Archivi tag: amore

DENTRO TUTTE LE COSE C’È AMORE DI PAOLO PARRINI (PUNTOACAPO EDITRICE, 2021)

di Gabriella Grande

Dentro tutte le cose c’è amore? Sì, ma “l’amore ti spezza”1, come ci avvertiva già Philip Roth, “frantuma”, come canta il poeta di Castelfiorentino in questi versi (Puntoacapo Editrice, 2021),  capaci, però, di riconoscere nella vibratilità sottile di ogni passaggio, seppur breve e silenzioso, della vita uno stato gestativo continuo, le possibili e sempre nuove dinamiche riparative e costruttive di una forza che è ciclica rinnovazione dell’origine, in cui la frantumazione è il preludio di una rigenerazione che sottrae all’esito finale.

Capire i rapporti dell’amore con la vita richiede già amore e il coraggio di fare ricorso alla dimensione creatrice della Poesia, perché si renda possibile esprimere un concetto limite così sfuggente, ovvero un concetto il cui confine, “un limitare che attende il perdono”, è superiore alla portata umana e nel quale ci si smarrisce senza il linguaggio della Poesia, questo “dono da meritare prima del silenzio” che eleva la nostra temporalità fino all’orizzonte dell’essere.

Nell’attraversamento dei versi di Paolo Parrini – un caleidoscopio delle voci emozionali più intime – ha riecheggiato nella mia mente quanto dice Fantasio nella pièce di de Musset: “Ognuno porta in sé un mondo2 mentre “la notte annera il giorno”, mentre “muore il […] tempo breve” in cui “gli anni hanno corroso i sogni” “a ricercare parole, quelle ancora non dette tra le mille sprecate”. E lo strumento di conoscenza della poesia parriniana è la malinconia. La malinconia3 di Dürer, la malinconia della serie di Munch4. Una malinconia in cui ci riconosciamo tutti, ancora di più in questo particolare periodo storico, su questa terra che ci appare così “dolorosa e fragile”, per mezzo della quale la sua parola poetica rivela e manifesta l’essenza del nostro tempo povero, in  cui la realtà assume, nei suoi versi, le sembianze del vento che strappa, che frusta, che scuote, che fiacca mentre irrigidisce il pensiero  in cui ci sono  ferite che restano irraggiunte, come quelle di giovani vite perse ancora prima di cominciare (“Ragazzi di pineta”) o interrotte  (“Non so se fu una corda”) quando “morire è cosa leggera quando si spegne il sole in un sorriso stanco”. Spetta alla poesia dare voce a queste ferite. Prendendo in prestito le parole di Deleuze, spetta al poeta “andare nei luoghi estremi, alle ore estreme, dove vivono e si levano le verità alte più profonde.” 5

Cantare una ferita equivale a sanarla, ad accogliere l’amore che ne era rimasto sommerso perché inascoltato (“il fiato sui vetri copre le ferite”), restituendogli pace e perdono nella notte che, per il poeta Parrini, viviamo tutti e che altro non è se non un “attimo sospeso tra il nulla e il ritorno”, dimensione dell’esistenza scissa tra due possibilità reattive con opposte volontà di potenza. E in questa notte il “buio […] accoglie l’occhio nudo”, ovvero ci accoglie nudi, esposti, senza riparo, inducendoci, di conseguenza,  ad un difetto di visione della fine e del senso delle cose.

Nel greco antico, “oida” (οἶδα), il tempo perfetto del verbo greco “orao” (ὁράω, che significa “io vedo”)viene impiegato per esprimere, nel presente, il risultato di un’azione avvenuta nel passato; “oida” quindi significa “io so perché ho visto“. L’azione della visione nel passato rende possibile la conoscenza nel presente. Ma Parrini canta la difficoltà della visione e, di conseguenza, l’impossibilità della conoscenza del senso delle cose e, per questo, “morremo senza sapere”. Ma la morte non è l’ultima parola del poeta. In questa notte “ogni volta morire, poi rinascere”, in questo eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, risolvendo ciclicamente il dramma dell’oggettivazione del nulla nel ritorno.  L’amore è dunque una forza liberatrice, affermatrice. Forza attiva e reattiva che “frantuma” (e “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”) imponendo la sua valenza e dominando quanto gli si oppone, affermandone l’essenza, affinché “sia luce e risa. Sia la vita”.

Mentre la natura (simbolo dell’eterno rinnovamento, della rigenerazione) protegge il senso (“è un albero a rammentarti il sole”) “siamo vivi dentro questo dolore che ci tiene svegli e ci costringe a non morire”, “persi nel vuoto”, un vuoto non concepito come assenza, ma come spazio potenzialmente attivo, in cui si avvicenda un processo continuo di alternanza di creazione e annichilimento e in cui la felicità “ci appare a tratti. Lampeggia. Come un faro nel buio”.

