVA ED EQUILIBRIO DELL’OPERA D’ARTE

Intervista di Gabriella Grande

Oltre ad essere un raffinato curatore, lei è Docente all’Accademia di Belle Arti di Foggia, ma è anche un’ artista. Cosa significa per lei insegnare a partire anche da una forte identità artistica?

La mia storia è “eclettica”, come l’Associazione che ho creato nel 2003 a cui ho dato proprio il nome di “Eclettica”. Infatti, uno dei motivi per cui decisi di intitolare in questo modo l’Associazione culturale con cui ho messo in campo i miei progetti più importanti, risiede proprio in questa possibilità di esprimere l’essenza della mia esperienza, fin dalle origini della mia formazione. Ho mosso i miei primi passi in qualità di artista e mi sono diplomata nel 1989 all’Accademia di Belle Arti di Bari in pittura. Successivamente, mi sono laureata in Storia dell’Arte (Roma Tre) e poi, a seguire, ho fatto altre esperienze fondamentali, che hanno sicuramente contribuito a costruire la mia formazione a trecentosessanta gradi: un corso di computer grafica allo IED (Istituto Europeo di Design, Milano) e un corso di curatore con Ludovico Pratesi all’inizio del 2000. Mi piace ricordare un’esperienza per me molto formativa, quella con l’associazione Fonopoli di Renato Zero con cui ho iniziato, una ventina di anni fa, a muovere i miei primi passi da curatore di un concorso di arti visive.

GIUSY CAROPPO. Storico dell’Arte, Curatore indipendente, Cultural Manager, Art Director Circuito del Contemporaneo
Biennale di Venezia, 2011, con Jan Fabre

Credo sia molto importante nascere artista. Lo è tanto per “condividere” al meglio con gli artisti invitati la produzione di opere e la messa in campo di mostre, quanto per affiancare il giovane studente che si affaccia sul mondo della creatività. L’insegnamento è per me un’esperienza nuova, in cui ci si interfaccia con artisti ancora in fase formativa. In precedenza, sono stata impegnata, in qualità di tutor, in percorsi regionali quali il bando PIN, il programma BOLLENTI SPIRITI, recentemente nel progetto SPARC, in cui ho potuto trasferire la mia competenza a giovani che avevano già acquisito una formazione e che si aprivano al mondo del lavoro. Ho vinto recentemente l’insegnamento in “Organizzazione di grandi eventi” presso l’Accademia di Foggia, dove seguo un gruppo di allieve di Fashion Design, una dimensione non strettamente legata all’ Arte Contemporanea, ma comunque ad essa connessa, in virtù della multidisciplinarietà che ormai fa parte del mondo e delle industrie culturali e creative. Mi impegno a trasmettere loro la mia esperienza di artista (che è, per così dire, “passata dall’altra parte” adesso) e di organizzatore di “eventi” complessi – ad esempio quelli identitari come la Disfida di Barletta – constatando, ogni giorno di più, come si tratti di un dare e di un avere continuo, inscindibile, che emoziona, perché questo scambio chiede che la costruzione del percorso venga fatta “insieme” e perché dalle giovani allieve di Fashion Design ho la possibilità di recepire una ”visione nuova”, arricchente. Nel periodo pandemico che abbiamo attraversato, la didattica a distanza mi ha privato della possibilità di costruire un rapporto “diretto” con le mie allieve e me ne dispiace, ma questo non ha impedito a me e a loro di “toccare” i nostri differenti sguardi sul mondo e sulla realtà.

Alighiero Boetti sosteneva che “curare una mostra è come disegnare una mappa”. Partendo dal suo personale punto di vista, cosa significa per lei raccontare un progetto artistico? Lo intende come modalità di presentazione, una forma di interpretazione o di moltiplicazione del messaggio dell’artista o è esso stesso un atto performativo e creativo? E perché?

Per me è essenzialmente un atto performativo e creativo in cui mi esprimo non solo come Curatore e come Storico dell’arte, ma anche come artista. Per un certo periodo, ho lavorato con Achille Bonito Oliva che è stato consulente scientifico del progetto INTRAMOENIA EXTRART (forse, il mio progetto più ambizioso), in cui si sono avvicendati cinque anni di mostre nei castelli e palazzi storici della Puglia che hanno ospitato i più grandi artisti internazionali: pugliesi, nazionali e internazionali.

INTRAMOENIA EXTRART. GUILLERMINA DE GENNARO
Castello di Brindisi

Achille Bonito Oliva mi diceva che mi si riconosceva per la mia “scrittura espositiva”. Probabilmente questa “scrittura espositiva” trova le sue radici proprio nel mio bagaglio di artista che mi orienta a pensare ad un progetto sempre nella sua completezza, m’ impegna a non trascurare o a non delegare nessuna delle sue parti, che ritengo tutte fondamentali. Perciò arricchisco della mia scrittura anche la fase d’ideazione dell’opera, relazionandomi con la visione dell’artista, con il tema della mostra, con l’identità del luogo, con il luogo stesso, con la struttura architettonica che accoglierà la mostra e l’istallazione, con la possibile percezione dei visitatori. Il percorso che seguo è, quindi, indubbiamente anche creativo. Ed è performativo, in quanto seguo l’artista in tutte le fasi. La stessa confezione del prodotto finale – che sia una mostra personale, un intervento speciale o una collettiva – risulta, alla fine, un racconto a trecentosessanta gradi di quello che io per prima voglio trasmettere al fruitore. Anche per questo, lavoro molto al fianco dei grafici, che io considero artisti alla pari degli artisti che invito nelle mie mostre. Ti porto l’esempio di un progetto di alcuni anni fa, WATERSHED (2012/13), che si è collocato al Primo Posto nel Programma Cultura della Commissione Europea (l’attuale Europa Creativa), su oltre trecento progetti candidati. Il progetto grafico di WATERSHED, quindi il logo stesso che identificava l’intervento di ogni artista, si trasformava in funzione del medium utilizzato dall’artista, rappresentato da elementi fluidi (acqua, petrolio, ecc…), e diventava esso stesso protagonista di un progetto grafico di alto livello artistico a cura di un team di creativi guidati da Carla Palladino. In quell’occasione, il gruppo dei grafici ebbe la capacità di trasmettere, attraverso il visual design, il vero senso del concept di WATERSHED, al punto da meritare una segnalazione alla Biennale del Design di Mosca.

DARK MATTER  di NIO architecten
Castello di Barletta

Lei è stata curatore esecutivo del progetto a cura di Achille Bonito Oliva DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO (2010). Questa proposta di presentazione delle opere d’arte da un diverso punto di osservazione mi sembra che racconti molto anche delle sue modalità operative: lavorare sul limite, sulla soglia per rischiare un cambio di prospettiva e presentare una diversa cucitura narrativa tra l’opera proposta e il fruitore. Quanto è importante correre “il rischio” di lavorare sulla soglia? E, concettualmente, quanto ritiene sia stato rilevante il cambio di prospettiva nel relazionarsi all’arte proposto al fruitore?

DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO è un progetto figlio dell’esperienza di INTRAMOENIA EXTRART, oltre che di altre esperienze, portato in Puglia con la direzione scientifica di Achille Bonito Oliva con cui mi ero già confrontata, nell’esperienza attraversata dal 2005 al 2010, sull’uso di questi luoghi limite e sulla proposta allo spettatore di uno sguardo da punti di vista differenti rispetto a quello tradizionale.

DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO. HOLZER, GUPTA, NANNUCCI
Castello Svevo di Bari

A questo proposito, voglio ricordare due realizzazioni in particolare nell’ambito di INTRAMOENIA EXTRART: un intervento realizzato nel 2006 a Lucera con l’artista colombiana Maria Teresa Hincapiè de Zuluaga ed un altro a Lecce con l’artista (fotografo) Oliviero Toscani.  “El espacio se mueve despacio” di Maria Teresa Hincapiè de Zuluaga propose un’eccezionale proiezione di notevole forza emotiva, nel grande spazio della fortezza di Lucera,  con una modalità di osservazione inusuale, ovvero dal basso verso l’alto e quindi invertita rispetto a quella proposta in DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO. Oliviero Toscani occupò lo spazio libero sulla Torre Mozza della fortezza Carlo V, con un grande manifesto prospiciente la strada, una fotografia di modelle seminude, bendate in diverse parti del corpo con cui la meraviglia della bellezza incontrava la critica alla sua degenerazione, attraverso l’allusione agli interventi spesso invasivi di chirurgia estetica. Anche in questo caso, l’osservazione è stata proposta al fruitore da un diverso punto di vista.

INTRAMOENIA EXTRART. OLIVIERO TOSCANI
Lecce, Fortezza Carlo V

Credo che, attraverso il ricordo di alcuni dei miei progetti, abbia risposto alla domanda di quanto sia importante lavorare “sulla soglia” e “correre il rischio” di proporre uno sguardo differente sulle cose. Il “limite” è un concetto chiave.  Il vero artista contemporaneo si muove sul limite, e quindi è importante sollecitare il visitatore anche con punti di osservazione “al limite”: al limite dell’assurdo, al limite anche del facilmente digeribile, al limite della fiaba, al limite della provocazione anche fisica. Penso all’istallazione “Macchine celibi” dell’artista Francesco Schiavulli, macchine in legno di risulta con cui il fruitore, nel progetto DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO, poteva attraversare il limite del fossato del Castello Svevo di Bari. Si rese possibile l’attraversamento di quel limite naturale architettonico e quindi il “limite del proibito”, utilizzando queste macchine delle emozioni. L’Arte contemporanea è anche questo: è un oltrepassare il limite. L’artista, come dice Achille Bonito Oliva, “è un errore biologico”, per cui io credo che dal vero artista non possiamo aspettarci nulla di scontato, l’arte deve sorprendere;  anche un punto di vista insolito può aiutare a “spiazzare”, emozionare. Nella proposta di un punto di osservazione differente va letto anche il progetto realizzato, nel 2010, proprio nella tua città, Taranto, con l’artista Stefano Cagol, invitato a produrre un lavoro site specific nell’ambito di INTRAMOENIA EXTRART. Con questo esempio rispondo anche alla tua seconda domanda relativa all’importanza di offrire al fruitore un cambio di prospettiva nel relazionarsi all’arte. L’intervento di Stefano Cagol ha rappresentato un’opera di coinvolgimento della città e dei cittadini, incentrata sull’osservazione della difficoltà di conciliare salute e lavoro, in un momento in cui questo tema non era sentito in maniera pubblica fortemente come lo è, invece, oggi. Un’ ape car (triciclo Piaggio) circolava nelle strade della città, con la collaborazione dell’allora giovane artista Valentina Vetturi, alla ricerca di oggetti luccicanti per creare quest’opera multidisciplinare, il cui titolo, “Scintillio e cenere”, rimandava anche alla bellezza degli Ori di Taranto e insieme alla traduzione di Ilva. Cagol installò nel fossato del Castello Aragonese di Taranto una grande bandiera rivolta verso la città e su cui vi era scritto CENERE. In questo caso, l’arte ha condotto il fruitore sulla “soglia” dell’osservazione di una realtà che di lì a poco si sarebbe palesata in tutta la sua drammaticità, in forte contrasto con la bellezza della luce e della storia millenaria della città.

