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GIULIO DE MITRI. “Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento” (Catalogo, Crac, 2019)

di Gabriella Grande

Sere fa, nella frenesia dei saluti e nella gioia degli sguardi, sono stata arricchita del regalo inaspettato di un libro, entrato, con emozione, poi, a far subito parte del mio giardino di nutrimento e riparo: il Catalogo del Maestro tarantino Giulio De Mitri, Presidente del CRAC Puglia di Taranto (“Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento”, Crac, 2019), che raccoglie testimonianza fotografica e bozzetti di due sue installazioni ambientali, del 2019, presentate in occasione della III edizione del MAS WEEK 2019, Festival di Architettura, Design e Arte:
“UNO SGUARDO ACCESSIBILE”, realizzata, con rigore tecnico, nel Borgo Nuovo, nelle tre vasche della Concattedrale Gran Madre di Dio e “RICONGIUNGIMENTO”, progettata, invece, nel Porto di Taranto, alle due estremità dei Moli di Sant’Eligio e di San Cataldo.

Purtroppo, non ho avuto occasione di visitare queste due installazioni nel periodo della loro fruizione pubblica ed è, quindi, necessario premettere che per poter dire di conoscere un’opera è assolutamente imprescindibile “incontrarla” nella sua materia viva, nella sua irruzione allo sguardo, in quanto esiste una distanza incolmabile tra l’opera e la sua rappresentazione, sebbene il Catalogo del Maestro De Mitri offra un’accurata e dettagliata galleria fotografica delle installazioni a cui faccio riferimento. Nonostante ciò, mi permetto di parlarne, oggi, solo concettualmente, per esprimere, nel modo che più mi rappresenta, la mia gratitudine per la condivisione della testimonianza cartacea di un atto creativo pregevole e che, ancora oggi, a tre anni di distanza, ritengo possa suggerirci un “modo di stare al mondo” che solo i Poeti come Giulio De Mitri sanno fare.


L’uso sapiente che il Maestro De Mitri, in “Uno sguardo accessibile”, ha fatto della luce monocroma blu, proiettata da 36 fari sulle tre vasche della Concattedrale, le ha permesso di diventare, infatti, materia poetica, accendendo di vitalità autonoma i 36 quadrati specchianti in pvc, di 50×50 cm, con i loro effetti cangianti e mutevoli, poggiati su basi di terracotta nelle tre vasche. Colpiti dalla luce azzurra, in dissolvenza, con le sue infinite potenziali mutazioni in successione, hanno reso possibile l’ interazione con il fruitore e le sue plurime risposte percettive ed hanno definito, nello spazio disegnato da Gio Ponti, un ulteriore spazio di animazione di comunicazione poetica, la sola a portare la forma di un’azione capace, nel medesimo tempo, di captare e mandare segnali ad altissimo contenuto sensoriale in una sequenza di riti di passaggio che sembrano testimoniare come quel che di oggettivo incontriamo, ci colpisce, individualmente, sempre in modo soggettivo e De Mitri, in questa installazione, fa di questa pluralità di attraversamenti un’identità che mi ricorda “Autoritratto” di Luigi Ghirri (Parigi, 1976).
Il messaggio essenziale, a mio parere, sia a livello di metodologia adottata che di essenza poetica, racconta che non dovremmo mai dimenticare, inoltre, che le espressioni individuali germinano da un sostrato di natura e di vissuto, come di storia e di memoria e, partendo da questo presupposto essenziale e ricalcando pienamente, a mio parere, il concetto di Arte dichiarato da Deleuze intesa come “captazione di forze”, l’installazione di De Mitri suggerisce quanto sia ancora possibile per questa Città andare incontro all’espressione della sua identità più piena se si accetta di fare esperienza della soglia non prevista. L’area dei quadrati non trattiene un limite, ma, con la sua superficie riflettente, si impone a guida del nostro sguardo in direzioni diverse da quelle che avremmo seguito spontaneamente. Rappresentano la soglia per andare verso qualcosa, la linea di passaggio verso un diverso “sguardo accessibile” sulle possibilità inespresse, ma rivelabili.
L’utilizzo della sola luce blu, questa scelta della monocromia che si offre ai quadrati specchianti, disposti come totem su cui il colore diventa forma in continuo mutamento, in giochi percettivi sempre diversi, mi rimanda a Yves Klein, il quale affermava che il colore blu fosse differente da tutti gli altri colori perché privo di dimensione, e collocabile, quindi, al di fuori del tempo e dello spazio, collocabile dunque in una diversa dimensione, forse proprio quella della possibilità, nascosta eppure suggerita da De Mitri, di un necessario e salvifico cambio di prospettiva, di un’apertura ad un diverso punto di vista sulle cose.
Le superfici specchianti che riproducono, ad ogni variazione d’angolo, immagini sfocate dell’ambiente circostante, del passaggio degli autoveicoli e dei bus e dello stesso fruitore, non solo restituiscono la complessità e l’ambiguità di quel che si vede e si vive, ma predispongono ad accogliere una gamma di risposte possibili non più lineari come quelle dell’occhio umano, facendo luce su quanto sia importante sfuocarsi, lasciare che i contorni, delle cose come delle posizioni, tremino.

È grande il mio rammarico per aver perso la possibilità di incontrare e di interagire con questa installazione, che tuttavia riesco ad attraversare, oggi, tra le pagine del catalogo, e che sento di definire “l’ora blu”, “l’ora costante” di Ungaretti che sa accendere la notte del pensiero stagnante.

Proprio come avviene nella seconda installazione: RICONGIUNGIMENTO, realizzata al Porto di Taranto, alle due estremità dei moli di Sant’Eligio e di San Cataldo, in cui lo spazio tra cielo e mare diventa una tela su cui ciò che De Mitri disegna mi fa ripensare ai versi di Roberto Mussapi: “una fibra di luce incapace di scindersi, / la nostra origine inglobata in un abbraccio” (Roberto Mussapi,”Le poesie” Ed. Ponte alle Grazie, Milano 2014).
La geometria tracciata dalla proiezione di coni di due fasci di energia luminosa di colore blu definiscono un contorno immateriale capace di ricreare, anche qui, uno spazio nello spazio, la cui immagine si forma e si rivela nel buio, a sottolineare come ci sia una realtá ulteriore a quella visibile e percepibile. I due fasci di luce disegnano un triangolo equilatero che, nel significato simbolico che associa le figure geometriche ai 4 elementi, rappresenta la terra. In questo caso, terra in cui prende forma il punto di equilibrio tra il mondo interno e quello esterno, tra ciò che è rappresentato e ciò che, invece, è lasciato fuori dalla rappresentazione ma che, nonostante tutto, esiste. È, a mio parere, la terra del ricongiungimento delle soglie possibili, quella percepita e quella a cui si deve tendere per andare verso il cambiamento, verso quell’alternativa che De Mitri “caparbiamente rivendica: il diritto e il dovere dell’arte e della cultura di farsi testimonianza attiva per la ricerca di nuovi equilibri di cui, partendo proprio dal suo stratificato passato, il Sud può divenire l’Avamposto (Catalogo “Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento”, Giulio De Mitri, Crac, 2019, pag.13).

BIOGRAFIA di GIULIO DE MITRI

Giulio De Mitri è nato a Taranto. Presidente del CRAC Puglia di Taranto (Centro Ricerca Arte Contemporanea). Ha compiuto studi umanistici ed artistici (Accademia di Belle Arti e Università). È professore ordinario di prima fascia in Tecniche e tecnologie delle arti visive contemporanee all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Impegnato da anni in una ricerca sulla storia e sull’immaginario della cultura mediterranea, protagonista italiano nella creazione di installazioni luminose. Ha sempre lavorato su progetti in grado di generare estremo coinvolgimento emotivo e spirituale nel fruitore, manifestando una sensibilità e una leggerezza che spesso l’arte contemporanea ignora. Ha esposto in mostre personali, collettive e di gruppo ed è stato invitato a numerose rassegne in Italia e all’estero, tra le più recenti si segnala: Mediterranean dream, Pinacoteca Provinciale, Salerno; La seduzione del monocromo, Museo Civico dei Bretti e degli Enotri, Cosenza; Esperidi, Studio d’arte contemporanea “Pino Casagrande”, Roma; Biennali di Venezia LIV e LII per gli eventi: Sguardo contemporaneo, Palazzo Bianchi Michiel del Brusà e Padiglione Italia; J. Beuys. 
Difesa della natura, Thetis, Arsenale Novissimo; XV Quadriennale, Roma; 20 artisti per i 150° dell’Unità d’Italia, Palazzo Reale, Torino; Intramoenia Extra Art (a cura di A. Bonito Oliva e G. Caroppo), Castelli di Puglia; La luce come corpo, Galleria Peccolo, Livorno; XV e XIV Biennale d’Arte Sacra Contemporanea, Museo Stauros d’Arte Sacra Contemporanea, San Gabriele, Isola del Gran Sasso (Teramo); Videoart Yearbook 2007 e 2006, Bologna; Environmental Art Festival Lakonia: arthumanature topos 2007, Sparta, Sellasia e Geraki (Grecia). Dell’ampia bibliografia si segnalano le pubblicazioni più recenti: P. Aita, Accanto al meno, un ipotesi nell’arte contemporanea, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ), 2013; G. Gellini, Temporary Installations /Light Art in Italy 2012, Maggioli Editore, 2013; G. DeMitri / Oltre nella luce, (con testi di P. Aita, R. Barilli, G. Bonomi, V. Dehò, A. Iori C. Spadoni), Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2012; Giulio De Mitri / Il grandemare, Libro d’artista, Edizioni Peccolo, Livorno, 2012; B. Corà, Giulio De Mitri / La luce come corpo (con testi di R. Branà, L. Canova, B. Corà, L. P. Finizio, B. Tosi), Edizioni Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; T. Coltellaro, Fatti d’Arte, un percorso nel contemporaneo tra arte, società e territorio, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2010. 

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GIUSY CAROPPO. TRA SCRITTURA ESPOSITIVA ED EQUILIBRIO DELL’OPERA D’ARTE

Intervista di Gabriella Grande

Oltre ad essere un raffinato curatore, lei è Docente all’Accademia di Belle Arti di Foggia, ma è anche un’ artista. Cosa significa per lei insegnare a partire anche da una forte identità artistica?