Perdonaci Dio” recita un verso di Parrini, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Ma, come canta l’inno a Patmos di Hölderlin : “Dio è vicino, ma non si lascia afferrare” e, nel frattempo, “la pelle è un ramo sconfitto”. Verso in cui c’è tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade. L’immagine sembra rimandare alla matematica dei rami, teoria sostenuta da Leonardo e poi dimostrata scientificamente, secondo la quale la disposizione dei rami sugli alberi non è casuale, ma segue regole matematiche, per adattarsi meglio a resistere alla violenza del vento ed evitare la rottura dei rami. Nella poesia di Parrini il vento è metafora della vita e la pelle “è un ramo sconfitto” dalla violenza di questo vento di solitudine e di abissi incolmabili in cui il poeta confessa: “non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi”, riprendendo il tema della visione compromessa dal buio in cui abitiamo e che, spesso, diventa anche non coincidente con l’altro con cui ci interfacciamo, per una vita o per pochi attimi. E la non coincidenza dello sguardo neutralizza l’esperienza dell’altro e ci conserva nella nostra fragilità, perché guardare l’altro dà la possibilità di conquistare un potere che è autenticamente umano, ovvero non il potere sull’altro, ma il potere con l’altro, che rende più umani. Per questo, il poeta suggerisce: “molto amammo. Molto non sapemmo farlo, ma adesso è tempo ancora dello sguardo”, senza temere il vuoto in cui ognuno di noi è perso, la tempesta che il singolo attraversa e in cui “inesausto batte il cuore, s’infrange sullo sterno e sul costato.” Il vuoto diventa un alleato per il poeta, perché lo rende disponibile all’evento parola, non più povera, ma presenza reale intersoggettiva, nutrimento, pane. E il pane, ci ricorda Parrini, “è un pezzo di vento impigliato dentro il grano”, verso che considero centrale della poetica parriniana.

Il grano, questo seme di nutrimento generato dall’amore che è in tutte le cose e nell’evento parola, trattiene il “vento”, ovvero la realtà e la ferocia, l’incomprensibilità di alcune sue manifestazioni e ne genera un impasto che, purificato dal dolore, diventa “pane”, possibilità di far crescere dentro di noi quello che mai si esaurisce, apertura all’esperienza dell’essere che può manifestarsi in una pacificante luce nel buio: “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”. L’amore, quindi, nell’alternanza tra il nulla e il ritorno, non solo stabilisce il carattere selettivo del ritorno, ma diventa lievito e predispone al miracolo: “Tu vedi ombre che inseguono il sole, eppure è già notte stanotte”. Tu, caro lettore, che attraverserai la poesia di Parrini, “fallo con dolcezza. Smorza il grido, resta come neve bianca” e, forse, come me, ti sorprenderai a ritrovarti in “La notte stellata sul Rodano” di Van Gogh6, in cui una coppia di innamorati svela il segreto della vita: “ogni uomo è amore se lascia scorrere le sere buie in un immenso oceano”.

“Tremo se penso che potremmo  perderci così, senza aver stretto le mani”. “Saremo l’amore che abbiamo lasciato”.

Gabriella Grande

Dentro tutte le cose c’è amore – Paolo Parrini | puntoacapo (puntoacapo-editrice.com)

Non ci siamo persi mai,

la vita che non vivemmo è tutta qui, in queste mani segnate,

nelle rughe all’angolo della bocca

nei piedi feriti dai vetri lungo il cammino.

Non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi.

Paolo Parrini

1  Philip Roth, “L’animale morente”, Einaudi, 2013

2 A. de Musset. “”Fantasio” in Théâtre complet a cura di S. Jeine, Gallimard, Paris 1990, p. 109

3 Melancholia I. 1514. Incisione di Albrecht Dürer, dal trittico Meisterstiche

4 Malankoli è una serie realizzata dal pittore norvegese Edvard Munch e composta da 5 tele (1891-1896) e due xilografie (1897-1902)

5 G. Deleuze, “Nietzsche e la filosofia”, Coportage, Firenze, 1978, p. 160

6 Van Gogh, “La notte stellata sul Rodano”. 1888, Musée d’Orsay di Parigi

Pubblicità

FINO A PERDERSI

Come ci si salva da questo orrore?

È tua la ragione da quella sera:

amare senza innamorarsi,

riempirsi

senza occupare il vuoto

che ci tiene alta la testa.

Ci si tinge fino a perdersi

nel fango

e la traiettoria è sempre uguale.

Scompariremo in un orgasmo

colpevoli di essere scampati

al suicidio perfetto

dell’amore.