STEFANO CAGOL. SCINTILLIO E CENERE
Castello Aragonese, Taranto

Vorrei prendere spunto dalla scelta espositiva della mostra Silent Spring di Claudia Giannuli nelle sale del Museo MarTa di Taranto per considerare come lei proponga un modello alternativo di gestione dei beni culturali tradizionali. In questo caso si tratta dell’utilizzo dello spazio espositivo museale, in atri suoi progetti ha impegnato siti di rilevanza storico-artistica e paesaggistica. Si tratta sempre di spazi espositivi inusuali, che lei sceglie di volta in volta, già di per sé impregnati del loro personale significato e il cui senso trova nuova espansione attraverso l’arte contemporanea ed un più efficace coinvolgimento concettuale del fruitore, a mio parere.  Qual è la particolarità, in ambito espositivo, della mostra Spring di Claudia Giannuli al MarTa?

Devo andare necessariamente un po’ indietro nel tempo, perché nessuno di questi progetti nasce come progetto spot, ma sono il risultato di una lunga gestazione e di un’idea ben precisa e consapevole che è quella del CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO, indubbiamente figlio, anche questo, delle esperienze precedenti, quindi di INTRAMOENIA EXTRART, che è modello di “museo temporaneo diffuso”. La particolarità di questa mostra sta nel fatto che, pur legandosi sempre alla realtà del territorio, il Museo Archeologico Nazionale MarTa ha già una sua organizzazione interna. Invece i miei progetti, generalmente, coinvolgono realtà periferiche e luoghi non convenzionali. Porto l’esempio del progetto CASA FUTURA PIETRA (2015/17): una delle mostre è stata pensata e realizzata negli Ipogei Capparelli che si trovano di fronte al Parco Archeologico di Siponto, un luogo totalmente abbandonato che abbiamo fatto gestire da realtà locali, associazioni e cooperative ingaggiate per il tempo di fruizione della mostra.

SILENT SPRING di Claudia Giannuli, proposta nel MarTa, non ha presentato questa necessità, perché il Museo dispone già di un personale predisposto alla sorveglianza degli spazi e dei reperti che il Museo, generosamente messo a disposizione della mostra, grazie alla piena collaborazione della direttrice Eva Degl’Innocenti. Nonostante tutto, ho voluto comunque fortemente il coinvolgimento di Cristina Principale, professionista e storica dell’arte che si occupa di comunicazione e la cui competenza è nutrita anche dell’espressione del territorio tarantino. Ritengo che sia fondamentale garantire sempre la presenza di un professionista che conosca bene il territorio, per poter assicurare il miglior approccio possibile in funzione delle specificità di forza e di debolezza dell’ente pubblico locale e dei fruitori locali con cui ci si interfaccia, in relazione anche alla floridità culturale, più o meno vivace, dei diversi territori in cui si va ad operare.

La mostra SILENT SPRING è stata organizzata con l’Associazione culturale ECLETTICA – Cultura dell’Arte, di cui oggi è presidente lo scultore Stefano Faccini, ed è stata prodotta grazie al finanziamento ottenuto partecipando al bando regionale “Custodiamo la Cultura in Puglia” e da aziende sensibili come 2STAR/MOFRA e EUMAKERS. Ma senza il lavoro che ha visto coinvolti la Direttrice del MarTa, Eva Degl’Innocenti e lo staff del Museo, di cui fa parte il prezioso funzionario archeologo Lorenzo Mancini, nulla si sarebbe potuto realizzare. E non è facile confrontarsi con un’Istituzione complessa come un Museo Nazionale; l’affermazione della Direttrice,  nel giorno dell’inaugurazione, “qui si entra solo per meritocrazia”, pertanto,  è stata molto appagante!

SILENT SPRING di CLAUDIA GIANNULI
Museo Archeologico di Taranto MarTa
In esposizione fino al 25 luglio 2021

Il CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO di cui fa parte la mostra SILENT SPRING è uno straordinario progetto pluriennale di fruizione di arte contemporanea di cui mi ha molto colpito il capillare lavoro collettivo che fa di ogni mostra non una dimensione limitata nel tempo, ma tasselli che si combinano in un percorso che si costruisce insieme, come risultato di una collaborazione sinergica. Quanto ritiene importante o necessaria la possibilità di un lavoro collettivo in ambito artistico? E perché?

Il lavoro collettivo è fondamentale ed il problema cardine sta nel fatto che il lavoro collettivo ha un costo. Mi dispiace enormemente che a tuttt’oggi non sia stato ancora recepito che il CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO non è un mero calendario di eventi ma molto di più che ha al centro “il lavoro” in ambito culturale: è un sistema tra professionisti del settore il cui lavoro creativo ha indubbiamente e appropriatamente un costo che oggi, purtroppo, non è coperto. Al lavoro di produzione di una mostra, allo studio dei testi, allo studio della grafica, al concept generale, alle traduzioni, al piano e ai prodotti per l’accessibilità, anche al lavoro svolto dall’artista nella progettazione di un’opera, nonché alla produzione artistica o artigianale dell’opera  (come è stato necessario nel caso delle opere di Claudia Giannuli, di produzione artigianale) si deve aggiungere necessariamente il LAVORO DI  IDEAZIONE che ha esso stesso un costo che non rientra nel budget della produzione fisica dell’oggetto o del service che monta audio e video (quando sono necessari) e del mero allestimento della mostra. Oggi è possibile sperare nella copertura solo dei costi vivi di produzione di una mostra, mentre si pone in un immeritato piano secondario il valore effettivo del costo della ideazione del progetto, svilendo l’importanza di quello che dovrebbe, invece, essere considerato un passaggio “perno” su cui ruota e si sviluppa tutto il progetto che si vuole proporre, di volta in volta. È assolutamente necessario un cambio di prospettiva. Vorrei poter creare e dirigere un board di curatori pugliesi, senza escludere il confronto sempre necessario e anzi auspicabile con curatori di altre regioni italiane o internazionali, a cui poter trasferire la mia esperienza, maturata negli anni, e con cui poter lavorare ad una progettazione biennale o triennale, per costruire insieme progetti che possano offrire giusta visibilità ad artisti del territorio, ma che, nel territorio sono purtroppo poco conosciuti, mentre hanno già raccolto stima e risultati in altre realtà di respiro internazionale. Porto ad esempio gli artisti Rossella Biscotti (originaria di Molfetta), Francesco Arena (nato a Torre Santa Susanna, in provincia di Brindisi) o Sarah Ciracì  e Giulio De Mitri (di Taranto), solo per citarne alcuni.

Sono pienamente d’accordo con lei. Mettere in secondo piano la valorizzazione concreta di artisti di talento del territorio per dare spazio, piuttosto, a progetti spot che garantiscano un esclusivo momentaneo ritorno di favore in ambito turistico, rischia di intercettare sempre più spesso un pubblico poco interessato al messaggio artistico, svilendo il valore dell’arte e la funzione fondamentale del curatore. È necessario che venga presa seriamente in considerazione la prospettiva auspicabile di valorizzazione del ruolo e dell’identità del curatore, che non può e non deve essere ridotto ad un “organizzatore” che riempie di contenuti un contenitore-luogo di esposizione, ma deve essere riconosciuto nel suo indispensabile ruolo di regista e creatore, impegnato nella traduzione, nella scrittura e nella tessitura della trama di un progetto artistico. Un atto dovuto all’Arte, io credo, sia porre le basi e le condizioni da parte degli enti pubblici di mettersi al servizio dell’Arte, affinché la cultura sia la radice su cui far crescere la pianta florida del turismo e non piuttosto servirsi dell’Arte stessa per muovere un turismo che trovi basi solo sull’inconsapevolezza del tesoro a cui si sta accedendo.

Sì, è così. Una simile visione dell’arte che non riconosce il valore dell’ideazione non potrà mai portare a grandi risultati. Ne sono molto dispiaciuta. Ribadisco quanto sia assolutamente necessario un cambio di prospettiva da parte degli enti pubblici.

Lei ha preso parte al progetto CARNAVAL VISUAL ART 2017 che ha visto coinvolti artisti di fama internazionale sul tema identità e maschera. Uno spunto di riflessione molto interessante che mi porta a chiederle: quanto crede che l’arte possa contribuire a “rileggere” la realtà in modo più autentico?

Consentire la rilettura della realtà in modo più autentico è forse la mission fondamentale dell’arte.  L’arte può e deve smascherare la realtà. L’artista ha la grandezza della “visione”, la capacità di guardare oltre, di prevedere anche il futuro, di precorrere i tempi con il suo sguardo smaliziato sulla realtà, la cui lettura non è mai una sola. L’artista ha una mission sociale, smaschera quello che non va della società oppure lo traveste di bellezza. Io sono un curatore molto attento alla veste estetica dell’opera d’arte che non significa “bello” ma cura, equilibrio. Perché siamo attratti dall’arte del passato? Perché è un’arte estetizzante. Tra gli artisti che ho ospitato nelle mie mostre, vi è Jan Fabre (belga) che molti faticano a considerare un artista contemporaneo perché definito molto “leccato”, così accade anche per artisti squisiti come Matteo Basilè o Andres Serrano.

ANDRES SERRANO. Torture (visione parziale parete sinistra)
INHUMAN a cura di Giusy Caroppo
Castello di Barletta
Ph Maurizio Abbate

Sono artisti che cercano nella fotografia, nell’installazione una veste impeccabile, assolutamente perfetta, facendo ricorso anche all’uso di materiali pregiati o soluzioni ricercate. Jan Fabre spazia dall’impiego del vetro di Murano, al marmo di Carrara, al carapace dello scarabeo. L’arte contemporanea è, invece, spesso associata al brutto, all’antiestetico, nell’immaginario della gente e c’è una sorta di repulsione della critica per l’opera ben confezionata. Ma l’arte, anche quella attuale, deve avere il coraggio della bellezza, perché questo può aiutarci a vivere meglio. La pandemia che abbiamo attraversato ha, inoltre, potenziato la comprensione della capacità consolatoria dell’Arte. L’arte, la vera arte quindi non solo smaschera, ma consola.