La mia storia è “eclettica”, come l’Associazione che ho creato nel 2003 a cui ho dato proprio il nome di “Eclettica”. Infatti, uno dei motivi per cui decisi di intitolare in questo modo l’Associazione culturale con cui ho messo in campo i miei progetti più importanti, risiede proprio in questa possibilità di esprimere l’essenza della mia esperienza, fin dalle origini della mia formazione. Ho mosso i miei primi passi in qualità di artista e mi sono diplomata nel 1989 all’Accademia di Belle Arti di Bari in pittura. Successivamente, mi sono laureata in Storia dell’Arte (Roma Tre) e poi, a seguire, ho fatto altre esperienze fondamentali, che hanno sicuramente contribuito a costruire la mia formazione a trecentosessanta gradi: un corso di computer grafica allo IED (Istituto Europeo di Design, Milano) e un corso di curatore con Ludovico Pratesi all’inizio del 2000. Mi piace ricordare un’esperienza per me molto formativa, quella con l’associazione Fonopoli di Renato Zero con cui ho iniziato, una ventina di anni fa, a muovere i miei primi passi da curatore di un concorso di arti visive.

GIUSY CAROPPO. Storico dell’Arte, Curatore indipendente, Cultural Manager, Art Director Circuito del Contemporaneo
Biennale di Venezia, 2011, con Jan Fabre

Credo sia molto importante nascere artista. Lo è tanto per “condividere” al meglio con gli artisti invitati la produzione di opere e la messa in campo di mostre, quanto per affiancare il giovane studente che si affaccia sul mondo della creatività. L’insegnamento è per me un’esperienza nuova, in cui ci si interfaccia con artisti ancora in fase formativa. In precedenza, sono stata impegnata, in qualità di tutor, in percorsi regionali quali il bando PIN, il programma BOLLENTI SPIRITI, recentemente nel progetto SPARC, in cui ho potuto trasferire la mia competenza a giovani che avevano già acquisito una formazione e che si aprivano al mondo del lavoro. Ho vinto recentemente l’insegnamento in “Organizzazione di grandi eventi” presso l’Accademia di Foggia, dove seguo un gruppo di allieve di Fashion Design, una dimensione non strettamente legata all’ Arte Contemporanea, ma comunque ad essa connessa, in virtù della multidisciplinarietà che ormai fa parte del mondo e delle industrie culturali e creative. Mi impegno a trasmettere loro la mia esperienza di artista (che è, per così dire, “passata dall’altra parte” adesso) e di organizzatore di “eventi” complessi – ad esempio quelli identitari come la Disfida di Barletta – constatando, ogni giorno di più, come si tratti di un dare e di un avere continuo, inscindibile, che emoziona, perché questo scambio chiede che la costruzione del percorso venga fatta “insieme” e perché dalle giovani allieve di Fashion Design ho la possibilità di recepire una ”visione nuova”, arricchente. Nel periodo pandemico che abbiamo attraversato, la didattica a distanza mi ha privato della possibilità di costruire un rapporto “diretto” con le mie allieve e me ne dispiace, ma questo non ha impedito a me e a loro di “toccare” i nostri differenti sguardi sul mondo e sulla realtà.

Alighiero Boetti sosteneva che “curare una mostra è come disegnare una mappa”. Partendo dal suo personale punto di vista, cosa significa per lei raccontare un progetto artistico? Lo intende come modalità di presentazione, una forma di interpretazione o di moltiplicazione del messaggio dell’artista o è esso stesso un atto performativo e creativo? E perché?

Per me è essenzialmente un atto performativo e creativo in cui mi esprimo non solo come Curatore e come Storico dell’arte, ma anche come artista. Per un certo periodo, ho lavorato con Achille Bonito Oliva che è stato consulente scientifico del progetto INTRAMOENIA EXTRART (forse, il mio progetto più ambizioso), in cui si sono avvicendati cinque anni di mostre nei castelli e palazzi storici della Puglia che hanno ospitato i più grandi artisti internazionali: pugliesi, nazionali e internazionali.

INTRAMOENIA EXTRART. GUILLERMINA DE GENNARO
Castello di Brindisi

Achille Bonito Oliva mi diceva che mi si riconosceva per la mia “scrittura espositiva”. Probabilmente questa “scrittura espositiva” trova le sue radici proprio nel mio bagaglio di artista che mi orienta a pensare ad un progetto sempre nella sua completezza, m’ impegna a non trascurare o a non delegare nessuna delle sue parti, che ritengo tutte fondamentali. Perciò arricchisco della mia scrittura anche la fase d’ideazione dell’opera, relazionandomi con la visione dell’artista, con il tema della mostra, con l’identità del luogo, con il luogo stesso, con la struttura architettonica che accoglierà la mostra e l’istallazione, con la possibile percezione dei visitatori. Il percorso che seguo è, quindi, indubbiamente anche creativo. Ed è performativo, in quanto seguo l’artista in tutte le fasi. La stessa confezione del prodotto finale – che sia una mostra personale, un intervento speciale o una collettiva – risulta, alla fine, un racconto a trecentosessanta gradi di quello che io per prima voglio trasmettere al fruitore. Anche per questo, lavoro molto al fianco dei grafici, che io considero artisti alla pari degli artisti che invito nelle mie mostre. Ti porto l’esempio di un progetto di alcuni anni fa, WATERSHED (2012/13), che si è collocato al Primo Posto nel Programma Cultura della Commissione Europea (l’attuale Europa Creativa), su oltre trecento progetti candidati. Il progetto grafico di WATERSHED, quindi il logo stesso che identificava l’intervento di ogni artista, si trasformava in funzione del medium utilizzato dall’artista, rappresentato da elementi fluidi (acqua, petrolio, ecc…), e diventava esso stesso protagonista di un progetto grafico di alto livello artistico a cura di un team di creativi guidati da Carla Palladino. In quell’occasione, il gruppo dei grafici ebbe la capacità di trasmettere, attraverso il visual design, il vero senso del concept di WATERSHED, al punto da meritare una segnalazione alla Biennale del Design di Mosca.

DARK MATTER  di NIO architecten
Castello di Barletta

Lei è stata curatore esecutivo del progetto a cura di Achille Bonito Oliva DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO (2010). Questa proposta di presentazione delle opere d’arte da un diverso punto di osservazione mi sembra che racconti molto anche delle sue modalità operative: lavorare sul limite, sulla soglia per rischiare un cambio di prospettiva e presentare una diversa cucitura narrativa tra l’opera proposta e il fruitore. Quanto è importante correre “il rischio” di lavorare sulla soglia? E, concettualmente, quanto ritiene sia stato rilevante il cambio di prospettiva nel relazionarsi all’arte proposto al fruitore?

DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO è un progetto figlio dell’esperienza di INTRAMOENIA EXTRART, oltre che di altre esperienze, portato in Puglia con la direzione scientifica di Achille Bonito Oliva con cui mi ero già confrontata, nell’esperienza attraversata dal 2005 al 2010, sull’uso di questi luoghi limite e sulla proposta allo spettatore di uno sguardo da punti di vista differenti rispetto a quello tradizionale.

DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO. HOLZER, GUPTA, NANNUCCI
Castello Svevo di Bari

A questo proposito, voglio ricordare due realizzazioni in particolare nell’ambito di INTRAMOENIA EXTRART: un intervento realizzato nel 2006 a Lucera con l’artista colombiana Maria Teresa Hincapiè de Zuluaga ed un altro a Lecce con l’artista (fotografo) Oliviero Toscani.  “El espacio se mueve despacio” di Maria Teresa Hincapiè de Zuluaga propose un’eccezionale proiezione di notevole forza emotiva, nel grande spazio della fortezza di Lucera,  con una modalità di osservazione inusuale, ovvero dal basso verso l’alto e quindi invertita rispetto a quella proposta in DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO. Oliviero Toscani occupò lo spazio libero sulla Torre Mozza della fortezza Carlo V, con un grande manifesto prospiciente la strada, una fotografia di modelle seminude, bendate in diverse parti del corpo con cui la meraviglia della bellezza incontrava la critica alla sua degenerazione, attraverso l’allusione agli interventi spesso invasivi di chirurgia estetica. Anche in questo caso, l’osservazione è stata proposta al fruitore da un diverso punto di vista.

INTRAMOENIA EXTRART. OLIVIERO TOSCANI
Lecce, Fortezza Carlo V

Credo che, attraverso il ricordo di alcuni dei miei progetti, abbia risposto alla domanda di quanto sia importante lavorare “sulla soglia” e “correre il rischio” di proporre uno sguardo differente sulle cose. Il “limite” è un concetto chiave.  Il vero artista contemporaneo si muove sul limite, e quindi è importante sollecitare il visitatore anche con punti di osservazione “al limite”: al limite dell’assurdo, al limite anche del facilmente digeribile, al limite della fiaba, al limite della provocazione anche fisica. Penso all’istallazione “Macchine celibi” dell’artista Francesco Schiavulli, macchine in legno di risulta con cui il fruitore, nel progetto DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO, poteva attraversare il limite del fossato del Castello Svevo di Bari. Si rese possibile l’attraversamento di quel limite naturale architettonico e quindi il “limite del proibito”, utilizzando queste macchine delle emozioni. L’Arte contemporanea è anche questo: è un oltrepassare il limite. L’artista, come dice Achille Bonito Oliva, “è un errore biologico”, per cui io credo che dal vero artista non possiamo aspettarci nulla di scontato, l’arte deve sorprendere;  anche un punto di vista insolito può aiutare a “spiazzare”, emozionare. Nella proposta di un punto di osservazione differente va letto anche il progetto realizzato, nel 2010, proprio nella tua città, Taranto, con l’artista Stefano Cagol, invitato a produrre un lavoro site specific nell’ambito di INTRAMOENIA EXTRART. Con questo esempio rispondo anche alla tua seconda domanda relativa all’importanza di offrire al fruitore un cambio di prospettiva nel relazionarsi all’arte. L’intervento di Stefano Cagol ha rappresentato un’opera di coinvolgimento della città e dei cittadini, incentrata sull’osservazione della difficoltà di conciliare salute e lavoro, in un momento in cui questo tema non era sentito in maniera pubblica fortemente come lo è, invece, oggi. Un’ ape car (triciclo Piaggio) circolava nelle strade della città, con la collaborazione dell’allora giovane artista Valentina Vetturi, alla ricerca di oggetti luccicanti per creare quest’opera multidisciplinare, il cui titolo, “Scintillio e cenere”, rimandava anche alla bellezza degli Ori di Taranto e insieme alla traduzione di Ilva. Cagol installò nel fossato del Castello Aragonese di Taranto una grande bandiera rivolta verso la città e su cui vi era scritto CENERE. In questo caso, l’arte ha condotto il fruitore sulla “soglia” dell’osservazione di una realtà che di lì a poco si sarebbe palesata in tutta la sua drammaticità, in forte contrasto con la bellezza della luce e della storia millenaria della città.