Gabriella Grande©, 2016  Riproduzione riservata

(Antologia  “Amori liquidi – Sogni, sentimenti e fragilità delle donne”, edit@, 2017)

ph-mrs-white-pioneers-in-aviation
Ph: Mrs White – Pioneers in aviation

AMARE NON BASTA

Non basta amare, bisogna anche avere la “presenza mentale” per amare. Si deve saper rimanere presenti a se stessi in quel “noi”.

Se si perde il controllo non si può amare davvero, perché l’amore vero è la sublimazione del controllo, è sapere perché lo fai.

È “grande amore” quando si ama con la testa sulle spalle, non quando la si perde, perché in quest’ultimo caso non c’è limite agli errori che si possono fare.

L’amore sarà tanto più vero e forte se si esprimerà nella piena libertà e nel pieno possesso del nostro essere.

Gabriella Grande©

Arnold Schönberg, Oskar Kokoschka in memoriam (1910).jpg
Arnold Schönberg, Oskar Kokoschka in memoriam (1910)

Cara Jeanne…

 

Parigi, 18 gennaio 1920

 

Jeanne, mia Jeanne, mia, mia, mia Jeanne,
se avessi un solo giorno ancora per dirti che ti amo, in assenza di grazia, mi coglieresti in flagranza di reato. Non ruberei parole nel fiume in piena delle cose, non raschierei fino alla conoscenza le radure del pensiero, non immergerei la mia lingua negli umori del mondo, perché l’inquietudine vestirebbe a fatica la mia necessità di arrivare a te con le mie ultime parole, scioglierebbe stirpi di strutture nervose per condurmi al disastro della smania di un’ ultima frase, di un ultimo verso, il conclusivo, unico, necessario frammento di un amore detto sempre male. Ho parole che si dissolvono ora, sulle ginocchia della pietà di questo disordine mortale che guarda alla tua rocciosa immanenza nel mio cuore come ad un simulacro.
No, non voglio sbagliare.
Non ti coprirei che di parole in agonia, di una delirante faida di parole in lotta contro questo giorno, l’ultimo per noi. Se avessi un solo giorno ancora per dirti che ti amo, ti lascerei il mio silenzio, invece.
In esso, amore, vedresti nascere la morte delle mie parole per te.
Sarebbe il segno della resa ad un dialogo più naturale, il solo in cui abbiamo parlato più profondamente, più intimamente io e te. Crollerebbero le montagne di parole in questa necessità di prosa della fine. E del mio silenzio tu sapresti cosa farne: pianura di tenerezza, di speranza, di consolazione. Ti lascerei – vedi? – in eredità un posto. Non più parole, ma un posto, in cui abitare, senza dover avere più alcuna paura di cadere.
Sarà il silenzio la mia ultima parola per te, amore.

Tuo, Amedeo

(Gabriella Grande© Riproduzione riservata)

Ciao…

Ciao,

il senso della tua richiesta nel tuo strano messaggio non l’ ho capito – o è quello che preferisco  pensare perché non conosco altro modo per assolverti –  e all’appuntamento a cui mi hai chiesto di venire  vedrai arrivare solo questa lettera. In quale modalità non l’ho ancora deciso, ma poco importa.

Rivedersi? Perché?

Come la sapete lunga tu e la morte dell’amore che, eclissati, volete istupidirmi e dite: “Se è finita, allora, vieni. Salutiamo il ricordo”. Lo fate per saccheggiarmi, ma devo deludervi, di voi, con me, non ho più niente. Anzi, adesso che ci penso, come il distacco è più forte nel ricordo!  L’Ho  vissuto  meno nel momento in cui te ne sei andato. In quel momento c’ero io da salvare, da portare via da quel dolore.  Poi, quando sono stata al sicuro –  o mi è sembrato di esserlo – è arrivato il tuo messaggio  a ricordarmi di te. Ma nel momento in cui ti ho ricordato, costretta dalla tua intrusione non voluta,  proprio allora ti ho perso davvero. Proprio lì, in quello spazio del ricordo che mi hai aperto, ti ho salutato come non sono riuscita a fare prima, come non avrei mai potuto fare prima, senza  rischiare di stazionare ancora e pericolosamente in quella coltre in cui a vedersi erano solo gli addii.

Rivedersi quindi non è una buona idea. E forse non lo è neanche rispondere alla tua richiesta con questa lettera, ma devo restituirti quello che ero con te e che non sono più. Ho un fossile da smaltire che ho tenuto in groppa come il mostro di Baudelaire. È come una cantina di dolore sfinito che picchiettava di continuo sulla mia spalla, come  ciondoli anneriti di un bracciale da poco.

Sei perso chissà dove ora in me e questo foglio è una cabina da cui ti chiamo, come da un’isola di spavento in cui, nel cuore  e nella carne, mi imprigiona solo il tempo di questa lettera, prima dell’estrusione completa dall’intero che sono ritornata ad essere dopo di te.