Gabriella Grande

Link per approfondimenti:

Giusy Caroppo – Storico dell’Arte e Curatore Indipendente

HOME – Circuito del Contemporaneo

eclettica – Cultura dell’Arte (ecletticaweb.it)

PAOLO PARRINI. QUANDO LA POESIA HA IL LINGUAGGIO DELL’ANIMA

di Gabriella Grande

Vorrei attraversare con te i tuoi versi, per permettere al pubblico di conoscere a fondo il poeta e la persona che sei, ma, prima di iniziare questo incamminamento, vorrei porti una domanda in particolare: tu hai costruito una famiglia e hai dei figli e la poesia è, fondamentalmente, un modo di stare al mondo. Cosa significa per un padre lasciare in eredità ai propri figli non solo l’esempio di vita, ma anche la propria Poesia?

È una domanda che mi sono posto più volte anch’io. Per varie vicissitudini personali, sono diventato padre abbastanza tardi, quindi questo argomento mi tocca ancora più profondamente. Ho sempre amato molto scrivere, però lo sviluppo compiuto della mia Poesia si è avuto proprio dopo la nascita dei miei figli. Quanto è accaduto potrebbe sembrare una contraddizione, dal momento che la Poesia assorbe molte energie, sottrae molto tempo alla vita e al quotidiano. Avere figli, lavorare e, nel contempo, scrivere non è semplicissimo. Ma la Poesia che scrivo adesso è, certamente,  il risultato di tutte le esperienze che ho avuto nella vita e quella della paternità è stata, se non la principale, sicuramente tra le più importanti. La vita è fatta di azioni, di movimento e molto meno di ripensamento e di riflessione ed il quotidiano, spesso, sottrae energie e tempo che avrei voluto dedicare ai miei figli. Per questo mi auguro che, tra venti-trent’ anni, sfogliando i miei libri, loro vi trovino tutto quello che, a voce, io non sono riuscito a dire. Ecco, spero che la mia Poesia riesca a fare questo per me.

Vorrei aprire questo cammino in dialogo con te, con un verso della tua Poesia ”Coprimi di te”, che fa parte della raccolta poetica “Oltre il buio della notte” (La Vita Felice, 2019): “Siamo l’ombra e la sete”. In questo verso, l’ombra e la sete diventano archetipi, manifestazioni sensibili dell’attraversamento di due dimensioni interiori, le due facce autenticamente reali della vita, negatività e positività in perenne confronto in una dinamica psichica in cui non si rifiuta nessuna componente dell’uomo, ma, anzi, la si accoglie come parte essenziale di un cammino di crescita o di completamento nell’altro. Il riferimento all’ombra ritorna, poi, in un verso potente in “Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020): “Un giorno saremo, la mia ombra e io, fratelli di sangue.” Che valore hanno l’ombra e la sete per il Poeta che sei e per il tuo modo di concepire la vita?

L’ombra ritorna spesso nella mia Poesia, finanche nel titolo del secondo libro che ho scritto: “Di luce e d’ombra” (Aletti editore, 2016). Senza l’ombra non vi sarebbe la luce e non potremmo apprezzarla in quei brevi sprazzi in cui si concede e che, credo, siano valorizzati proprio dall’ombra stessa. Nel verso che hai citato: “siamo l’ombra e la sete” si parla di un amore. Nel comporla, mi era sembrato di scrivere di un amore terreno per un essere umano, ma, rileggendola, mi è poi accaduto di scoprire che racchiude il senso di un amore più universale. Mi succede spesso, quando scrivo, di non avere piena padronanza di quello che traduco in parole, ma di essere colto e guidato da un’ispirazione, da qualcosa che non so bene definire e che sembra provenire dall’esterno o dall’alto e verso il quale è necessario che io resti in silenzio e mi metta in ascolto, per poi scrivere quasi sotto dettatura. È quanto mi accade, a volte. Sembra quasi che le parole arrivino da un altrove.

Come ti dicevo, nel primo verso che hai riportato, quell’ombra io l’ho riferita ad una persona amata ma poi mi sono accorto che poteva essere riferita anche a Dio e questo è possibile forse perché c’è un’incessante ricerca in me di una fede ultraterrena. Una fede che, purtroppo, non posseggo con la forza, con la saldezza che vorrei, però questa ricerca di Dio in me non ha mai fine, così come non ha mai fine la mia sete di Dio, quella sete di cui mi hai chiesto. Nel secondo verso che hai riportato, invece, tratto da “Un uomo tra gli uomini”, faccio riferimento all’ombra in un auspicio di ricongiunzione possibile, al termine di questa vita terrena, tra il nostro essere terreno e un’anima superiore, tra la nostra parte d’ombra e la nostra parte di sangue.

La sete è dunque sete di Dio? Che valore dai alla sete nella tua poetica?

La sete ha varie sfaccettature: è sete di Dio, è sete d’amore ed anche sete di amore terreno. Siamo fatti di carne e sangue ed è innegabile una forte componente di ricerca, nella vita di tutti i giorni, anche di amore concreto, di affettuosità e di abbracci. Gli abbracci! Mancano troppo spesso, in preda come siamo non tanto dell’egoismo, quanto piuttosto del quotidiano. Abbiamo perso il senso e il valore dell’abbraccio. Un “vero” abbraccio tra le persone è rarissimo, ed in seguito al Covid lo è diventato ancora di più. La sete per me è sete d’amore, ma di un amore inteso nel senso più alto, che consideri l’amore terreno solo come punto di partenza, per abbracciare, infine, qualcosa di cosmico. Ho questa aspirazione, però, troppo spesso anch’io mi perdo in mille rivoli, consumo le tante energie a disposizione in cose di cui mi pento presto. Questa sete è sempre presente in me, si blandisce solo quando soffro. È il mio anelito ad amare e ad essere amato.

Riprendendo il tuo riferimento a Dio e all’attesa fiduciosa di una dimensione ultraterrena, nella tua Poesia si avverte tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade e chiede perdono a Dio, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Cosa rappresenta Dio per te?

Dio rappresenta per me un interlocutore costante. Non essendo un credente saldo nella fede, sono sempre alla tormentosa e continua ricerca di Dio. Sento il bisogno di parlargli, di trovarlo come un vero interlocutore che, proprio nel momento in cui lo cerco, si avvicina e dialoga con me. Parlo molto con Dio, in modo spontaneo. Forse questa è la mia personale forma di preghiera. Molte delle cose fatte nella mia vita probabilmente non le rifarei o vorrei non averle attraversate, ma quello che chiedo a Dio è di darmi la forza di rialzarmi il giorno dopo uno sbaglio o un dolore e di riprovarci, nella piena consapevolezza di tutti i miei limiti. Probabilmente continuerò a sbagliare, ma non vorrei mai perdere questo slancio. Apprezzare il dono di essere vivi e ringraziare, al mattino, perché siamo vivi spero mi possa sempre spingere oltre gli errori che ho fatto il giorno prima. Ne commetterò forse ancora di nuovi, però ci sarà sempre questa ricerca di “una forma di luce”. Io, fondamentalmente, vivo tra le tenebre e la luce. Delle tenebre subisco la loro forza attrattiva, ma sento che, rivolgendomi alla luce, posso limitare il potere delle tenebre.  Ho un’indole altalenante, in oscillazione continua tra la terra e il cielo. I miei limiti umani, che conosco bene, sono un grosso ostacolo, ma il mio sguardo rivolto a Dio mi spinge a non arrendermi mai ai miei sbagli, ma a rialzarmi, il giorno dopo, e a riprovarci, a riprovarci ancora.

Molto bello e vero quello che hai detto e che evidenzia anche quanta importanza dai alla relazione con l’altro che, in questo caso, è Dio. A questo proposito, nel tuo ultimo libro “Dentro tutte le cose c’è amore” (Puntoacapo, 2021) si incontra il verso: “Molto amammo. /Molto non sapemmo farlo, /ma adesso è tempo ancora /dello sguardo”. Il riferimento allo sguardo nella Poesia è sempre molto coinvolgente nella sua complessità. Sartre definisce una terza dimensione ontologica del corpo (le prime due, ovvero “il corpo che sono”” e il corpo che ho” le individua Husserl) e questa terza dimensione fa riferimento al “corpo che sento quando mi sento guardato”. Cosa significa per te sentirsi nello sguardo dell’altro, soprattutto in questo momento storico in cui lo sguardo è diventato il canale privilegiato di comunicazione? E quanto la Poesia può aggiungere alla verità di questo canale privilegiato?

Lo sguardo, in questo tempo provato dal Covid, è, a volte, purtroppo l’unico canale attraverso il quale poter interloquire e avvicinarsi alle persone. Lo sguardo, per me, è anche silenzio. Nel verso che hai riportato, faccio riferimento a tutti i tentativi che avanziamo nella vita, a volte anche molto faticosi, di amare e di essere amati. La ricerca di un amore può farsi angosciante, quando, a volte, diventa ossessiva. Lo sguardo per me è quiete, è pace. Molte volte, nella vita, abbiamo dato e ricevuto, molte volte abbiamo sbagliato, molte altre abbiamo deluso delle persone o ne siamo stati delusi; questa è  la “battaglia” della vita. E poi arriva “il tempo dello sguardo” e per me è silenzio. Mi riferisco non solo allo sguardo tra due persone, ma anche allo sguardo tra l’uomo e Dio e allo sguardo rivolto ad un albero, ad una roccia, ad un bosco, alla neve. Lo sguardo che immagino è quello che non si ferma sull’oggetto, ma che va oltre. Il tempo dello sguardo è il tempo in cui dare spazio, in cui ridimensionare l’ego (non è facile e nei poeti è, spesso, molto cresciuto, ma ne parlo come aspirazione), per svuotarsi e lasciare spazio solo alla Poesia.

Poesia e sguardo sono collegati, nel mio modo di intendere le cose. Poiché lo sguardo è silenzio, è luogo in cui è possibile lasciare spazio all’altro e quindi, prima di tutto alla Poesia.

Abbiamo lottato nella vita, abbiamo amato e siamo stati amati oppure non siamo stati amati e non abbiamo amato. Qualunque cosa sia accaduta nella nostra vita, adesso fermiamoci e, fosse anche solo per poco, impariamo ad abitare il silenzio, ma il silenzio vero, non solo assenza di rumori ma un silenzio interiore che lasci parlare la Poesia. Non è sempre facile! Troppo spesso restiamo sordi al suo segnale. Solo se riusciamo a restare in silenzio e a metterci in  ascolto, arriva la Poesia.