STEFANO CAGOL. SCINTILLIO E CENERE
Castello Aragonese, Taranto

Vorrei prendere spunto dalla scelta espositiva della mostra Silent Spring di Claudia Giannuli nelle sale del Museo MarTa di Taranto per considerare come lei proponga un modello alternativo di gestione dei beni culturali tradizionali. In questo caso si tratta dell’utilizzo dello spazio espositivo museale, in atri suoi progetti ha impegnato siti di rilevanza storico-artistica e paesaggistica. Si tratta sempre di spazi espositivi inusuali, che lei sceglie di volta in volta, già di per sé impregnati del loro personale significato e il cui senso trova nuova espansione attraverso l’arte contemporanea ed un più efficace coinvolgimento concettuale del fruitore, a mio parere.  Qual è la particolarità, in ambito espositivo, della mostra Spring di Claudia Giannuli al MarTa?

Devo andare necessariamente un po’ indietro nel tempo, perché nessuno di questi progetti nasce come progetto spot, ma sono il risultato di una lunga gestazione e di un’idea ben precisa e consapevole che è quella del CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO, indubbiamente figlio, anche questo, delle esperienze precedenti, quindi di INTRAMOENIA EXTRART, che è modello di “museo temporaneo diffuso”. La particolarità di questa mostra sta nel fatto che, pur legandosi sempre alla realtà del territorio, il Museo Archeologico Nazionale MarTa ha già una sua organizzazione interna. Invece i miei progetti, generalmente, coinvolgono realtà periferiche e luoghi non convenzionali. Porto l’esempio del progetto CASA FUTURA PIETRA (2015/17): una delle mostre è stata pensata e realizzata negli Ipogei Capparelli che si trovano di fronte al Parco Archeologico di Siponto, un luogo totalmente abbandonato che abbiamo fatto gestire da realtà locali, associazioni e cooperative ingaggiate per il tempo di fruizione della mostra.

SILENT SPRING di Claudia Giannuli, proposta nel MarTa, non ha presentato questa necessità, perché il Museo dispone già di un personale predisposto alla sorveglianza degli spazi e dei reperti che il Museo, generosamente messo a disposizione della mostra, grazie alla piena collaborazione della direttrice Eva Degl’Innocenti. Nonostante tutto, ho voluto comunque fortemente il coinvolgimento di Cristina Principale, professionista e storica dell’arte che si occupa di comunicazione e la cui competenza è nutrita anche dell’espressione del territorio tarantino. Ritengo che sia fondamentale garantire sempre la presenza di un professionista che conosca bene il territorio, per poter assicurare il miglior approccio possibile in funzione delle specificità di forza e di debolezza dell’ente pubblico locale e dei fruitori locali con cui ci si interfaccia, in relazione anche alla floridità culturale, più o meno vivace, dei diversi territori in cui si va ad operare.

La mostra SILENT SPRING è stata organizzata con l’Associazione culturale ECLETTICA – Cultura dell’Arte, di cui oggi è presidente lo scultore Stefano Faccini, ed è stata prodotta grazie al finanziamento ottenuto partecipando al bando regionale “Custodiamo la Cultura in Puglia” e da aziende sensibili come 2STAR/MOFRA e EUMAKERS. Ma senza il lavoro che ha visto coinvolti la Direttrice del MarTa, Eva Degl’Innocenti e lo staff del Museo, di cui fa parte il prezioso funzionario archeologo Lorenzo Mancini, nulla si sarebbe potuto realizzare. E non è facile confrontarsi con un’Istituzione complessa come un Museo Nazionale; l’affermazione della Direttrice,  nel giorno dell’inaugurazione, “qui si entra solo per meritocrazia”, pertanto,  è stata molto appagante!

SILENT SPRING di CLAUDIA GIANNULI
Museo Archeologico di Taranto MarTa
In esposizione fino al 25 luglio 2021

Il CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO di cui fa parte la mostra SILENT SPRING è uno straordinario progetto pluriennale di fruizione di arte contemporanea di cui mi ha molto colpito il capillare lavoro collettivo che fa di ogni mostra non una dimensione limitata nel tempo, ma tasselli che si combinano in un percorso che si costruisce insieme, come risultato di una collaborazione sinergica. Quanto ritiene importante o necessaria la possibilità di un lavoro collettivo in ambito artistico? E perché?

Il lavoro collettivo è fondamentale ed il problema cardine sta nel fatto che il lavoro collettivo ha un costo. Mi dispiace enormemente che a tuttt’oggi non sia stato ancora recepito che il CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO non è un mero calendario di eventi ma molto di più che ha al centro “il lavoro” in ambito culturale: è un sistema tra professionisti del settore il cui lavoro creativo ha indubbiamente e appropriatamente un costo che oggi, purtroppo, non è coperto. Al lavoro di produzione di una mostra, allo studio dei testi, allo studio della grafica, al concept generale, alle traduzioni, al piano e ai prodotti per l’accessibilità, anche al lavoro svolto dall’artista nella progettazione di un’opera, nonché alla produzione artistica o artigianale dell’opera  (come è stato necessario nel caso delle opere di Claudia Giannuli, di produzione artigianale) si deve aggiungere necessariamente il LAVORO DI  IDEAZIONE che ha esso stesso un costo che non rientra nel budget della produzione fisica dell’oggetto o del service che monta audio e video (quando sono necessari) e del mero allestimento della mostra. Oggi è possibile sperare nella copertura solo dei costi vivi di produzione di una mostra, mentre si pone in un immeritato piano secondario il valore effettivo del costo della ideazione del progetto, svilendo l’importanza di quello che dovrebbe, invece, essere considerato un passaggio “perno” su cui ruota e si sviluppa tutto il progetto che si vuole proporre, di volta in volta. È assolutamente necessario un cambio di prospettiva. Vorrei poter creare e dirigere un board di curatori pugliesi, senza escludere il confronto sempre necessario e anzi auspicabile con curatori di altre regioni italiane o internazionali, a cui poter trasferire la mia esperienza, maturata negli anni, e con cui poter lavorare ad una progettazione biennale o triennale, per costruire insieme progetti che possano offrire giusta visibilità ad artisti del territorio, ma che, nel territorio sono purtroppo poco conosciuti, mentre hanno già raccolto stima e risultati in altre realtà di respiro internazionale. Porto ad esempio gli artisti Rossella Biscotti (originaria di Molfetta), Francesco Arena (nato a Torre Santa Susanna, in provincia di Brindisi) o Sarah Ciracì  e Giulio De Mitri (di Taranto), solo per citarne alcuni.

Sono pienamente d’accordo con lei. Mettere in secondo piano la valorizzazione concreta di artisti di talento del territorio per dare spazio, piuttosto, a progetti spot che garantiscano un esclusivo momentaneo ritorno di favore in ambito turistico, rischia di intercettare sempre più spesso un pubblico poco interessato al messaggio artistico, svilendo il valore dell’arte e la funzione fondamentale del curatore. È necessario che venga presa seriamente in considerazione la prospettiva auspicabile di valorizzazione del ruolo e dell’identità del curatore, che non può e non deve essere ridotto ad un “organizzatore” che riempie di contenuti un contenitore-luogo di esposizione, ma deve essere riconosciuto nel suo indispensabile ruolo di regista e creatore, impegnato nella traduzione, nella scrittura e nella tessitura della trama di un progetto artistico. Un atto dovuto all’Arte, io credo, sia porre le basi e le condizioni da parte degli enti pubblici di mettersi al servizio dell’Arte, affinché la cultura sia la radice su cui far crescere la pianta florida del turismo e non piuttosto servirsi dell’Arte stessa per muovere un turismo che trovi basi solo sull’inconsapevolezza del tesoro a cui si sta accedendo.

Sì, è così. Una simile visione dell’arte che non riconosce il valore dell’ideazione non potrà mai portare a grandi risultati. Ne sono molto dispiaciuta. Ribadisco quanto sia assolutamente necessario un cambio di prospettiva da parte degli enti pubblici.

Lei ha preso parte al progetto CARNAVAL VISUAL ART 2017 che ha visto coinvolti artisti di fama internazionale sul tema identità e maschera. Uno spunto di riflessione molto interessante che mi porta a chiederle: quanto crede che l’arte possa contribuire a “rileggere” la realtà in modo più autentico?

Consentire la rilettura della realtà in modo più autentico è forse la mission fondamentale dell’arte.  L’arte può e deve smascherare la realtà. L’artista ha la grandezza della “visione”, la capacità di guardare oltre, di prevedere anche il futuro, di precorrere i tempi con il suo sguardo smaliziato sulla realtà, la cui lettura non è mai una sola. L’artista ha una mission sociale, smaschera quello che non va della società oppure lo traveste di bellezza. Io sono un curatore molto attento alla veste estetica dell’opera d’arte che non significa “bello” ma cura, equilibrio. Perché siamo attratti dall’arte del passato? Perché è un’arte estetizzante. Tra gli artisti che ho ospitato nelle mie mostre, vi è Jan Fabre (belga) che molti faticano a considerare un artista contemporaneo perché definito molto “leccato”, così accade anche per artisti squisiti come Matteo Basilè o Andres Serrano.

ANDRES SERRANO. Torture (visione parziale parete sinistra)
INHUMAN a cura di Giusy Caroppo
Castello di Barletta
Ph Maurizio Abbate

Sono artisti che cercano nella fotografia, nell’installazione una veste impeccabile, assolutamente perfetta, facendo ricorso anche all’uso di materiali pregiati o soluzioni ricercate. Jan Fabre spazia dall’impiego del vetro di Murano, al marmo di Carrara, al carapace dello scarabeo. L’arte contemporanea è, invece, spesso associata al brutto, all’antiestetico, nell’immaginario della gente e c’è una sorta di repulsione della critica per l’opera ben confezionata. Ma l’arte, anche quella attuale, deve avere il coraggio della bellezza, perché questo può aiutarci a vivere meglio. La pandemia che abbiamo attraversato ha, inoltre, potenziato la comprensione della capacità consolatoria dell’Arte. L’arte, la vera arte quindi non solo smaschera, ma consola.