Rileggo il tuo messaggio, ma vedo solo consonanti caricate come ombre sul display. Ormai ti sta fasciando l’ombra fino ad inghiottirti e le lettere su questo foglio si accavallano, turbinano sulla raffica d’aria dell’ultima interiore agitazione che, mentre scrivo, si è già spenta. E la penna si muove a ritmo di un applauso, come quando il sipario si chiude sull’ultima battuta.

Ci si deve rivedere solo se si ha voglia di tornare. Invece, sarà solo qui, tra questi fogli, che ti incontrerò per l’ultima volta, per non mancare l’appuntamento senza, però,  scoperchiare una tomba  su cui nessuno dovrà avere cura di portare i fiori.

Non cercarmi più. Dimentichiamoci qui, tra questi fogli.

Veronica

(Gabriella Grande© Riproduzione riservata)

 

È QUASI L’ORA DI VIVERE

 

Ti ho visto

in sella al tuo delirio d’amore

inseguire il fantasma di un addio

per riabilitarne il cuore    alla fine della corsa.

Come lo zoccolo s’impasta di acqua e fango

ad ostacolo vinto e perduto!

Sarà uno strappo

in cui ti infilerai come un ladro

a riprenderti il tuo posto in quell’unica casa

che non fu

mai

compiutamente tua.

E, forse per questo,

l’unica

a cui hai scelto di appartenere

come un figlio disperso

come un cane

lasciato sul ciglio della strada a dimenticarti.

Sto a guardarti,

mentre non vivo e neanche tu,

e ti lastrico di specchi le parole.

Catturato il sole, hanno l’ordine

di tenerti caldo

fino al

salto

che farai,

che nessuno  potrà impedirti di fare.

 

E se,

in quel cuore

scoprissi del civico sbagliato

se ti affacciassi a quel fuoco e lo trovassi             cenere

se il frigo fosse                                 vuoto

ed il camino occupato

se il cielo fosse fi__lo

e la credenza

 

un abisso

vestiresti ancora quelle pareti della tua Ultima Poesia.

Ma prima,

infila una mano nella tasca,

la destra, non ti sbagliare.

C’è una bustina del tè.

Ho comprato le madeleine

ed è quasi  l’ora

qui da me.

 

Gabriella Grande©, 2016  Riproduzione riservata

oleg-oprisco-2-grande
Ph: Oleg Oprisco

BRUCIA LA MIA PENA

ph-violetta-jenn
Ph: Violetta Jenn

Non hai neanche provato

ad amarmi.

Mi tiene alta un lampione

mentre sputa

le lacrime che non userai

come polvere di fiori e stelle.

Ma niente è vero,

neanche questo silenzio

in cui brucia

la mia pena.

Inseguo la tua ombra

e dimentico di contare i passi.

Non conoscerò mai

il tempo del tuo andare.

Se era uguale al mio

o su quale battuta

l’avrei potuto recuperare.

Ha vinto la geometria

e l’algebra è sola

e non mi renderà il conto

neanche con un ricatto.

Seguo allora i passi di un cane,

ma si ferma in una Chiesa

e lì si acquatta

e va a dormire.

Che me ne faccio del qui pro quo

quando un “per” ed un “diviso”

mi avrebbero potuta salvare?

 

Gabriella Grande©, 2016  Riproduzione riservata

 

PIOVE SU TUTTO STANOTTE

pioggia

Piove su tutto

stanotte,

ma niente si bagna come me,

stanotte.

Ho un cuore malato

che non è stanco d’amare

e dove va s’offre

come se non ci fosse domani,

come se non ci fossero muri

su cui schiantarsi.

E la pena è il rifiuto

e la vergogna

di aver amato uno sconosciuto

che mai avrebbe potuto essere

più lontano.

Il fiato si spreca

in questo spazio di preghiera

svuotato dei baci

che credevo miei e

che, invece, davi al vento.

La pioggia è un pianto

stanotte

e tu resti solo

come un’ombra

che il sogno porta via

prima del mattino.

Sapessi come si espande

il tuo profumo

mentre mi dimentichi.

Si accende una luce.

No,

è di nuovo spenta

e mi spengo anch’io,

come il mio ultimo bacio

che vado a seppellire

nel tuo silenzio.

 

Gabriella Grande, 2016  © Riproduzione riservata

UN “SUBLIME” RESISTE

katia-chausheva

Un “sublime” resiste

al difficile senso dell’amore.

Ma si abbandona stanco

sui miei fianchi

quando arriva la sera

con il carico delle sue amarezze.

Lo lascio lì a riposare

finché non mi addormento anch’io.

C’è pace nel restare così

a scambiarci la notte.

 

Gabriella Grande, 2016  © Riproduzione riservata

Ph: Katia Chausheva