Il bianco è un colore ricorrente nella tua Poesia. Mi ha molto colpita incontrarlo in diverse tue raccolte. In “Oltre il buio della notte”, nella Poesia intitolata “Farfalla bianca” nell’ultimo verso canti: “Poi saremo solo di bianco/ e di neve”. Il riferimento al colore bianco non credo possa rappresentare solo un caso. Sembra una scelta concettuale che rimanda ad un significato più profondo.  A cosa rimanda il bianco nella tua Poesia?

Il bianco, come lo sguardo di cui ti ho appena parlato, per me è silenzio, così come lo è la neve, che al bianco si collega, nell’immaginario di ognuno di noi. La neve, a cui ho sempre pensato come ad un sudario sulle cose, ma un sudario benevolo, perché ha un tempo in cui attutisce tutto e i rumori e poi si scioglie, mi ha sempre trasferito un’idea di quiete.  Il bianco è per me un rimando ad una forma di pace interiore. Proprio come lo è lo sguardo.

La farfalla bianca che hai ricordato è, per me, simbolo di un’estrema purezza. È libertà che si unisce al silenzio e alla purezza. Libertà, purezza e silenzio. Ecco, il bianco è questo per me. A volte, al bianco attribuisco anche un’accezione di morte, ma non in senso negativo, piuttosto come una parte della vita che bisogna provare ad intendere come un cammino, anche se questa visione è difficile da accettare in modo razionale. Nella vita ci incamminiamo verso la morte che, in qualche modo, sarà ancora vita. Questo è il senso di “bianco”, di “pace”, di “trasformazione” che cerco di dare alla morte, trasformazione che ha inizio in questa vita e procede verso qualcosa che non conosciamo, ma che nessuno può escludere. Non sempre, però, riesco a trattenere questo senso di cui ti parlo. Ho le mie grosse crisi e le mie incertezze, ma la morte, nella mia immaginazione,  me la figuro come una grande nevicata bianca, una farfalla che vola, un grande silenzio e un “mettersi in ascolto”, forse con altri metodi di percezione, diversi dai nostri.

Anche nei tuoi versi ti confronti spesso con la morte, ma non è mai la tua ultima parola. Nella notte di “Dentro tutte le cose c’è amore” c’è un verso che canta: “ogni volta morire, poi rinascere”, ovvero la tua poesia canta un eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, rappresentando una forza attiva e reattiva, liberatrice, affermatrice di vita. A quale morte fa riferimento la tua Poesia? In quanti modi si può morire e poi rinascere?

Questi giorni hanno seguito la morte di Franco Battiato, non solo un grande artista ma, soprattutto, un uomo molto spirituale, e ricordo che proprio lui parlava della morte come di un ciclo, non vedendo vita e morte in contrapposizione, ma unite, in qualche modo. Lui sosteneva che nella vita si attraversano tante piccole morti: quando dall’infanzia entriamo nell’adolescenza perdiamo una parte di noi e ne troviamo un’altra, nuova, e poi, così di seguito, nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta e dall’età adulta alla vecchiaia. Anche semplicemente in queste fasi della vita, che tutti, se abbiamo la fortuna di vivere, attraversiamo, si muore sempre un po’, perché, in fondo, la morte è perdere per sempre qualcosa di noi per andare incontro ad altro che, forse, ci rende se non più preziosi, più consapevoli.

È per questo che parlo spesso di morte e rinascita.

La paura della morte mi accompagna sempre – sarei falso a negarlo! – ma, poiché con la morte mi sono molto confrontato nella mia vita, fin dalla più tenera età, ho imparato a restare saldo in atteggiamenti mentali che mi hanno aiutato ad accettarla e a considerarla un passaggio costruttivo. Attraversiamo tante piccole morti nelle varie fasi della nostra vita, con rinascite successive che sono il preludio a quella che poi sarà la morte finale del corpo, intesa come la fine di un percorso che apre la possibilità di un nuovo inizio, per un’ulteriore definitiva rinascita.  In un certo senso, credo che sarebbe importante riuscire a prepararsi tutta la vita alla morte, ma non è facile! Si vivrebbe meglio, se si tenesse sempre ben presente quanto ho detto perché, chi non ha troppa paura della morte apprezza molto anche la vita, chi, invece, purtroppo, vive nella continua, angosciante paura della morte, non riesce nemmeno a gustare quello che la vita gli offre, sia a livello sensoriale che a livello intellettuale e spirituale.

Nelle tue Poesie racconti anche del “dolore di vivere”, dolore che canti come “un ombrello aperto ferito dalla pioggia” (nella Poesia “Senza di te”, in “Oltre il buio della notte”) “questo girare angoli e trovare ferite” (verso che ritroviamo nella Poesia “Aspettami, poi amami” sempre in “Oltre il buio della notte”). Cosa può la Poesia nei confronti di queste ferite? Cantarle equivale già a guarirle?

Forse un po’ sì, ma non è una cosa che è possibile fare per calcolo, in modo volontario. Deve poter avvenire in modo naturale. Non ci si può imporre: “Adesso scrivo per curare questa ferita”. Ce ne accorgiamo sempre più tardi, nel tempo, quanto ci è servito a guarire, scrivere certe cose.

Ogni ferita che subiamo in questa vita ha bisogno del suo tempo per cicatrizzarsi, ad ogni dolore va lasciato il tempo naturale che richiede per guarire. La poesia aiuta perché il dolore specifico, cantato, diviene un dolore universale, ed è come se venisse esorcizzato, viene quindi lenito.

Tante volte, nella mia vita, mi è capitato di attraversare grossi dolori della cui portata non mi sono subito reso conto, ma poi, ad anni di distanza. Rileggendo i versi scritti in quel periodo, ho compreso quanto sia stato importante per me aver scritto di quelle ferite.

Scrivere consente ad un “io” di diventare un “noi” e, in questo “noi”, ci si sente meglio, ci si sente meno soli. È come un abbraccio.

Quando scrivo qualcosa che riguarda una mia esperienza personale e mi rendo conto che è stata condivisa da altre persone, che ne hanno tratto beneficio al punto da dirmi: “Quel tuo verso, quella tua poesia mi ha fatto bene” non provo solo gratitudine, ma mi sembra un “miracolo”, che mi dà la conferma di quanto ti ho parlato all’inizio, ovvero che quel che si scrive venga da un “altrove” di cui non abbiamo che una coscienza parziale.

Quando è venuta ad abitare la Poesia nella tua vita?

La Poesia è arrivata presto nella mia vita, ma non mi sono reso subito conto che si trattasse di Poesia. Ho sempre scritto molto, fin da bambino, riflessioni, pensieri. Al di là del possibile valore di quello che scrivo, se alla mia età attuale mi guardo indietro, posso dire con certezza che era nel mio destino scrivere. Non ne faccio un discorso di valore assoluto, ma mi riferisco ad una mia indole personale.

Pur amando stare con gli amici, sono stato un ragazzo molto riflessivo ed ho sempre letto molto. Mi è sempre venuto naturale “stare in ascolto”. I miei primi versi, scritti intorno ai 14-15 anni, erano più cupi. La mia poetica si è evoluta anche in una modalità più positiva di visione delle cose e della vita.

Negli anni, ho letto anche tanta narrativa, che ho amato ed amo ancora molto, però il mio linguaggio è la scrittura in versi, che sono come delle fiammate che mi raggiungono e che, poi, vanno certamente rielaborate il più delle volte, però il corpo della Poesia nasce nella sua interezza, nella mia esperienza personale di scrittura. I versi sono un flusso che quando arriva è bruciante.

Ho sempre scritto nella mia vita. Però, per molti anni, anche per motivi lavorativi e familiari, non ho mai pubblicato nulla. Alla pubblicazione sono approdato in età più matura, per il desiderio di raccogliere un po’ dei miei scritti. Mi sono così reso conto di quanto fosse importante per me. Ho dedicato tantissima parte della mia vita a fare altre cose, ma, dopo la prima pubblicazione, ho avvertito quanto fosse importante per me non trascurare più questa modalità di espressione. Ho così deciso di darle spazio e non me ne pento. A prescindere dal valore di quanto ho scritto e scriverò, se non avessi dato spazio a questa parte di me non sarei mai stato pienamente io.

Vorrei concludere questo nostro incontro con una Poesia della tua raccolta “Un uomo tra gli uomini”: “Ho scritto quel che senza voce ho udito / abbracciando vita, corpo e Dio. / Pronto a esplodere, a morire / m’hanno salvato la penna e la poesia.” In questi versi credo sia condensata tutta la tua poetica profonda. In che modo la Poesia ti ha salvato? Di quale salvezza è capace?

La Poesia mi ha salvato perché mi ha permesso di non lasciare inaridire e morire il vero me stesso, che, altrimenti, sarebbe stato soffocato dalla vita quotidiana. Lasciare spazio nella mia vita alla Poesia, mi ha permesso di rendermi conto di come il quotidiano sia una piovra, che avidamente ci sottrae tutte le nostre energie ed il nostro tempo. È davvero importante lasciare spazio anche ad altro nella nostra vita, perché è lì che si annida il vero io, chi siamo veramente. La Poesia salva nel momento in cui ci impedisce di morire dentro, di spegnerci, di diventare quello che non siamo. Questo discorso non è valido solo se riferito alla Poesia, ma a qualsiasi altra forma d’Arte, senza la quale si corre il rischio di morire senza nemmeno aver conosciuto quelle che erano le nostre potenzialità, le doti innate che ognuno di noi ha, ciascuno nel suo campo. Per me la Poesia è stata un’ala, mi ha portato su, seppur di pochi metri, dalla vita che facevo e, adesso, grazie a Lei, posso vederla sotto un altro aspetto e capire quanto tempo ho perso in cose per cui non valeva davvero la pena e quanto sia importante, ora, cercare di rimediare.

Qualche anno fa, ho attraversato una fase di dubbio, di ripensamento sul mio fare poetico e, in quel momento della mia vita, ho incontrato una persona decisamente importante per il mio percorso poetico: il poeta Massimiliano Bardotti. Io credo nel destino e quel nostro incontro doveva avvenire in quel dato momento. La Poesia è una dimensione bellissima, però, anche faticosa e ci sono momenti che diventano incagli difficili da superare; lui mi ha aiutato a farlo, a non arrendermi davanti alle difficoltà che avevo incontrato. Ho seguito i corsi di Poesia che ha tenuto nella sua Scuola, a Castelfiorentino e in zone vicine, e mi sono stati molto utili, non solo per avere maggiore consapevolezza della necessità di porsi in ascolto e imparare a svuotarsi per accogliere la Poesia, ma anche per tutti i poeti che, attraverso la sua Scuola ho potuto conoscere e apprezzare, e che mi hanno permesso di capire l’importanza della condivisione nella dimensione poetica. La Poesia è un atto del singolo, indubbiamente, però si alimenta anche dell’apertura verso chi nutre le stesse aspirazioni, se si ha la fortuna di incontrare persone disponibili al dialogo.