Gabriella Grande

Link per approfondimenti:

Giusy Caroppo – Storico dell’Arte e Curatore Indipendente

HOME – Circuito del Contemporaneo

eclettica – Cultura dell’Arte (ecletticaweb.it)

Testo critico “Quando il segno diventa poesia” pubblicato sul n°39 del periodico della BCC di Oglio e Serio “Il Melograno”

CON L’OPERA NON SI BARA. LA DIGNITÀ NELL’ARTE COME NELLA VITA

Conversazione con GIAN RUGGERO MANZONI

(poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer)

 

  1. Uno dei Suoi libri a me più cari è “Il dolore” 1. Ne ho attraversato le pagine come si attraversano le grandi cattedrali vuote nel tardo pomeriggio, in punta di piedi, per non interrompere il silenzio nel quale scorrevano le Sue parole e il Suo rapporto con la figura di Suo padre. E tutto questo è arrivato a me, lettore, come qualcosa di sacro, da maneggiare con cura. Che cosa è veramente  sacro per Lei?

In primo luogo la vita. Sì, la vita è sacra e, come compimento della vita, lo è anche la FOTO IN EVIDENZAmorte. Sono convintissimo che il grado di civiltà e di elevazione di un popolo lo si deduca dal suo modo di confrontarsi con la morte, con questo passaggio. Sacra è anche la poesia, la scrittura, sacra è l’opera per se stessa. Noi siamo chiamati a santificare la nostra vita, e in questa nostra esistenza c’è il lavoro, c’è l’opera che io vivo ed ho sempre vissuto come una dimensione sacra. Questo pensiero è molto vicino ai mistici ebraici, per i quali si glorifica Dio, la divinità anche tramite il lavoro che si fa. Se tu sei un calzolaio devi essere il miglior calzolaio perché è nel tuo fare che non solo glorifichi la vita e il tuo essere, ma anche  la divinità, il tuo Creatore. Ma se si vuole evitare di parlare di divinità, il glorificare la propria vita  e rispondere alla chiamata a certe dimensioni dell’essere, è già un essere nel sacro. Ogni gesto, ogni parola ha la sua dimensione altamente liturgica, per cui la vita stessa diventa una dimensione sacrale. Questo l’ho imparato negli anni. Tutto, dai gesti della vita di ogni giorno, al lavoro che compi, all’amore per il tuo o la tua partner, fino ad arrivare addirittura al gesto amoroso, all’amplesso –  che ha una sua sacralità se è vissuto nella giusta maniera –  tutto io penso che dipenda da questo: dal senso di sacro e dal valore sacro che tu attribuisci a questa tua dimensione terrena.

  1. Sempre nel Suo libro “Il dolore”, in un verso fa riferimento al vuoto: “Con il fango si modella il vaso, e l’impiego del vaso sta nel suo vuoto”…L’impiego del vaso sta nel suo vuoto, proprio in quel vuoto che ci fa tanta paura! I Suoi versi mi hanno richiamato alla memoria Heidegger che, nel suo saggio “La cosa”, affronta lo stesso passaggio,  così come lo fa la tradizione taoista, nel testo “Tao Te Ching” in particolare. La parola vuoto poi, in un verso di “Tutto il calore del mondo” 2  Lei la cesella, tra due punti, uno all’inizio ed uno alla fine della parole, quasi a contenerlo: ”La talpa. Il vuoto. La Bestia”.  Ma al vuoto Lei non fa riferimento solo nella Sua espressione scritta, ma anche in quella pittorica, perché nelle Sue opere io riscontro un‘ alternanza di pieni costruiti con il colore  e di vuoti, se non di forme,  di spazi. Che cosa rappresenta il vuoto per Lei? Come artista, in che modo si confronta o si scontra con il vuoto,  in tutte le sue manifestazioni?

17457670_10212587748750936_622643375654266701_nPer ritornare al discorso che si faceva prima, questo vuoto va riempito. È  in questo gioco tra vuoti e pieni che si svolge la nostra vita e ne prende forma. Il vuoto non è il nulla del nichilismo, il vuoto è componente fondamentale al fine di dare una dimensione e una direttiva al nostro essere. Si nasce vuoti,  ingenui, puri, privi di qualsiasi struttura o sovrastruttura, si ha solo la dimensione genetica che ci hanno trasmesso i nostri genitori, però,  intellettualmente parlando, si è ancora vuoti, e solo in seguito apprendiamo, via via ci viene insegnato e capiamo. Io penso che il vuoto sia il percorso; il vuoto è il cammino dell’intera vita, e credo che si muoia quando il vaso è colmo, ovvero quando si è  arrivati al massimo grado di consapevolezza. Ciò potrebbe sembrare paradossale, iperbolico se riferito alla morte di un bimbo, eppure sono convintissimo che un bimbo muoia perché in quell’età aveva già raggiunto la massima pienezza. Io penso che si muoia nel momento in cui si raggiunge la massima consapevolezza della vita, che può essere racchiusa  anche in un sorriso, in un sorriso di un bambino appunto. Probabilmente quel bambino aveva capito molto più di noi che viviamo invece per 70, 80, 90 anni. Ecco, quanto ho descritto è il vuoto per me, il vuoto a cui siamo chiamati al fine di riempirlo. Infatti, nella metafora che hai citato nella mia poesia, si evidenzia come stia proprio nel vuoto il valore del vaso, perché è in quel vuoto che il vaso assume un compito come contenitore. Noi siamo dei contenitori fondamentalmente, il nostro corpo contiene, e siamo a nostra volta contenuti. Possiamo definirlo un bellissimo “gioco” tra vasi comunicanti, per cui noi assorbiamo il sapere, ma, nello stesso tempo, diamo sapere, cognizione e conoscenza di ciò che ci circonda; riempiamo e, contemporaneamente, ci riempiamo. Questo è il vuoto. È fondamentale il suo valore, perché ci consente di dare lettura alla condizione e alla dimensione in cui noi stiamo vivendo.

  1. Mi tengo ancora agganciata a quel vuoto per chiederLe prima di tutto se è stato necessario fare vuoto dentro di Sé per affrontare la traduzione dell’Esodo 3 e della Genesi dal greco antico e cosa Le ha rivelato di Gian Ruggero Manzoni la traduzione? Perché, in fondo, tradurre significa anche accettare di essere “tradotti” dal testo. In un modo del tutto inaspettato, la traduzione può diventare anche un’occasione di incontro con se stessi, a volte. È stato così anche per Lei?

Certamente! Soprattutto quando ti parametri con il Testo Sacro per antonomasia ed, in4aggiungi particolare,  con una delle componenti del Pentateuco. Ho iniziato con la traduzione dell’ Esodo perché lo considero un libro fantastico e perché mi ha sempre affascinato la figura dell’ebreo errante. Io ho amato moltissimo nella mia vita un poeta che considero grandissimo: Edmond Jabès. Mi è sempre piaciuta la figura dell’errante che poi  errante non è. È errante su questo pianeta per conoscere, per vedere, per incontrare, ma non lo è dal punto di vista della Fede,  del sapere o della consapevolezza di sé. Nell’Esodo mi sono ritrovato in alcune figure portanti, ma non in quella di Mosè, non mi sento e non mi sono mai sentito una guida di tale spessore, di tale grandezza! Mi sono ritrovato, invece, in certi personaggi apparentemente marginali, come Aronne e Giosuè. In Giosuè ho ritrovato tante parti di me stesso! La grandezza della Bibbia, del nostro Libro Sacro è questa: l’interscambiabilità, la possibilità di mutare il rapporto con la stessa, “entrando” nei vari personaggi,  fino ad arrivare, nel Nuovo Testamento, e diventare un tutt’uno con il Cristo stesso. Passare alla traduzione della Genesi – che spero di pubblicare a breve –  dopo l’Esodo era inevitabile! O si passava alla Genesi oppure sarei dovuto saltare all’Apocalisse, e non è detto che non  lo faccia! La Genesi mi interessava non tanto per la dimensione della Creazione quanto per un momento in particolare: la costruzione della Torre di Babele 4, la mutazione nei vari esseri viventi del linguaggio, e la conseguente incapacità degli uomini di riuscire a relazionarsi quale punizione divina. È la superbia umana che ci divide! Se Dio nella Bibbia conferisce ad Abramo la capacità di dare il nome a tutto ciò che lo circonda, ovvero dà la possibilità all’uomo di chiamare il suo spazio, di chiamare il suo luogo, di chiamare gli elementi che compongono il suo stato e di chiamarsi, ecco che con la Torre di Babele tutto crolla. Prima della Torre di Babele ci si capiva tutti, dopo non ci si capiva più. Penso che nella Genesi sia interessante proprio questa contrapposizione tra la nascita e il divenire del nostro essere,  e l’incapacità di poter trasmettersi l’un l’altro questo nostro bagaglio, questa nostra testimonianza di percorso. Questo mi ha appassionato particolarmente e penso che possa e debba interessare a tutti coloro che si avvicinano alla parola. Credo sia fondamentale la conoscenza e l’approfondimento dei tanti idiomi, dialetti, vernacoli che popolano il mondo. Mi ha sempre stimolato conoscere qual è il diverso modo di chiamare le componenti fondamentali del nostro essere. Per esempio, ho riflettuto lungamente sul nostro dialetto romagnolo, che ci ha dato e sta dando dei grandissimi poeti: Raffaello Baldini, Tonino Guerra, Giuseppe Bellosi, Giovanni Nadiani scomparso di recente e Nevio Spadoni. Nel nostro dialetto romagnolo la parola “amore” ben poco viene usata,  preferendo il “ti voglio bene” al “ti amo”. La parola amore, invece, viene più adoperata per indicare il sapore, “amòr” (sapore=amòr). È  molto interessante scoprire come una parola che in italiano  esprime  il sentimento più alto, nel dialetto romagnolo non venga pronunciata per pudore (perché l’amore, per i nostri vecchi che parlavano in dialetto, era considerato un assoluto che, probabilmente, si rivolgeva esclusivamente agli assoluti appunto, e nella vita era troppo dire ti amo, e l’amore si esprimeva verbalmente con un “ti voglio bene”) e venga invece  usata per indicare il sapore. “Ha un buon amòr” ovvero “ha un buon sapore”. È bello questo! Io penso che nella Genesi la questione inerente la Torre di Babele e la mutazione del linguaggio, per quanto sia stata sconcertante, ha fatto sì che noi potessimo maggiormente indagare sulla nostra lingua, sulla lingua dei nostri padri  e, contemporaneamente, sulla lingua altrui. Per cui anche quella che sarebbe dovuta essere una punizione divina, è diventata un’occasione “misericordiosa” perché ci ha concesso poi –  per chi lo coglie ovviamente – un altro piacere. In questo, fondamentalmente, risiede il senso del tradurre sia l’Esodo che la Genesi da una lingua morta come il greco antico, così come dall’aramaico e dall’ebraico antico (diverso da quello moderno): prendere coscienza e stupirsi di vedere come una stessa immagine sia stata espressa in greco, in ebraico, in aramaico. Il grande piacere della traduzione e il suo senso profondo risiedono soprattutto nel rapporto con la lingua, con il suono, con il nostro suono, con la nostra voce;  ti viene affidato un testo e tu devi cercare di tradurlo al meglio nella tua lingua, dopo averlo compreso.

 

  1. In principio erat Verbum. In principio fu la parola, un suono credo, e la sua vibrazione di fondo. Credo che anche all’origine della creazione di un’opera d’arte ci sia una vibrazione, un suono interiore. Cedo allora alla tentazione di rivolgerLe la domanda che Jak Gambardella nel film “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino pone all’artista performer Talia Concept,  senza purtroppo ottenere risposta. Cos’è per Lei una vibrazione?

4okLa mia è la generazione delle “Good vibrations”, delle “buone vibrazioni”. Sono nato nel ’57 e in quegli anni l’espressione “buone vibrazioni” veniva usata spesso, ma era una metafora per stimolare alla ricerca del raggiungimento di un’armonia interiore e al tentativo di trasmettere e ricevere armonia dagli altri.

Ma in riferimento  al suono, entrando più propriamente nella questione della scrittura e dell’oralità,  io penso che la buona vibrazione ci venga data dalla giusta  modulazione della nostra stessa voce, dalla capacità di saper leggere e  dalla capacità di “vivere” la vibrazione. Questo è molto importante anche per il poeta! Non sono molti i poeti capaci di recitarsi, però anche questo, a mio avviso, dovrebbe far parte del loro bagaglio, perché non dimentichiamo  che il poeta è nato con una cetra in mano, cantando quello che aveva scritto e che aveva immagazzinato da altri prima di lui. Pensiamo alle canzoni di gesta, provenzali, e al rapporto diretto tra la parola orale, la parola scritta e la musicalità. La buona vibrazione è data dalla capacità di trovare in se stessi il giusto tono e, di conseguenza, anche la giusta armonia, riuscendo così a trasmetterla anche esternamente. Anche le “buone parole” sono  buone vibrazioni.

Ritornando, poi,  alla prima domanda sul sacro, quando sei  in grado di cogliere la vibrazione tu vivi  una sacralità. La vibrazione, flow, è il flusso che ti arriva dall’esterno e che tu emani di tuo verso l’esterno. La vita stessa è una questione di flussi,  e ritorniamo al discorso  del  vuoto e del pieno. Per questo motivo ho detto prima che esiste una sacralità anche nel congiungimento carnale, perché è uno scambio di flussi, di energie, di vibrazioni. La vibrazione è quel tremito, quella dimensione archetipica molto vicina all’origine che ti appartiene e che, allo stesso tempo, è parte del grande suono che è l’Universo. Ora sappiamo che non esiste silenzio nell’Universo, ma tutto ha un suono, gli stessi pianeti  che ruotano hanno un suono. Noi siamo circondati dal suono. Io penso che quando si nasca si abbia come patrimonio anche questo suono, e riconoscere il proprio suono e  il suono dell’altro è fondamentale per poter vivere in armonia. Viviamo in un mondo sempre più caotico in cui la parola viene usata molto male, spesso con grande volgarità ed urlata e, di conseguenza,  manca in essa la giusta vibrazione. Mi riallaccio al discorso sulla liturgia fatto in precedenza perché penso sia fondamentale e “ liturgico” usare la parola con la giusta intonazione e quindi con la giusta vibrazione. Quanto è importante sviluppare la grande capacità di entrare in sintonia completa con il tuo suono, cioè quello che dell’Universo hai in te! Ricordo un’azione artistica, al Beaubourg di Parigi, di un artista francese che aveva riportato esclusivamente il suono del nostro pianeta Terra, registrato da satellite. È  un suono verso la e, è un eeee  all’infinito. Quando entrai nel Beaubourg  subito pensai che in quel eeeee, in quel suono c’ero anch’io, ci siamo tutti. Siamo nel suono del nostro pianeta, ne facciamo parte, ma, contemporaneamente,  siamo anche nel suono della totalità,  perché sono convintissimo che l’uomo abbia in sé il germe totale dell’origine, sta a noi scoprirlo.

  1. Di uno dei Suoi reading poetici presenti su YouTube, dal titolo “Il lento movimento dei ghiacci”5 ho trattenuto un verso: “L’estasi non la si può rubare all’altro. Ognuno l’ha di suo, al pari della strada che l’ha generata”. La strada che genera l’estasi nell’arte, attraversa spesso la terra del dolore. Lei è stato visitato tanto dal dolore nella Sua vita (mi riferisco anche all’esperienza di guerra). In che rapporto, secondo Lei, si pongono le ferite della vita e l’esperienza dell’estasi?

Entriamo in un campo molto delicato, profondissimo, basilare, fondamentale per la 2oknostra esistenza. La nostra esistenza è spesso dolorosa, è quasi totalmente dolorosa, ma non scopro nulla di nuovo. Considero doloroso anche quando un uomo se ne sta mani in mano. Il non fare nulla, lo stare al mondo, essere vivo e non fare è, forse, il dolore più intenso che l’uomo  possa esprimere.

L’esperienza del dolore è sicuramente  un passaggio fondamentale della vita, fa sì che tu poi riesca a cogliere l’importanza di ogni attimo della tua esistenza e di  quello che veniva definito “il senso di morte” che non è il male di vivere, la depressione, non è la malinconia, ma il sapere che si nasce per morire, e che già nel momento del concepimento, siamo in viaggio verso la morte. Questo è il dolore profondo dell’uomo: sapere che, pur essendo verbo incarnato, parola, suono, vibrazione incarnata, un giorno terminerà, finirà, e il rapporto continuo con questa componente diventa estatico. Ecco, l’estasi è questa capacità, che definirei “eroica”,  di riuscire a continuare a vivere pur sapendo che comunque ci aspetterà la morte. Vivere facendo, dando senso, spessore e  dimensione fideistica a questo tratto di strada che ci vede in questa dimensione, con la consapevolezza che passeremo momenti di grande dolore e che finiremo. Questa è l’estasi.

Poi si arriva all’estasi dei santi, dei mistici, nei quali lo stato contemplativo non è da confondere con lo stare mani in mano, perché non si tratta assolutamente di uno stato passivo, ma di uno stato attivo, perché nella contemplazione, come nella meditazione,  c’è compenetrazione, per cui si è  in movimento, non in stasi. I mistici raggiungono le somme vette dell’estasi  – ma lì arriviamo nei massimi sistemi, lì arriviamo ai sommi – per noi invece, nella nostra semplicità, nella nostra umanità e quotidianità, l’estasi è la capacità di  riuscire a cogliere la bellezza e il senso profondo di questa esistenza  molto dolorosa, nonostante si assista sempre più spesso  a quale grado di bestialità può ridursi l’uomo nei confronti di un altro uomo.

Per tornare al nostro discorso artistico-creativo, difficilmente si riesce a trasformare l’estasi in parola scritta o in un segno. Forse in pittura si ha qualche possibilità in più che nella scrittura, anche se questo si rivela comunque molto difficile, come peraltro è impossibile fermare totalmente in arte  i sentimenti e le emozioni che si vivono. Anche questo fa soffrire, è un ulteriore dolore che ci costringe a fare i conti con il nostro limite e a tentare di trasformarlo in qualcosa di prezioso,  perché anche questo nostro limite ha in sé una componente estasiante (strettamente legata a estetico, estasi-estetico) per cui c’è il bello oltre il dolore. Il dolore ti fa cogliere il bello: questa è l’estasi. Anche in questo la figura del Cristo insegna. Nella componente massima del martirio e della macerazione della carne c’è bellezza oltre il dolore, una bellezza ed una grandezza sconcertanti. È logico che delle ferite e del dolore della vita si farebbe molto volentieri a meno, ma è fondamentale cercare di  dare un senso profondo anche al dolore.

  1. Che valore dà all’attesa? E nell’arte, quanto è importante saper aspettare per il pittore e quanto lo è da critico d’arte, invece, quando si pone in relazione con un’opera?

1okCome ho già detto prima, la vita stessa è un’attesa, siamo qui tutti in attesa dell’evento finale. I vari discorsi che stiamo affrontando sono collegati. L’attesa esiste ed è il momento in cui tu aspetti che la tua vibrazione interiore, il tuo flusso interiore, la tua energia interiore si ricongiunga con l’energia dell’intero o, per chi è credente, del divino. Quello è il momento massimo della creatività che può essere poi testimoniato su carta, su tela, a livello teatrale, cinematografico, soprattutto musicale, ma può anche non essere testimoniato. Però esiste, ed io confido che esista in tutti gli uomini, anche in quelli che non si propongono dal punto di vista creativo ed artistico. In tutti gli uomini questa attesa è l’attesa del superamento di una condizione, quella umana, per entrare in un’altra condizione quasi metafisica, metaempirica. È quella dimensione che non ha né spazio né luogo, che non ha componente entropica,  non è governata dal  caos, bensì è la dimensione dell’essere completo. L’attesa è  attendere questa dimensione.