Grazie, Paolo, per la luce delle tue parole. Lascio che sia tu a scegliere come salutarci….

Vorrei salutarvi, leggendovi la Poesia “Accoglimi” che apre “Oltre il buio della notte”. Per riallacciarmi al discorso sull’amore, in questa Poesia faccio riferimento ad un amore terreno, ma anche ad un amore di ispirazione divina.

“Ci riconosceranno le stelle / manto pietoso al nostro passare / avremo ali nuove e voci da ascoltare./  Dentro tutti i nostri voli / sulle pendici dei monti mai scalati / sarà doloroso e raro / il pentimento di non aver vissuto / un moto come onda che freme / turbamento liquido al domani. / Altre mani attendono il ritorno; / avremo un cielo cupo / o forse un nuovo giorno / per dissetar la sete / ma intanto accoglimi / lasciami cantare, d’un albore nuovo / a incenerire il sole.”

Clicca qui per il video dell’ intervista al Poeta Paolo Parrini su youtube https://www.youtube.com/watch?v=7JlYG4E4D9Y&t=261s

Biografia di Paolo Parrini

Paolo Parrini (Vinci, 1964) vive a Castelfiorentino (Fi). Si laurea a Firenze in Scienze Politiche indirizzo storico nel 1992.

Ha pubblicato sette libri di Poesia:

“Di vita, di solitudine e di amore” (Pagine Edizioni, 2015);

“Di luce e d’ombra” (Aletti Editore, 2016);

“Tra la terra e il cielo” (Aletti Editore, 2018);

“Quando cadranno i giorni” (Giuliano Ladolfi Editore, 2019);

“Oltre il buio della notte” (La Vita Felice Edizioni, 2019);

“Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020);

“Dentro tutte le cose c’è amore” (Puntoacapo Edizioni, 2021).

“Quando cadranno i giorni” (Giuliano Ladolfi Editore, 2019) ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra i quali la vittoria al Premio Giovanni Pascoli L’ora di Barga 2019, il quarto posto al Premio Internazionale Città di Latina 2019, si è, inoltre, classificato tra i trenta finalisti al Premio Camaiore 2019, il quarto posto al Premio Letterario Città di Grottammare nel 2020.

“Oltre il buio della notte” (La Vita Felice, 2019) si è classificato tra i ventuno finalisti al Premio Camaiore 2020.

“Un uomo tra gli uomini” (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) è attualmente tra i sei finalisti al Premio Città di Latina.

“SILENT SPRING” DI CLAUDIA GIANNULI. IL CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO AL MUSEO ARCHELOGICO NAZIONALE DI TARANTO – MarTa

di Gabriella Grande

Sabato, 15 maggio, il Museo Archeologico Nazionale di Taranto ha inaugurato la prima delle mostre del Circuito del Contemporaneo al MArTA, organizzata in collaborazione con l’Associazione Culturale Eclettica – Cultura dell’Arte (di cui Stefano Faccini ne è Presidente): SILENT SPRING della scultrice pugliese Claudia Giannuli, ospitata nelle sale espositive del primo piano del Museo, a cui si potrà accedere, fino al 25 luglio, in un percorso obbligato, dopo la visita alle collezioni del secondo piano.

Se anche aveste visitato il Museo MarTa più e più volte, come è capitato a me, questo percorso vi apparirà “diverso”, perché l’essere proiettati alla visione di una Mostra d’Arte Contemporanea vi farà vivere un attraversamento del tempo passato e dei suoi “segni” e “resti” singolare. Ogni sala costituirà una dimensione che vi avvicinerà al presente, in un cammino di progressiva presa di consapevolezza della storia che ci appartiene, che cucirà una trama cognitiva che vi sosterrà, quando la fruizione emotiva dell’opera di Claudia Giannuli vi farà tremare per la bellezza con cui racconta la verità del presente attraverso il corpo che pure non c’è, ma si intuisce. Il messaggio che l’Artista ci consegna, utilizzando come canali del suo linguaggio artistico la ceramica, la vegetazione e il corpo femminile, si sviluppa in cinque teche illuminate da un led rosa, a costituire delle piccole serre (quattro terrari e un paludario). Il corpo non c’è perché diventa teca, si riduce a contenitore inerte. Noi uomini, come le piante, siamo fragili ed abbiamo bisogno di “contenitori” per vivere e, del resto, lo stesso ambiente in cui esistiamo diventa la nostra casa affettiva e, mai come in questo periodo storico, violentato dalla pandemia, il corpo è diventato teca, non raggiunto più da alcun desiderio, un contenitore “protetto” (come lo è stato in questo recente forzato lockdown), da un esterno che non è più dimensione di relazione oggettuale, ma di “attacco”, in attesa di comunicare. Un’anima chiusa, limitata a se stessa che non può mescolarsi alla vita. Mentre vi aggirerete tra le teche, istintivamente cercherete di stabilire una relazione con quanto vi si propone, scandaglierete la terra con lo sguardo, andrete in cerca di un movimento, di un soffio d’aria che alteri quella fissità e verrete scossi dentro quando dovrete arrendervi alla “distanza”, diversa da quella che intercorre tra voi e un reperto museale disposto nelle vetrine tra una teca e l’altra. Il tempo vissuto, raccontato da ogni reperto del IV e III secolo a. C. è pregno di vita, sale agli occhi come una visione, e fa da contrasto al tempo fermo, immobile che scivola sulle pareti lucide dei dispositivi-gioiello in ceramica di Claudia Giannuli perché è tempo mortificato, è “il poteva essere e non è stato”, è tempo vinto nella spirale dell’isolamento. Adagiati su terreni, inerti, immobili troverete cinque dispositivi-gioiello floreali come mine inesplose, ”toppe di blindatura”, come le ha definite l’attento Curatore Antonello Tolve, “ferite” imposte che mortificano gli organi sensoriali e che, nei sette video proposti lungo il percorso, trovano applicazione nelle aperture del corpo femminile di un avatar, questo “sistema aperto” verso l’esterno, che è il corpo, viene colonizzato nelle sue parti visibili e accoglienti, in una penetrazione che non contraddice la vita, ma la  silenzia. Penetrazione che non rappresenta una vera e propria occlusione, quanto piuttosto un’inclusione. Si ravvisa una sorta di “interramento” negli orifizi del corpo umano (l’estremità della forma di due dei cinque dispositivi-gioiello rimanda al bulbo) che diventa un vaso contenente linfa, energia che conferisce vita e si fa alimento per questi vegetali-gioiello che, proprio per aver ricevuto vita dal corpo, possono realizzare un movimento che assume il ritmo regolare del respiro. E in questo movimento, quasi impercettibile, conferito dal ritmo vitale del respiro che vitalizza la pianta stessa, si evidenzia come il mondo vegetale venga elevato, dall’Artista Giannuli, a componente percettiva di un’esperienza soggettiva di alienazione, di isolamento coatto.  L’aspetto formale di rimando fallico di due dei cinque dispositivi-gioiello, che il Curatore Antonello Tolve descrive come “oggetti di piacere corporale e dispiacere”, portano a riflettere sul meccanismo profondo che rende l’essere umano dipendente da manovre difensive di alienazione.  Il potere “seduttivo” di quanto chiude dall’esterno, blandisce la capacità di “resistere” alla mortificazione di una dipendenza autodistruttiva che si alimenta di un sentimento di impotenza, radice della collusione scaturita dalla gratificazione allarmante dell’essere dominato da un potere esterno. L’Artista sembra volerci scuotere da questa organizzazione che può diventare perversa perché desoggettivizza e, attraverso l’Arte e la sua fruizione emotiva, darci un’indicazione per un necessario risveglio alla vita che sia occasione di crescita psicologica e consapevolezza di sé. “Possiamo ribadire all’infinito che l’intelletto umano è senza forza a paragone della vita pulsionale, e in ciò avere ragione”, ci ricorda Freud, “eppure in questa debolezza c’è qualcosa di particolare: la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza. Più e più volte pervicacemente respinta, riesce alla fin fine a farsi ascoltare.” 1

È uno schermo il mezzo attraverso il quale l’Artista Giannuli, sceglie di rappresentare visivamente e di oggettivare un contenuto del mondo interno. I sette video diventano, così, un ponte di comunicazione di grande potenza, irrompono silenziosi nelle nostre porte d’accesso, fino a farci sentire “toccati” e violati. L’avatar, ospite di questo presente e, fino al 25 luglio, dell’incanto di una storia che arriva a parlarci dal IV e III secolo a.C., tra i reperti funerari di una civiltà che credeva nella vita oltre la morte e i ritrovamenti di specchi, flauti, maschere comiche e personaggi grotteschi del mondo del teatro e della musica, ha gli occhi chiusi ma non è addormentata, è anima quietamente alienata, sola. Sembra aver raggiunto un “equilibrio” immobile, una passività privata della sua intenzionalità, trasferendoci la visione degli effetti di un “sistema” che sta operando indisturbato, perché l’essere umano ha utilizzato il suo rifugio per restare relativamente libero dall’angoscia, al prezzo di un arresto quasi totale della sua espressione. La rappresentazione dell’avatar, a mio parere, si colloca perlopiù in una dimensione inconscia, dove sembra non ravvisarsi alcuna consapevolezza di quanto traumatica possa essere la perdita della comunicazione con l’esterno. Il riparo blindato danneggia la possibilità percettivo-sensitiva e il gioiello floreale è un dispositivo che, sebbene blindi nella sua porzione penetrativa in cui  “far esistere l’altro come luogo della mia esistenza” (come direbbe Lacan), rendendo impossibile il “sentire” e creando un’interruzione di flusso dall’esterno, allo stesso tempo,  costituisce ancora un tramite con il mondo esterno nella sua porzione floreale e quest’ultima frazione, fragile, delicata, (che richiama l’oreficeria tarantina del IV e III sec. a.C. e , in particolare, la Corona a foglie di quercia e il Diadema fiorito, conservati nel MarTa e la cui pianta di origine differisce in quattro delle cinque strutture,  ed è specificata in tableaux al fine di  leggerne la derivazione come chiavi di accesso a quanto si è “sacrificato” in questo processo di isolamento e di alienazione), consente ancora, anche se in modo quasi impercettibile, il richiamo, destabilizza il punto di rottura, di interruzione con l’esterno e rende ancora possibile il farsi “sentire”. Ma è un farsi sentire silenzioso quel respiro appena percettibile che i nostri sguardi incontrano nel percorso. Quell’ornamento floreale, che chiude le aperture del corpo dell’avatar, diventa ornamento diagnostico che sembra domandarci: “Ci sei ancora? Vieni più vicino, libera il mio respiro, libera il tuo respiro”, mentre si attraversa la sala che racconta di una storia che ha resistito al tempo e che ancora parla al visitatore e lo fa in maniera più efficace nel percorso tra le sale del MarTa che si deve effettuare per raggiungere la Mostra Silent Spring e che è stato scelto in una strategia di condivisione di visioni che ha portato il progetto Il Circuito del Contemporaneo (il cui Direttore Artistico è un’appassionata Giusy Caroppo) ad avviare una dialogo tra collezione e spazi del Museo che facilita e incoraggia una fruizione emozionale. Come ha spiegato l’illuminata Direttrice del Museo Marta, Eva degli Innocenti: “alla Mostra dell’artista Giannuli si giungerà attraverso una sorta di percorso catartico che dal passato condurrà al presente e al futuro, dal secondo al primo piano delle nostre collezioni”, percorso che si è rivelato, a mio parere, “un narrare necessario a poter pensare” prendendo in prestito le parole dello psicanalista Nino Ferro. Se vorrete visitare la Mostra, e ve lo consiglio vivamente, forse capiterà anche a voi, come è successo a me, di imbattervi in una guida che cercherà di riportare la vostra attenzione sui reperti museali sui quali è evidentemente molto preparato, ma tenete bene a mente, mentre zigzagate tra passato e presente che, in quella sala, una presenza “silenziosa” aspetta l’incontro con il fruitore per dargli l’opportunità di un “risveglio”, di una “primavera” che faccia recuperare il senso, la verità storica dell’uomo, ovvero che il vissuto dell’essere umano è relativo ad un’esperienza di rapporto. “Noi siamo un dialogo”, come sostiene lo psichiatra fenomenologico G. Stanghellini, “un dialogo con l’alterità, quella che abita in noi e quella costituita dall’Altro fuori di noi.” In un suggestivo scatto di Pierpaolo Miccolis, che vi propongo, io credo si possa trovare racchiuso il senso e il mistero di questo “incontro” tra Silent Spring e il MarTa. La testa femminile in terracotta (IV sec. a. C.), la cui espressione racconta l’equilibrio della grandezza dell’anima tipico delle figure greche, è “ferita” proprio nei “luoghi corporei” in cui, nell’avatar di Claudia Giannuli è avvenuta la penetrazione di due dei cinque dispositivi-gioiello floreali, destinati all’occhio e al naso. È un trait d’union acceso quello che si realizza e che ci fa muovere in una dimensione emotiva che è essa stessa contenitore, reale, solido, scialuppa di salvataggio che garantisce uno spazio nuovo in cui potersi aprire al messaggio di quest’Artista barese che ci mette in guardia nell’attraversamento di questa “Primavera silenziosa”.

Il titolo della Mostra è mutuato dall’omonimo libro della biologa marina statunitense Rachel Carson, pubblicato nel 1962,2 decisivo per la storia del pianeta terra e dell’intera umanità. Gli storici della scienza sostengono che, con questo libro e in questa data, abbia avuto inizio la nuova era della storia umana: l’era dell’ecologia. La Carson, con questo saggio, è stata la prima scienziata al mondo ad avvisare che doveva essere rivisto il modello di sviluppo, in quanto l’utilizzo continuativo del DDT nelle campagne stava minacciando in modo irreparabile la biodiversità, e che il rapporto scienza tecnica ed etica che si stava applicando avrebbe portato all’autodistruzione. La Carson ha sentito l’urgenza di dire all’umanità di fare attenzione, di rivedere il senso di appartenenza dell’uomo alla terra, di rivisitare il senso dell’umanesimo”, come ricorda in una preziosa intervista il Prof. Luciano Valle (filosofo che ha profuso il suo impegno nella ricerca sui temi dell’Etica ambientale). “Stanno scomparendo i pettirossi” denunciava la Carson “ stanno scomparendo i cardellini, i verdoni nelle campagne americane e il loro canto. Ma quando scomparirà tutta questa biodiversità, allora scomparirà la bellezza”. L’artista Giannuli recupera il grido di denuncia della Carson e, attraverso il potente strumento dell’Arte, che, come ha affermato il Curatore della Mostra A. Tolve nella presentazione che si è svolta il 15 maggio nel chiostro del Museo MarTa “ha sempre avuto il potere magnetico di risvegliare il cervello atrofizzato della società e di  educarla”, ci avvisa di stare attenti, di restare accesi, perché stiamo blindando la vita, ne stiamo annullando la comunicazione e, di questo passo, scomparirà il canto dell’uomo, l’unicità di ogni singola “voce”. E se scompare tutto questo, perdiamo la bellezza, quella stessa che, invece, nei secoli ha resistito ed è arrivata fino a noi e si fa grembo di un grido silenzioso che non possiamo non ascoltare. “Sapete voi, sapete che l’umanità può vivere […] senza la scienza e senza il pane, soltanto senza la bellezza non può vivere, giacché non avrebbe più nulla da fare al mondo!” 3 R. Carson insisteva nel dire che l’umanità non può perdere la bellezza che è insita nella natura perché l’etica dell’umanità, senza bellezza, è un’etica monca. La scultrice Giannuli riprende quel monito, e attraverso il veicolo della natura, difesa dalla Carson, viene a dirci che l’umanità non può perdere la bellezza della relazione, che è alla genesi della comunicazione, perché un’umanità mortificata si aliena e muore.

Foto di PIERPAOLO MICCOLIS

Foto di MARINO COLUCCI
Foto di GABRIELLA GRANDE
Foto di MARINO COLUCCI

1 Freud, L’avvenire di un’illusione Einaudi 2015

2 R. Carson, Silent spring, Houghton; later Printing edizione, 1 gennaio 1962

3 F. M. Dostoevskij I demoni, Rizzoli, Milano 1981, pag. 537

BREVE PROFILO DELL’ ARTISTA Claudia Giannuli (Bari, 1979). Scultrice, la sua produzione si caratterizza per opere in terracotta, realizzate con misurata sintesi formale, che rimandano prevalentemente a un universo femminile, quotidiano e alquanto paranoico; le piccole presenze sono collocate in ambientazioni in scala, dove l’argilla è contaminata da legno, resina o altri materiali sintetici. Nel 2013 la Fondazione Museo Pino Pascali di Polignano a Mare, che vede la sua opera presente in collezione permanente, le dedica la personale “Ognimaledettadomenica”. Nel 2015 al suo processo creativo è stato dedicato “Le pareti di vetro” per la regia di Vito Palmieri, docufilm prodotto nell’ambito del progetto ArtVision, trasmesso da SkyArte nella primavera del 2016. Parallelamente all’attività artistica insegna “Tecniche della Ceramica” all’Accademia di Belle Arti di Bari.

DENTRO TUTTE LE COSE C’È AMORE DI PAOLO PARRINI (PUNTOACAPO EDITRICE, 2021)

di Gabriella Grande

Dentro tutte le cose c’è amore? Sì, ma “l’amore ti spezza”1, come ci avvertiva già Philip Roth, “frantuma”, come canta il poeta di Castelfiorentino in questi versi (Puntoacapo Editrice, 2021),  capaci, però, di riconoscere nella vibratilità sottile di ogni passaggio, seppur breve e silenzioso, della vita uno stato gestativo continuo, le possibili e sempre nuove dinamiche riparative e costruttive di una forza che è ciclica rinnovazione dell’origine, in cui la frantumazione è il preludio di una rigenerazione che sottrae all’esito finale.

Capire i rapporti dell’amore con la vita richiede già amore e il coraggio di fare ricorso alla dimensione creatrice della Poesia, perché si renda possibile esprimere un concetto limite così sfuggente, ovvero un concetto il cui confine, “un limitare che attende il perdono”, è superiore alla portata umana e nel quale ci si smarrisce senza il linguaggio della Poesia, questo “dono da meritare prima del silenzio” che eleva la nostra temporalità fino all’orizzonte dell’essere.

Nell’attraversamento dei versi di Paolo Parrini – un caleidoscopio delle voci emozionali più intime – ha riecheggiato nella mia mente quanto dice Fantasio nella pièce di de Musset: “Ognuno porta in sé un mondo2 mentre “la notte annera il giorno”, mentre “muore il […] tempo breve” in cui “gli anni hanno corroso i sogni” “a ricercare parole, quelle ancora non dette tra le mille sprecate”. E lo strumento di conoscenza della poesia parriniana è la malinconia. La malinconia3 di Dürer, la malinconia della serie di Munch4. Una malinconia in cui ci riconosciamo tutti, ancora di più in questo particolare periodo storico, su questa terra che ci appare così “dolorosa e fragile”, per mezzo della quale la sua parola poetica rivela e manifesta l’essenza del nostro tempo povero, in  cui la realtà assume, nei suoi versi, le sembianze del vento che strappa, che frusta, che scuote, che fiacca mentre irrigidisce il pensiero  in cui ci sono  ferite che restano irraggiunte, come quelle di giovani vite perse ancora prima di cominciare (“Ragazzi di pineta”) o interrotte  (“Non so se fu una corda”) quando “morire è cosa leggera quando si spegne il sole in un sorriso stanco”. Spetta alla poesia dare voce a queste ferite. Prendendo in prestito le parole di Deleuze, spetta al poeta “andare nei luoghi estremi, alle ore estreme, dove vivono e si levano le verità alte più profonde.” 5

Cantare una ferita equivale a sanarla, ad accogliere l’amore che ne era rimasto sommerso perché inascoltato (“il fiato sui vetri copre le ferite”), restituendogli pace e perdono nella notte che, per il poeta Parrini, viviamo tutti e che altro non è se non un “attimo sospeso tra il nulla e il ritorno”, dimensione dell’esistenza scissa tra due possibilità reattive con opposte volontà di potenza. E in questa notte il “buio […] accoglie l’occhio nudo”, ovvero ci accoglie nudi, esposti, senza riparo, inducendoci, di conseguenza,  ad un difetto di visione della fine e del senso delle cose.

Nel greco antico, “oida” (οἶδα), il tempo perfetto del verbo greco “orao” (ὁράω, che significa “io vedo”)viene impiegato per esprimere, nel presente, il risultato di un’azione avvenuta nel passato; “oida” quindi significa “io so perché ho visto“. L’azione della visione nel passato rende possibile la conoscenza nel presente. Ma Parrini canta la difficoltà della visione e, di conseguenza, l’impossibilità della conoscenza del senso delle cose e, per questo, “morremo senza sapere”. Ma la morte non è l’ultima parola del poeta. In questa notte “ogni volta morire, poi rinascere”, in questo eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, risolvendo ciclicamente il dramma dell’oggettivazione del nulla nel ritorno.  L’amore è dunque una forza liberatrice, affermatrice. Forza attiva e reattiva che “frantuma” (e “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”) imponendo la sua valenza e dominando quanto gli si oppone, affermandone l’essenza, affinché “sia luce e risa. Sia la vita”.