Lo stesso accade quando tu vieni a contatto con un’opera d’arte o anche quando vieni a contatto  con un’altra persona, con un oggetto, con la tua penna stilografica, addirittura con la tua automobile. Lo sperimenti tutte le volte che entri in relazione con qualcuno o qualcosa e cogli l’essere completo di ciò che stai fruendo. Ho citato ad esempio l’ automobile. C’è chi vede un’automobile solo come un ammasso di ferro in cui c’è dentro un motore, però l’automobile è, in realtà, una proiezione dell’uomo, così come lo è il computer. Quando salgo nella mia automobile non vedo solo un ammasso di ferro, vedo un cuore che batte e che sono i pistoni, vedo  tubature che sono le vene, vedo un essere. È fondamentale saper cogliere l’essere e il fare umano in tutto ciò che ci circonda. L’attesa è quel momento in cui tu entri nella stessa lunghezza d’onda di ciò che hai davanti. E così siamo ritornati al suono, alla vibrazione, a tutto ciò che si è detto finora. Quando entro nella mia auto vedo anche l’operaio che l’ha costruita, vedo  l’operaio che,  prima di aver dato il volante a quello che l’ha assemblato, ha dato vita a questo volante, vedo il primo della filiera che ha dato filettatura alla vite. Nella capacità di ampliamento, nella visione a 360° di un’opera (quadro, scrittura, musica) o del lavoro altrui con cui entriamo in relazione, risiede il senso profondo. Mi sento romantico anche quando parlo di tecnologia  perché il romanticismo è quello struggimento che ti prende quando riesci a cogliere “il tutto” e ad entrare in rapporto anche con l’operato umano – perché anche quello fa parte di noi – diversamente dai  primi romantici il cui  rapporto era con la natura, con tutto ciò che li circondava e di cui facevano parte. L’attesa è il mettere a fuoco la conoscenza, per cui l’attesa è uno stato di coscienza, di  consapevolezza. L’attesa è il momento in cui tu sei consapevole, e l’oggetto o l’altro fuori da te, è a sua volta consapevole e ti emana, ti riflette una sua consapevolezza. Mio nonno aveva una vecchia bilancia a due piatti sorretti da due asticelle che misuravano il peso dell’uno e dell’altro piatto. Quando le due asticelle erano allineate voleva dire che su ambedue i piatti c’era lo stesso peso. Ecco,  quando le due asticelle della bilancia sono a contatto e sulla stessa lunghezza, quello è il momento in cui dall’attesa tu passi alla dimensione attiva, e l’evento si è creato.

  1. È stato chiamato alle armi ormai molti anni fa, e poi la vita Lo ha chiamato all’arte…Quanto Le costa questa chiamata all’arte come artista? E da critico d’arte, quanto si deve essere grati al fiat dell’artista?

5OKIo ho sempre detto, e continuo a sostenerlo, che la capacità di esprimersi creativamente, artisticamente è innata. Il talento o ce l’hai o non ce l’hai. Che poi si possa essere artisti o poeti di vita anche senza scrivere una poesia e che si possa essere pittori anche senza dipingere,  questo l’ho ribadito anche prima, ma la capacità di riuscire a trasformare in opera non si impara, ce l’hai di natura. Il quid famoso c’è o non c’è.  Sono convintissimo di quello che diceva Baudelaire, ovvero  che per 23 ore e 59 minuti si è tra virgolette “degli ebeti” e poi c’è quel minuto nella giornata in cui si scatena il tutto, nella persona che ha quel quid. La chiamata all’arte diventa da un lato esaltante, perché si pone tutta la propria vita al servizio di quel quid, di quella componente innata, però, nello stesso tempo, può diventare dolorosa per il motivo a cui ho accennato prima, ovvero per la nostra incapacità quali esseri umani, quali esseri imperfetti di riuscire a rendere, tramite un linguaggio,  quello che sentiamo. Io penso che la massima forma d’arte e il massimo grado di esplicazione di quello che uno sente dimori  in una carezza, in un bacio, in un palpito, in un leggero sfregamento tra essere ed essere, tra te ed un albero, tra te e il tuo cane, perché in quel caso non hai bisogno del linguaggio. Ecco perché è tanto importante il corpo!  Non rendiamola demoniaca questa materia, perché ci permette di supplire alle tantissime impossibilità del linguaggio. La nostra completezza, seppure nell’imperfezione, è proprio in questa unione anima-spirito-mente e contemporaneamente corpo. Forse è in questa unione che si riesce veramente a cogliere quel momento estatico (e ritorniamo ancora all’estasi). Il dolore, come ho detto e voglio ripeterlo, è nella consapevolezza che non si riuscirà mai ad esprimere fino in fondo ciò che veramente si sente. Lì ci viene in aiuto il corpo: gli occhi, uno sguardo, un sorriso, una lacrima. Forse lì abbiamo il compimento e il pieno di quel vuoto di cui si parlava prima. Questo è il senso profondo dell’essere in arte.

L’essere in arte vuol dire cogliere il tutto o tentare di cogliere il tutto, per poi riuscire, bene che vada, ad esprimerne un decimo, e questo è il dolore per ciò che senti e che non riesci ad esprimere, anche se hai tutte le parole del mondo dalla tua parte, anche se hai tutta la  capacità nella mano per tracciare un segno, un profilo, anche se hai l’orecchio assoluto se sei un musicista. L’incapacità di arrivare a definire il tutto, questo è il massimo dolore. Ma, come dicevo prima, in questa consapevolezza c’è anche la nostra massima forza! Questa consapevolezza è anche la bellezza, l’estasi di cui ho parlato prima, la dimensione estetica e, sotto tanti punti di vista, anche etica perché nella conoscenza dei nostri limiti si entra anche in una dimensione etica e si riesce a dare un valore e un senso morale al nostro essere, alla nostra vita e alla vita in generale. Lo stoicismo viveva di questo, ed io ho sempre amato gli stoici e in fondo mi sento uno stoico per questo. Penso che l’arte sia un continuo inseguimento di una perfezione che non raggiungeremo mai, ma forse questo è il senso profondo della vita e dell’uomo e non solo dell’arte, cioè sapere che non si arriverà mai alla meta e si continuerà sempre invece a ricercarla.

Tu sai benissimo che come essere umano non potrai toccare l’Assoluto e il sapere chi sei, perché sei qui e dove si andrà, potrai solo sfiorarlo. Potrai averne parvenza per un attimo, ma per un attimo impercettibile. E lo stesso accade con la Verità: sai dov’è la Verità, la senti, la cogli, però poi questa ti sfugge. È una continua ricerca per raggiungere quell’attimo. Il famoso Aleph di Borges, la visione totale. Ecco, l’artista sa questo, mette in atto il suo talento per tentare di far sì che appaia l’Aleph, che appaia la visione del tutto anche solo per un attimo, anche solo per un secondo. È quasi alchemica la cosa! Anche solo quel secondo compensa l’intera vita. Non si sfugge da questo! Quel secondo ti ripaga di tutto, della tua ricerca, del tuo studio, della tua applicazione…Ti ripaga di tutto.

  1. Vorrei concludere rivolgendoLe la domanda che Cezanne fece a Vollard pochi anni prima di morire: “Non è forse l’arte una forma di sacerdozio, che richiede al puro di cuore una consacrazione totale?”

Certo! Diventa una missione di vita, diventa un’abnegazione, un darsi totalmente. Per8C OK Ph. Matteo Bosi anni e anni,  se io passavo una giornata senza aver affrontato la tela bianca o il foglio bianco, anche solo per fermare una parola con la mia penna stilografica (io ho sempre amato scrivere con la penna stilografica! Poi mi sono dovuto adeguare alla macchina da scrivere, e adesso al computer, però la piacevolezza della penna stilografica resta sempre. Chiamatemi passatista, ma io amo ancora l’inchiostro che va a segnare, a tratteggiare, a fermare, a vergare!) stavo male, ma non perché avevo questa necessità di esprimermi, ma perché mi sentivo in colpa nei confronti di ciò che mi era stato donato. La capacità di esprimersi creativamente, artisticamente, è un dono, è un grande dono come lo è per un buon falegname riuscire a fare dei bei mobili, per un muratore riuscire a  costruire delle case e via discorrendo. Per essere sincero anche adesso, che ho 60 anni, se passo un giorno così, a pescare ad esempio, anche se sono consapevole che quel momento mi serve per accumulare  energie, sensazioni, pensieri, visioni che poi confido prenderanno forma, in seguito, o sulla carta o su tela o su altro ancora, avverto ancora quel senso di colpa! Se io dicessi che non ho mai avuto timore di affrontare il foglio bianco o la tela mi si potrebbe prendere per matto, ma è così! Io non ho mai avuto paura, anzi! Era lì che iniziava la mia vita! Era lì che io iniziavo a sentirmi al mondo e ancora adesso è lì che inizio a sentirmi al mondo, ed è per questo che quando non facevo e non ho fatto mi sono sempre sentito in colpa nei confronti della mia vita, del tempo che mi è stato dato e di quello che sarà in questa dimensione. Ecco, questo è il senso del sacerdozio. Nell’arte si è sacerdoti 24 ore al giorno. Se sei chiamato a questo non puoi rinnegarlo, è un atto blasfemo. Io ho avuto amici che purtroppo, pur con grandi talenti, hanno deciso, a un certo punto, di smettere, perché il fare arte li distruggeva. Può anche distruggere fare arte! Proietti talmente tante energie che può anche distruggerti. Bisogna stare molto attenti! Bisogna saper diluire le forze, perché hai a che fare con l’opera, col palpito… è vita, bisogna curarla e curare te stesso mentre pratichi, perché ci si può rimanere dentro, ci si può morire e tanti sono morti di arte in questo rapporto con l’espressione, con la creatività.

Sì, si è sacerdoti nell’arte. È per questo che dicevo che ogni gesto, ogni parola, ogni incontro assume poi una sacralità. È fondamentale questo. Se non ci poniamo come esempi, e il sacerdote si deve porre come tale (veste una divisa), questo mondo è in grave pericolo! Se si perde questa sacralità legata all’opera, al lavoro, allo spirito che lo anima – e non mi riferisco solo a noi che facciamo arte, ma anche agli altri, anche all’impiegato che lavora 8 ore ad una scrivania – siamo finiti, e l’Occidente sta rischiando moltissimo da questo punto di vista! C’è un involgarimento e c’è anche tanta gente che si inventa creativa senza esserlo. Ormai si è arrivati al punto che tutti vogliono stampare il loro libro, tutti vogliono fare la loro mostra di pittura e va benissimo! È giusto che la gente si esprima, ma attenzione! Da qui ad essere sacerdoti ce n’è ancora. Innanzitutto devi avere una Fede forte, mentre molti confondono la ricerca di identità o l’ego come Fede. E no! Non ci siamo! Che l’artista sia anche molto spesso un egocentrico fa parte dell’iter della creatività, ma deve essere un ego poi motivato e sostenuto dall’opera, diverso da questo debordante bisogno di protagonismo dilagante che  rivela una società che sta perdendo il senso del sacro.