Mentre la natura (simbolo dell’eterno rinnovamento, della rigenerazione) protegge il senso (“è un albero a rammentarti il sole”) “siamo vivi dentro questo dolore che ci tiene svegli e ci costringe a non morire”, “persi nel vuoto”, un vuoto non concepito come assenza, ma come spazio potenzialmente attivo, in cui si avvicenda un processo continuo di alternanza di creazione e annichilimento e in cui la felicità “ci appare a tratti. Lampeggia. Come un faro nel buio”.

Perdonaci Dio” recita un verso di Parrini, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Ma, come canta l’inno a Patmos di Hölderlin : “Dio è vicino, ma non si lascia afferrare” e, nel frattempo, “la pelle è un ramo sconfitto”. Verso in cui c’è tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade. L’immagine sembra rimandare alla matematica dei rami, teoria sostenuta da Leonardo e poi dimostrata scientificamente, secondo la quale la disposizione dei rami sugli alberi non è casuale, ma segue regole matematiche, per adattarsi meglio a resistere alla violenza del vento ed evitare la rottura dei rami. Nella poesia di Parrini il vento è metafora della vita e la pelle “è un ramo sconfitto” dalla violenza di questo vento di solitudine e di abissi incolmabili in cui il poeta confessa: “non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi”, riprendendo il tema della visione compromessa dal buio in cui abitiamo e che, spesso, diventa anche non coincidente con l’altro con cui ci interfacciamo, per una vita o per pochi attimi. E la non coincidenza dello sguardo neutralizza l’esperienza dell’altro e ci conserva nella nostra fragilità, perché guardare l’altro dà la possibilità di conquistare un potere che è autenticamente umano, ovvero non il potere sull’altro, ma il potere con l’altro, che rende più umani. Per questo, il poeta suggerisce: “molto amammo. Molto non sapemmo farlo, ma adesso è tempo ancora dello sguardo”, senza temere il vuoto in cui ognuno di noi è perso, la tempesta che il singolo attraversa e in cui “inesausto batte il cuore, s’infrange sullo sterno e sul costato.” Il vuoto diventa un alleato per il poeta, perché lo rende disponibile all’evento parola, non più povera, ma presenza reale intersoggettiva, nutrimento, pane. E il pane, ci ricorda Parrini, “è un pezzo di vento impigliato dentro il grano”, verso che considero centrale della poetica parriniana.

Il grano, questo seme di nutrimento generato dall’amore che è in tutte le cose e nell’evento parola, trattiene il “vento”, ovvero la realtà e la ferocia, l’incomprensibilità di alcune sue manifestazioni e ne genera un impasto che, purificato dal dolore, diventa “pane”, possibilità di far crescere dentro di noi quello che mai si esaurisce, apertura all’esperienza dell’essere che può manifestarsi in una pacificante luce nel buio: “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”. L’amore, quindi, nell’alternanza tra il nulla e il ritorno, non solo stabilisce il carattere selettivo del ritorno, ma diventa lievito e predispone al miracolo: “Tu vedi ombre che inseguono il sole, eppure è già notte stanotte”. Tu, caro lettore, che attraverserai la poesia di Parrini, “fallo con dolcezza. Smorza il grido, resta come neve bianca” e, forse, come me, ti sorprenderai a ritrovarti in “La notte stellata sul Rodano” di Van Gogh6, in cui una coppia di innamorati svela il segreto della vita: “ogni uomo è amore se lascia scorrere le sere buie in un immenso oceano”.

“Tremo se penso che potremmo  perderci così, senza aver stretto le mani”. “Saremo l’amore che abbiamo lasciato”.

Gabriella Grande

Dentro tutte le cose c’è amore – Paolo Parrini | puntoacapo (puntoacapo-editrice.com)

Non ci siamo persi mai,

la vita che non vivemmo è tutta qui, in queste mani segnate,

nelle rughe all’angolo della bocca

nei piedi feriti dai vetri lungo il cammino.

Non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi.

Paolo Parrini

1  Philip Roth, “L’animale morente”, Einaudi, 2013

2 A. de Musset. “”Fantasio” in Théâtre complet a cura di S. Jeine, Gallimard, Paris 1990, p. 109

3 Melancholia I. 1514. Incisione di Albrecht Dürer, dal trittico Meisterstiche

4 Malankoli è una serie realizzata dal pittore norvegese Edvard Munch e composta da 5 tele (1891-1896) e due xilografie (1897-1902)

5 G. Deleuze, “Nietzsche e la filosofia”, Coportage, Firenze, 1978, p. 160

6 Van Gogh, “La notte stellata sul Rodano”. 1888, Musée d’Orsay di Parigi

IL TRADIMENTO PIÙ GRANDE.” ISCARIOTA” DI FRANCESCO ZARZANA. ProgettArte edizioni, 2020.

“Ho trovato una corda. La volevo robusta, forte, disumana.”

Scegliamo cosa cercare e troviamo quello che ci impegniamo a cercare.

Ce lo ricorda Francesco Zarzana, in questo suggestivo racconto (ProgettArte Edizioni, 2020), basato su fonti storiche e bibliche e sulle possibili dinamiche che possono essersi sviluppate laddove la storia indietreggia davanti al mistero, in cui il divino e l’umano si sfiorano senza mai riuscire a toccarsi veramente.

Zarzana rende possibile un incontro ravvicinato e un confronto con l’Iscariota, una delle figure più enigmatiche della storia dell’umanità, la cui ricerca della soddisfazione di un suo bisogno si rivelò una corda disumana, paralizzante e mortifera e cercare di capire questo aspetto della fragilità umana, fraterna (perché Giuda è un nostro fratello, anche se rifiutato e dimenticato) è una sfida difficile, ma necessaria, mentre “sembra quasi che Dio non voglia farsi più sentire e non voglia più bene ai suoi figli prediletti”. Zarzana ci accompagna, con la sua scrittura limpida, nel silenzio di Dio, permeandone l’intero tessuto dell’opera, ma non per farlo corrispondere al vuoto della parola quanto, piuttosto, ad un piano di confronto dal valore interrogativo, in cui la radice di ogni dialogo, incontro e situazione è il non ancora detto che attende solo di essere raggiunto. Da attento regista qual è, Zarzana lo inserisce come spazio di comunicazione più radicale, suggerendo che, per essere luogo rivelativo, necessita di un accesso più profondo, di intercettare la capacità di costruzione intorno al senso e non solo quella, più immediata, intorno alla “fame”, al “bisogno contingente”, in uno spazio creativo inatteso in cui la comprensione, lungi dall’avvenire solo su un piano intellettivo, si aprirà al possibile, al potenziale, in un processo di sintonizzazione emozionale necessario a raccogliere ed accogliere ciò che si disvela.  

Il II capitolo si apre con la pericope di Giovanni Battista che predica nel deserto e Giuda racconta la sua partecipazione “all’interramento di Giovanni.” Considero importante la scelta dell’Autore di inserire la sepoltura di Giovanni Battista in uno dei primi capitoli, quindi nella fase di apertura al nostro incontro con l’uomo che la storia ha reso l’emblema del tradimento. L’uomo dell’attesa, Giovanni Battista, viene seppellito da Giuda che, invece, non ha saputo “attendere”, ma nel significato latino di rivolgere l’animo verso chi aveva deciso di seguire. Il Battista fonda la sua vita e la sua predicazione sulla Fede e sulla fiducia in Dio. Crede in Lui in una dinamica in cui credere precede la conoscenza. Accoglie il desiderio di Dio e desidera il desiderio di Dio, ovvero è capace di desiderare il desiderio dell’Altro, quindi di riconoscerlo, pur non conoscendolo.  “Ho fede mentre cerco di capire” è il fulcro su cui si muove l’esperienza di Giovanni Battista, degli altri undici discepoli e dello stesso Autore, che esordisce scrivendo: “Mi sono proposto di cercare di capire” […] “Una bella sfida che ho accettato con me stesso” Ed ancora: “Non ho paura della morte e proprio per la mia fede.” Parole che Zarzana fa pronunciare a Giuda in quest’opera, ma che credo non possano essere riferite a lui quanto all’Autore che, in apertura del testo si affaccia a tratti, interpellandoci, chiamandoci a reagire, a non attraversare la lettura in modo passivo, ma ad accettare il rischio di lasciarci mettere in discussione, rinunciando alla tentazione del giudizio che muove sin dallo sfoglio della copertina.

“Non gli abbiamo creduto. O forse non gli abbiamo voluto credere.”

Se mettiamo a confronto le parole di Giuda con la pericope di Giovanni1: “Che cosa dobbiamo fare per operare le opere di Dio?” Rispose loro Gesù “questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”, comprendiamo quanto credere, che implica l’accogliere, sia fondamentale per poi conoscere. Il verbo credere, in quest’opera, è menzionato da Giuda solo in negativo: non lo abbiamo accolto. Forse non lo abbiamo voluto accogliere, non abbiamo voluto accogliere il suo desiderio. Ci sembra così lontano da noi Giuda, eppure quante volte non abbiamo accolto il desiderio, ovvero la tensione verso il compimento della Verità del Sé, dei nostri figli o della persona che diciamo di amare o, addirittura, il nostro desiderio? Quante volte abbiamo tradito così?

“L’ho seguito per mesi e mesi. A distanza. Era il modo più corretto per capirlo.” racconta Giuda nelle pagine del Zarzana. “Lui andava non solo ascoltato, ma anche osservato, studiato, capito”. Sono stati selezionati dall’Autore verbi che vengono declinati nell’ordine del controllo, a sottolineare la scelta di Giuda di seguire Gesù, mosso esclusivamente da una volontà (Giuda vuole un Messia politico) e da una necessità (Gesù doveva essere proclamato Re dei Giudei). Giuda segue il Maestro per capirlo, ma si tratta di un capire per valutare, piuttosto che per comprendere, fermandosi, quindi, ad un atto intellettuale che segue le leggi della logica, escludendo la riflessione dalla dimensione emotivo-spirituale, e dalla compassione, dalla capacità di decentrarsi da sé per assumere la prospettiva dell’Altro. In questo modo, Giuda si sottrae alla scoperta, alla dolorosa, ma necessaria ricerca del senso dell’agire dell’Altro. Poiché “l’altro è anche colui che a causa della sua estraneità ci indica un altrove.” 2

“Volevo proteggere il Maestro“, continua a raccontarsi Giuda e sembra non rendersi conto di voler proteggere Gesù esclusivamente in funzione del suo modo di vedere le cose, cementato da un rigido sistema culturale e da una sua circoscritta idea politica di salvezza.  Di conseguenza, questa sua volontà si rivelerà un tentativo sì di proteggere Gesù, ma dal voler essere qualcosa di diverso dal suo bisogno.