In una società in cui il sacro è dominante, invece, ognuno dà il giusto valore sia a se stesso che all’altro. Per cui tu sarai bravo a fare l’idraulico ed io sarò bravo a  scrivere una poesia, ma non è che io sia migliore dell’idraulico o lui è migliore di me, però si riconoscono i ruoli. Viviamo in un mondo in cui i ruoli non esistono più e, di conseguenza, non esiste più neanche l’autorevolezza del ruolo. Il sacerdozio implica un’autorevolezza. In questo sono molto vicino a Savonarola, sono molto etico. Se ti poni in una maniera, devi essere coerente. È questo che manca in chi si improvvisa. È giusto dipingere, però non confondiamo quello che è hobby o diletto, con quello che è lavoro, con quello che è opera, cioè ricerca continua, tentativo di svelamento, tentativo di raggiungere quella perfezione che si sa mai raggiungeremo, ma che è comunque il nostro compito come esseri umani. Infatti si scoprirà probabilmente che cos’è l’Universo, cosa siamo noi in questo Universo, però probabilmente si apriranno anche porte per altri Universi. Se non si ha questa visione dell’infinitudine e degli assoluti che implica questa infinitudine –  perché in questa ricerca non si va avanti a random! – non si può essere sacerdoti! È  inconcepibile che ci siano migliaia di poeti in Italia che stampano un libro e non leggono i libri degli altri. Io dico sempre che se tutti quelli che scrivono, comprassero un libro di un altro, finirebbero i problemi editoriali, ma tutti scrivono e nessuno legge. Ma prima di scrivere bisogna leggere! È inutile che ci si inventi. Non si può scrivere, dipingere, scolpire non interessandosi  minimamente di ciò che è stato scritto o di ciò che si sta scrivendo, dipingendo o scolpendo. Ci si deve rendere conto di far parte di una catena, come lo è lo scienziato, e si deve avere il giusto rispetto nei confronti di questo, ben sapendo che dopo di noi verranno altri che tenteranno di dire l’indicibile.

Non esiste più nemmeno la critica, oggi si fa della cronaca! Si raccontano le mostre, si racconta ciò che uno ha dipinto, ma non si entra in ciò che quell’artista ha dipinto. E la stessa cosa si fa per i libri, si fa della cronaca dei libri, dei romanzi si parla della trama così come lo si fa dei film, ma non si cerca di dire qualcosa in più. Sono rimasti pochissimi i veri critici. Anche quello è un ruolo fondamentale che sta venendo a mancare. Più nessuno è in grado di fare critica, oppure i creativi stessi si pongono come critici e, tante volte, questo non è un bene, perché ci dovrebbe essere una critica neutra, una critica esterna al mondo della creatività, una critica che ti sa leggere senza coinvolgimento diretto del proprio ego. La mancanza dei ruoli genera il caos, la piena confusione: troppi mercanti dentro al Tempio! E questo è un grosso rischio se non già una spia, un segnale che, forse, la nostra civiltà, la nostra realtà di ordine culturale, civile, artistico, storico, filosofico stia per  arrivare ad un capolinea e che quello che avevamo da dire lo abbiamo già detto. Saranno poi altri in avanzata che diranno.

Bisogna stare molto attenti! Quel sacerdozio di cui ho parlato implica una riflessione continua, un’analisi continua, un continuo “essere sul pezzo”.

Stai sul pezzo, stai lì! Non ci si può distrarre!

Anche adesso tra me e te stiamo facendo arte e non ci stiamo distraendo e il nostro dialogo diventa una creazione, è un’opera. Questa è opera, in due stiamo dicendo Messa, potremmo essere in dieci, potremmo essere in cento. È importante dare il senso profondo all’opera, altrimenti si rischia il caos. Il sacerdozio nell’arte si misura con la durata, con l’abnegazione, si misura con quello che sei riuscito a fare in vita, ma attenzione! a esprimere con le tue forze e non perché avevi dei padrini, amici o amici degli amici, perché un’altra componente fondamentale è che con l’opera non si bara! Non puoi barare! Se il bluff c’è, prima o poi viene fuori. È un assoluto. Un prete  non può  credere in Dio a corrente alternata! Potrà eventualmente porsi delle domande, ma queste domande non devono mai scalfire la Fede. Dal punto di vista artistico, non ho paura di dirlo, io sono un integralista, un fondamentalista; non si può essere diversamente e, mai come in questo momento storico, bisogna essere inflessibili, rigorosissimi anche con se stessi, partendo da se stessi.

Con l’opera non si bara e mai è consolatoria l’arte! Entriamo nella dimensione esaltante, che è il contrario. L’arte entra nell’esaltazione e l’esaltazione entra nell’estasi di cui si parlava prima. È una dimensione estatica e si sbaglia tremendamente se si pensa che l’arte sia consolatoria, che la poesia sia il lacrimatoio, ma è tutt’altro! L’arte ha in sé un grosso segnale di forza e di coraggio, e l’opera è una dimensione energetica, di grande tensione emozionale. L’opera ti chiama a questo: alla forza, al coraggio, alla tensione, allo stupore…soprattutto allo stupore!  Allo stupirsi di continuo anche di se stessi e di ciò che riescono a toccare altri meritevoli.

Mai è consolatoria l’arte! L’opera ti chiama al coraggio di affrontare il dolore a testa alta, da esseri umani. Il dolore ti può piegare, ti può far inginocchiare, ma la fronte deve rimanere sempre alta, anche in ginocchio. Ho detto prima che di opera si può anche morire però, a questo punto, meglio morire di opera piuttosto che non affrontare se stessi nell’opera e accostarsi all’opera con la lacrima o strisciando. Meglio morire! L’opera non ti vuole così! L’opera ti vuole nella tua verità, ti vuole nella tua completa  sincerità e ti vuole anche nella tua  modestia perché sei arrivato fin dove potevi, però sei degno fin lì. Dignità! Dignità! Il sacerdozio implica una grandissima dignità. Oggi,  invece,  siamo in un mare di mezze figure, per usare un termine caro a Sciascia,  di “quaquaraquà”,  e questo è deleterio per il nostro fare arte e per la nostra civiltà. Io sono convintissimo che l’unica possibilità di incontro tra diverse culture, civiltà e religioni possa avvenire solo riconoscendosi reciprocamente una dignità e la capacità di narrarsi come persone degne. Nel racconto ci può essere l’incontro, nella narrazione di ciò che per noi è sacro (ecco, ritorniamo al sacro) mentre  l’altro ci racconta  ciò che  è sacro per lui e, alla fine, scoprire che il suo sacro ed il nostro sacro collimano. Sono molto junghiano in questo, esiste un io collettivo, siamo tutti parte dello stesso formicaio, mentre  questo mondo tenta di  confondere sempre di più, ed ecco che ritorniamo alla Torre di Babele di cui ho parlato.

L’uomo sta peccando troppo di superbia, è un peccato che stiamo commettendo soprattutto noi occidentali. Tutto si fonda sulla superbia. È il primo peccato; il demonio pecca di superbia. È sempre quello il nocciolo della faccenda: mancanza di umiltà, mancanza di modestia, e mancanza di capacità di capire quando ci si deve inchinare, perché ho detto che si deve restare sempre a testa alta, ma quando c’è da onorare qualcosa o qualcuno bisogna sapersi anche inchinare, questo fa parte della dignità ed anche di  quella componente estetica fondamentale in ogni campo che consente di superare la volgarità e di entrare nella dimensione della bellezza, del buon gusto, dello stile. Viviamo in un mondo che ha perduto lo stile!

Recuperare lo stile è fondamentale, perché ci si possa far riconoscere non solo come scrittore,  come pittore, ma  come essere umano, come appartenente ad una comunità di esseri umani.

Gabriella Grande

 

1  “Il dolore” con disegni di Omar Galliani. Gian Ruggero Manzoni. Ed. All’insegna del pesce d’oro/Scheiwiller, Milano, 1991
2   “Tutto il calore del mondo” con disegni di Mimmo Paladino. Gian Ruggero Manzoni. Ed. Skira,   2013
3   “ESODO secondo Gian Ruggero Manzoni”, Raffaelli Editore, 2010
4     Genesi, 11,1-9
5    Performance poetica di Gian Ruggero Manzoni,  accompagnato da Walter Santoro – sala AxA Palladino Company, Campobasso, 27 ottobre 2012 (al link: https://www.youtube.com/watch?v=Ynvmcvrrfg0 )
 
NOTA BIOGRAFICA E PERCORSO ARTISTICO  DI GIAN RUGGERO MANZONI al link:

http://www.gianruggeromanzoni.it/

BIBLIOGRAFIA DI GIAN RUGGERO MANZONI
Poesia
  • Il mercante di allodole, con serigrafie dell’autore. Ed. Mazzotti, Bagnacavallo, 1981.
  • Filokalia, con disegni di Sergio Monari. Ed. Cervo Volante, Roma, 1983.
  • Le tavole dei reziari, con opere di Sergio Monari. Ed. I Telai del Bernini, Modena, 1983.
  • L’ orizzonte dei baratti, con disegni di Tommaso Cascella. Ed. Cervo Volante, Roma, 1984.
  • La religione del suono, con disegni di Tommaso Cascella. Ed. Le parole gelate, Roma, 1985.
  • Il sicario della Tiade, con disegni di Garouste, Barni, Monari, Bonechi, Galliani. Ed. Cleto Polcina, Roma, 1985.
  • Seth. Ed. Walberti, Lugo di Romagna, 1986.
  • Discorsi Latini. Ed. Premio di Poesia Savignano, Savignano sul Rubicone , 1986.
  • Il tredicesimo mese/Il tempo abbandonato, con disegni di Tommaso Cascella. Ed. Ellequadro, Genova, 1990.
  • Il codice. Ed. Origini/La Scaletta, San Polo d’Enza, 1991.
  • Il dolore, con disegni di Omar Galliani. Ed. All’Insegna del Pesce d’Oro/Scheiwiller, Milano, 1991.
  • Le battane di bronzo, con disegni di Bruno Ceccobelli. Ed. La Stamperia dell’Arancio, Grottammare, 1994.
  • L’ evento. Ed. Moby Dick, Faenza, 1997.
  • Nell’ abbraccio dell’ io, con acquarelli di Luigi Ontani. Ed. Enrico Astuni, Fano, 1998.
  • Il digiuno imposto, con opere di Mimmo Paladino. Ed. Matthes & Seitz Verlag, Monaco di Baviera, 2000, e Ed. Emede, Buenos Aires, 2002.
  • Deserti di quiete, con disegni di Aldo Mondino. Ed. I Quaderni del Circolo degli Artisti, Faenza, 2001.
  • Gli addii. Ed. Moretti & Vitali, Bergamo/Milano, 2003.
  • Resistere fino all’ultimo uomo, con opere di Iller Incerti. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2004.
  • Scritture scelte Volume I e II. Ed. del Bradipo, Lugo di Romagna, 2006.
  • Elogio alla diversità, con opere dell’autore. Ed. Arte Com, Avellino, 2008.
  • Tutto il calore del mondo, con opere di Mimmo Paladino. Ed. Skirà/Rizzoli, 2013.
  • Nel vortice della acque superiori, con opere di Omar Galliani. Ed. Raffaelli, 2015.
Narrativa
  • Gotthold Nysa. Edizioni del Bradipo, Lugo di Romagna, 1989, poi Ed. Feltrinelli, Milano, 1996.
  • L’impresa, con serigrafie di Enzo Cucchi. Ed. Essegi, Ravenna, 1991.
  • Caneserpente. Ed. Il Saggiatore, Milano, 1993.
  • Il Francese. Edizioni del Girasole, Ravenna, 1995.
  • Autoritratti, con opere dell’autore. Ed. Essegi, Ravenna, 1998.
  • Gli sfidanti metafisici, con disegni di Lucio Del Pezzo. Ed. Corraini, Mantova, 1999.
  • Tango Croato, con disegni dell’autore. Ed. Campanotto, Pasian di Prato, 2001.
  • Il Morbo. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2002.
  • La Banda della Croce. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2005.
  • L’albero di Maehwa. Ed. Gruppo Albatros (nella collana da lui diretta), Roma, 2008.
  • Una macchia nel sole. Edizioni del Girasole, Ravenna, 2009.
  • I teatranti perduti. Ed. Gruppo Albatros (nella collana da lui diretta), Roma, 2013.
  • Acufeni. Ed. Guaraldi, Rimini, 2014.
  • La voce. Ed. Carteggi Letterari, Messina, 2016.
Teatro
  • Penteo. Ed. Altri Termini, Napoli, 1987.
  • Cutman (con Raffaele Rago). Ed. Walberti, Lugo di Romagna, 1987.
  • Il sonno di Macbeth (con Nicola Macolino). Edizioni del Bradipo, Lugo di Romagna, 2009.
  • Per colui che è, con disegni dell’autore. Ed. Il Vicolo, Cesena, 2016.
Varie
  • Pesta duro e vai trànquilo/Dizionario del linguaggio giovanile (con Emilio Dalmonte). Ed. Feltrinelli, Milano, 1980.
  • Pelàsgi/I poeti romagnoli in lingua (con Davide Argnani). Ed. Maggioli, Rimini, 1986
  • I manifesti/Gli scritti di un sicario. Ed. Walberti, Lugo di Romagna, 1989.
  • La guerra dei poeti, con opere di Marco Pellizzola. Ed. Essegi, Ravenna, 1992.
  • Peso vero sclero/Dizionario del linguaggio giovanile di fine millennio. Ed. Il Saggiatore, Milano, 1997
  • Piloti, aviatori, cosmonauti, motociclisti, con opere pittoriche dell’autore. Ed. Essegi, Ravenna, 1999.
  • Guerrieri, con opere pittoriche dell’autore. Ed. Essegi, Ravenna, 2000.
  • Teatri per la memoria (con Giosetta Fioroni). Ed. Essegi, Ravenna, 2000.
  • Il giardino dei giusti, un dialogo con Giacinto Cerone. Ed. Essegi, Ravenna, 2001.
  • Oltre il tempo/11 poeti per una Metavanguardia. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2004.
  • Esodo (biblico, traduzione e cura). Ed. Raffaelli, Rimini, 2010.
  • Magie Barbare. Ed. Palladino, Campobasso, 2012.
  • Nuova Vandea (con Adernò, Zanin, Baj). Ed. Officine Ultranovecento, Pordenone, 2013.
  • Briganti, Saracca & Archibugio. Ed. Il Ponte Vecchio, Cesena, 2015.
  • La torre. Ed. Il Ponte Vecchio, Cesena, 2016.
  • Lunga vita al Genius Loci. Ed. I Libri da Bruciare, Modena, 2016.
  • Francesca Alinovi, in suo ricordo (con Antonella Colaninno). Ed. Di Felice, Teramo, 2017.
Mostre pittoriche (le più rappresentative)
  • Del visceralismo. Prov. di Ravenna e Compr. Lughese, mostra itinerante, 1981.
  • Ribelli nella tradizione (con Enrico Calderoni). Sala R. Verde, Faenza, 1982.
  • Dooks (collettiva). Vecchia Dogana del Porto, Marsiglia, 1983.
  • Mito e furia (collettiva). Palazzo del Senato, Milano, 1983.
  • Science verb total et classicisme continuè (collettiva). Gall. Picop e Comunità Europea, Parigi e Bruxelles, 1984.
  • XLI Biennale di Venezia 1984.
  • Faust. Teatro G. Freytag e Case Occupate di Fasanenstrasse. Monaco di Baviera e Berlino, 1985.
  • Apocalisse Identitaria (collettiva). Gall. Cleto Polcina, Roma, 1986.
  • XLII Biennale di Venezia 1986.
  • Waffe. Magazzini del Porto, Amburgo, 1987.
  • Il Principio della libertà (collettiva). Presso le sedi della Fondazione Hirtsch, Boston, New York, Chicago, 1988.
  • GRM – espressione/tradizione/trasgressione. Gall. Gian Ferrari, Milano, 1990.
  • L’Impresa (con Enzo Cucchi). Gall. Modidarte, Ferrara, 1992.
  • Risk ad Atene (collettiva). Rostand Art Center, Atene, 1993.
  • Racconti popolari. Gall. Sumithra, Ravenna, 1993.
  • Bomber. Gall. Michael Werner, Colonia, 1994.
  • Malattia mentale. Saletta Comunale d’Esposizione, Castel San Pietro Terme, 1994.
  • Gian Ruggero Manzoni, opere recenti. Gall. Riposati, Roma,1995.
  • L’evento. Gall. Enrico Astuni, Fano, 1997.
  • Percorsi barbari. Antiche Pescherie, Lugo di Romagna, 1998.
  • Omaggio a GRM. Arte Fiera, Forlì, 1998.
  • Paesaggi Italiani. Gall. Enrico Astuni, Fano, e Tropico del Cancro, Bari, 1999.
  • GRM. Gall. Michael Werner, Colonia, 1999.
  • Guerrieri. Gall. 360°, Montecchio Emilia, 2000.
  • Piloti, aviatori, cosmonauti, motociclisti. Gall. Enrico Astuni, Fano, 2000.
  • Santo manganello-santa falce e martello (con Iller Incerti). Exsalumificio/Gall. Artipici, Modena, 2000.
  • Il patriota esteta. Italian Veterans Association, New York, 2001.
  • Il Giardino dei Semplici. Gall. Gasparelli, Fano, 2001.
  • Il digiuno imposto (con Mimmo Paladino). Museo Nazionale di Buenos Aires, Buenos Aires, 2002.
  • Carte recenti. Emeroteca del Museo del Louvre, Parigi, 2004.
  • Resistere fino all’ultimo uomo (con Iller Incerti). Museo del Senio, Alfonsine, 2005.
  • La capitale dell’Impero (con Roberto Cornacchia). Atelier R. Cornacchia, Lugo di Romagna, 2005.
  • La rabbia dei Santi 1. Spazio 9 Artecontemporanea, Faenza, 2006.
  • La rabbia dei Santi 2. Galleria Exhibition Art, Fano, 2006.
  • Gian Ruggero Manzoni. Zentralbibliothek, Zurigo, 2007.
  • Ciao favole, ciao natura. Palazzo dei Congressi, Jesi, 2007.
  • Miracoli. Palazzo del Commercio-Sale Lino Longhi, Lugo di Romagna. 2008.
  • Elogio alla diversità. Gall. Portfolio, Senigallia, 2008.
  • La sindrome di Icaro (collettiva). Borgo Storico Seghetti Panichi, Castel di Lama, 2008.
  • Appartenere (collettiva). Dimore e Chiese Storiche delle città di Imola, Faenza e Lugo di Romagna, 2008.
  • Io divinità – Opere su carta. Bookshop Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Praga, 2008.
  • Selvatico (collettiva). Palazzo Sforza, Cotignola, 2008.
  • L’ombra della parola. Fondazione Tito Balestra, Longiano, 2008.
  • Di ritorno dalla Bosnia. Galleria Exhibition Art, Fano, 2009.
  • Fango Rumori Zanzare Cookies e Rock in Road. Station Gallery, Tortoreto, 2010.
  • L’Arca di Noè fa il diavolo a quattro (collettiva). Pharmacy Industry Art Venice, Mestre, 2010.
  • Twenty Pounds of Therica. Ex Convento SS.Cosma e Damiano, Venezia, 2011.
  • Fine corso (collettiva). Espace Polychrome. Namur, Belgio, 2011.
  • UBU sotto tutti gli aspetti, Lato & Figurato (collettiva). Palazzina Azzurra. S.Benedetto del Tronto, 2012.
  • Apokalips (collettiva). Grattacielo Pirelli – Palazzo della Region Milano, 2012.
  • Magie Barbare. A x A Palladino Company. Campobasso, 2012.
  • Opere sacre di sabotaggio. Pescherie della Rocca. Lugo di Romagna, 2013.
  • Corrispondenze (collettiva). Loggetta del Trentanove. Faenza, 2014.
  • PescaraArt (collettiva). Loft Box&Office. Pescara, 2014.
  • Pagine ad arte. Biblioteca “Maria Goia”. Cervia, 2014.
  • Gian Ruggero Manzoni. Museo d’Arte Moderna “Vittorio Colonna”. Pescara, 2015.
  • V International Forum – Creative Life (collettiva). Bolognano di Pescara, 2015.
  • Propositum Artis (collettiva itinerante). Ancona, Ascoli Piceno, Gubbio, Macerata, L’Aquila. 2016.
  • Le mutevoli forme. Bottega Gollini Arte Contemporanea, Imola, 2016.
  • Artisti in permanenza (collettiva). Gall. Il Melograno, Livorno, 2016.
  • Artistes Italiens Sur l’Affichage (collettiva). Chambre de Commerce Italianne pour la France, Marsiglia, 2016.
  • Eroi barbari. Galleria Il Vicolo, Cesena, 2016.
  • II Biennale d’Arte della Croazia. Museo Città di Labin, 2016.
  • L’equilibrio del guerriero. Fortezza di Radicofani – Siena, 2016.

 

 

PILLOLE DELL’INTERVISTA A GIAN RUGGERO MANZONI

Aspettando l’intervista integrale a GIAN RUGGERO MANZONI (poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer)  domani 29 settembre 2017, ecco qualche pillola  da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.

L’emozione ineffabile dell’ascolto della voce di un Autore “necessario”.