Quando Giuda va ad incontrare Gesù per chiedergli di diventare suo discepolo, Zarzana ci descrive un Maestro con gli occhi chiusi. Sottolinea per ben quattro volte questo particolare, che  contrasta fortemente con la chiamata degli altri discepoli, che lo seguirono dopo essere stati guardati. Zarzana, con questo mancato accesso allo sguardo di Gesù da parte di Giuda, mette in risalto la loro reciproca intoccabilità, ovvero l’impossibilità di far entrare in contatto il bisogno di Giuda con il desiderio di Dio. Infatti, Zarzana fa dire a Giuda: “Non mi ero mai sentito così a disagio come in quel momento”. Il disagio è l’humus su cui si manterrà viva una sottile, ma continua diffidenza nei confronti del Maestro, della Promessa e dell’Attesa, in quanto Gesù rompe l’unità tra un inizio della storia della Salvezza (che Giuda conosceva bene) e la fine, che lui faceva coincidere con una conquista politica. Ma Gesù stravolge la logica, viene a fare nuove tutte le cose e quindi viene a decostruire quell’unità, non a distruggerla, ma a decostruirla, perché la Verità si rivela essere altro. Alla Verità si arriva attraverso l’Amore, in quanto la Verità ha a che fare sempre con l’umano e “l’umano arriva dove arriva l’amore” sosteneva Italo Calvino. L’amore, non lo scontro, diventa il legame di nuova costruzione. Per questo, quando Gesù gli dice: “Giuda resta con noi” lui si blocca. Gesù gli chiede di restare nel suo desiderio e in questa esortazione c’è una richiesta di movimento, da se stesso, dal suo bisogno, dalle sue convinzioni, verso il desiderio di Dio. Molto interessante l’utilizzo di Zarzana di un verbo di stasi per orientare il movimento, evidenziando come si tratti di una richiesta di movimento interiore. Ma Giuda cosa fa? Zarzana gli fa dire: “Mi guardai attorno […] Cominciai in maniera naturale a raccontare tutto di me…” sottolineando come alla richiesta di movimento, Giuda risponda con un più acceso focus su se stesso e sulla sua vita. Infatti, quando Giuda, presentandosi a Gesù, gli dice: “Io sono un uomo colto che vuole servirti”[…]”Sono qui sperando di servirti”, non intende il servizio nel senso della “sottomissione” al suo desiderio e alla sua volontà, ma “spero di servirti” significa spero di esserti necessario, di esserti utile per uno scopo, ma a quello in particolare che Giuda credeva giusto: farlo proclamare Re dei Giudei. In Giuda c’è un’inaccessibilità ai contenuti e alla logica di Gesù a causa di una rigidità del pensiero e di una incapacità di modificare la prospettiva da cui guardare Gesù che lo ammonisce: “La tua mente è chiusa” ,“Giuda, apri i tuoi occhi e il tuo cuore.” Ma al “venite e vedrete” del Maestro, Giuda risponde restando fermo nel suo bisogno, deluso quando capisce che al Maestro “non servono le mie idee.” Manca in Giuda la capacità di accogliere l’alterità di Gesù rispetto alle sue aspettative politiche. Il sentirsi tradito da Gesù è intimamente collegato alle illusioni in cui Giuda vive, alla realtà che lo circonda e alla sua condizione di disillusione. “I giudizi di valore degli uomini sono dettati esclusivamente dai loro desideri di felicità e sono quindi un tentativo di argomentare le loro illusioni.” 3 Giuda non si concede la possibilità di trascendersi, di elaborare significati nuovi ed è quindi tragicamente esposto al suo limite. “Ho sempre sperato che cambiasse idea”, fa dire Zarzana a Giuda. “Quando ci rivolgiamo agli altri, foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione di adeguarsi al nostro stato d’animo, di ripensare quel vero che pensammo noi […]. E se la cosa sta così, il problema del comunicare con altrui, del parlare ad altrui, non è quello di dire o non dire il vero ma di operare su altrui perché operi.” 4 Giuda non ha voluto negoziare i confini delle sue idee, perché? Non era un innamorato, questo lo suggerisce Zarzana quando gli fa dire: “Le sue parole conquistano il cuore della gente..“ Il cuore della gente, non il suo! E quindi non vi è potuto essere riconoscimento e Gesù è rimasto per Giuda uno straniero. Non si attua quella che i francesi definiscono la “reconnaissance”, parola che esprime sia l’atto del riconoscere che la riconoscenza, la gratitudine legata all’essere riconosciuti. Il riconoscimento è il nucleo fondante della stessa possibilità di conoscenza. Ma Giuda non riconosce e non si sente riconosciuto nel suo bisogno. Resta, quindi, strozzato dal suo io dal carattere monadico e non si attiva il desiderio che è movimento, è spinta e messa in discussione. Gli altri undici discepoli sono, invece, innamorati, e il desiderio generato dall’amore li muove per quello che attraverso il desiderio in essi viene evocato come potenza e possibilità d’essere. Nell’innamorato il desiderio diventa il desiderio dell’Altro e quindi, in questo caso, desiderio di Dio, mentre in Giuda prende forma solo il bisogno solitario e onnipotente che pretende di realizzare in modo immediato e diretto il proprio appagamento definitivo. Il suo bisogno deve coincidere con il desiderio dell’Altro, una sorta di mimesi in cui non c’è possibilità di rapportarsi davvero all’Altro, ma in cui si celebra l’esclusivo trionfo del sé, in un territorio di conflittualità che non lascia scampo all’esclusione dell’Altro, fino alla sua distruzione. L’ esito è sempre tragico: distruttivo e autodistruttivo. “Di questo avevo bisogno. Della necessità che qualcuno costruisse dentro di me la vera immagine di Dio“ ovvero l’immagine che lui poteva sopportare come vera, senza doversi schiodare dalle sue convinzioni. La costruzione interna è un processo che implica sempre delle scelte di inclusione e di esclusione che, quando si fondano sull’esclusivo tentativo di riconoscimento delle proprie aspettative nell’altro, risultano rigide e fallaci.

“Tutti hanno tradito. Tutti abbiamo tradito.”

Ma Giuda “ha tradito” nel significato latino del verbo “tradere”, ovvero consegnare, azione che ha in sé implicito il rifiuto del desiderio di Dio, mentre i discepoli hanno tradito ciò in cui credevano, quindi “si sono traditi” e tradirsi implica manifestare ciò che si voleva tenere nascosto: la paura e la fragilità (ovvero il volto più umano dell’uomo), per impotenza, per imperfezione, per vulnerabilità; tutti aspetti umani in perenne tensione con i loro opposti. M. Nussbaum scrive: “Una parte della particolare bellezza posseduta dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità” 5. È nel riconoscimento del proprio limite che ci si può accostare al perdono, ma soprattutto ci si può perdonare e accedere ad una sorta di processo di re-figurazione del  Sé, da cui nasce nuova consapevolezza, come accade nei discepoli. In Giuda questo non succede e al tradimento consegue solo annientamento, poiché Giuda non rimodula le sue convinzioni e da questo ne consegue che la sua sofferenza è soggiogata ad una forma estrema di passività che lo fa ripiegare su di sé. Non c’è in lui alcun “reditus ad cor” (dal latino: ritorno al cuore). “Il mio pentimento è solo ed esclusivamente nei confronti del mio Maestro.” Giuda quindi non si pente del tutto, e il suo pentimento è solo relativo al suo Maestro, ovvero alla sua idea del Maestro, ma che non corrisponde alla Verità di Gesù. Infatti, quando pensa ad un’alternativa al suicidio, il Giuda di Zarzana si dice: “Penso che tornare a casa sarebbe per me una buona soluzione”, evidenziando l’incapacità di Giuda di contrapporre al bisogno il desiderio, ma una soluzione. E soluzione diventa per lui morire, forse per continuare a seguire il Maestro nell’ultima, deformante interpretazione della morte di Gesù. Giuda resta ottuso, l’anima seduta.

Dio ha creato l’uomo libero con un pensiero libero; libero di scegliere il bene e il male. Giuda non era predestinato al tradimento. Altrimenti saremmo tutti schiavi di Dio. Dio non si è servito di lui, ma sapeva, invece, cosa avrebbe fatto, sin dall’inizio dei tempi. Giuda è rimasto fermo nella sua corporeità, non elevandosi alla grandezza dello spirito. Orfano di una conoscenza superiore, a causa della sua superficialità, abbandona Gesù perché non ha risposto ai suoi bisogni. Si ribella a ciò che non capisce. C’è tanta umanità nella figura di Giuda che si perde, che non riesce a sollevare lo spirito verso il divino. Gli manca la necessità di andare oltre. La religione è, in fondo, un’espressione di coraggio. Ci vuole molto coraggio per avvicinarsi all’idea di Dio, comporta un’ attenzione sempre viva alla parte spirituale.

C’è molto mistero intorno alla morte di Giuda, probabilmente perché lui muore già quando decide di consegnare il Maestro, tradendo la parte divina di Gesù che rifiuta. È in quel momento che Giuda uccide la sua spiritualità, la sua parte nobile. Il primo atto di morte è il rifiuto della resurrezione dello spirito. Il peccato di Giuda, in fondo, forse consiste proprio nell’aver tradito la parte spirituale del proprio Sé. Il diavolo ha rinunciato allo spirito. È il tradimento più grande.

Ho terminato ormai da alcuni giorni la lettura di “Iscariota” di Francesco Zarzana, ma lo trattengo ancora sulla mia scrivania. Credo che ci resterà per molto. A ricordarmi che il bisogno può uccidere il Desiderio, inteso come tensione verso il compimento della Verità del proprio Sé, che è sempre tensione verso il Bene, ed è tensione che spinge per il nostro Bene. Cercare di capire qual è la strada per arrivarci è difficile, ma “le onde si tuffano contro le rocce e ci rimbalzano quasi respinte. Ma poi ci riprovano. Ci riprovano sempre. Eternamente.”

“Abbiamo mai davvero chiesto aiuto a Dio?”

di Gabriella Grande

1 Gv 6, 28-30

2 G. Dardes-I. Punzi, Dov’è tuo fratello?, pp. 15-16

3 S. Freud. Il disagio della civiltà (1929) in Opere, vol. 10 cit pag. 629

4 B. Croce, Etica e politica, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994, pp. 46-47

5 M. Nussbaum. La fragilità del bene, 2011

“Iscariota” di Francesco Zarzana, ProgettArte Edizioni, 2020