ATHOS FACCINCANI E I COLORI DELLE CASE DELLA SUA ANIMA FIORITA

Imperdibile la mostra personale del maestro Athos Faccincani aperta dal 22 al 30 novembre alla Galleria comunale del Castello Aragonese, a Taranto. Un “percorso” tra oltre 20 oli su tela che vi condurrà in una dimensione sospesa nella quale si ha quasi l’impressione che il tempo per qualche istante si fermi: ci abbandoniamo allora ad un’ attesa quieta, ricettiva, ed accogliente come i petali di quei fiori che Faccincani ama così tanto rappresentare. Nei suoi dipinti spesso si perdono le distanze tra l’immaginazione e la realtà: le esperienze vissute e interiorizzate nella memoria, vengono poi ricreate attraverso una pittura che usa il pennello per vibrare pulsazioni di luce pura, sotto i cui impulsi sembra colorarsi anche l’oscurità. Inseguendo le immagini dei sogni, o la felicità nelle sue diverse sfumature, la ricerca artistica di Faccincani trascende ogni malinconia, e dall’aspra voce del nostro tempo fa scaturire un canto di quiete in cui sembra celarsi questa richiesta: “Impara a guardare nella luce ciò che guardi. Io l’ho fatto anche per te”. Nei suoi dipinti, prima ancora dei contorni e delle forme, ci raggiungono i colori della sua “tavolozza solare”, i cui elementi immancabili sono i blu, i gialli, i rossi, e i vermigli. Faccincani satura il tessuto della tela con pennellate dense, fitte, vibranti di un tripudio di colori rispettosi ma non sottomessi all’egida del disegno. Certe sue pennellate minute sembrerebbero quasi dettate dall’esigenza di ricordare che anche la più piccola cosa è importante nello spazio vitale della tela. Su tutto, in questo spazio, splende il sole, che con le sue limature di luce definisce e vivifica i contorni, permeando di sé ogni forma che appare. I fiori sono elementi dominanti e prediletti in Faccincani: non sono un elemento puramente decorativo, ma sono una presenza attiva, sembrano i latori di un qualche messaggio da codificare. Ad esempio, in “Verso Positano un sogno di papaveri” e in “Da uno splendido giardino Positano e luce”, i fiori appaiono come un sipario che si apre per invitarci ad entrare nel quadro, e sono un richiamo gioioso a “vedere”, suggerendo la strada che gli occhi devono seguire. Anche il mare è una presenza significativa: non un mare statico, ma “festoso” (come quando il vento ne increspa le onde in “Città dei due Mari tra luce e poesia” ). Il mare riceve e riflette la luce, le sue acque sono quasi uno specchio ipnotico, sotto cui si intravvede un fondo invitante e mai inquietante, scintilla che accende il nostro desiderio di vedere ciò che c’è oltre. Spesso, in quel mare si ripete il motivo delle barche, ormeggiate o in movimento, come tavolozze colorate impegnate nei passi leggeri di una danza delicata. Gonfie le vele, il cui riflesso nell’acqua, a distanza, le fa apparire quasi gabbiani in volo (come in “L’ulivo e la fantasia dei papaveri”): attraverso di essi il pensiero dell’artista sembra oscillare tra l’aperto dell’orizzonte sullo sfondo, e il rassicurante rifugio delle case in primo piano. Proprio le case sono l’altro elemento costante e significativo della pittura di Faccincani: nelle case da lui dipinte si ha l’impressione di percepire il respiro della gente che le abita, uomini e donne, bambini e adulti la cui presenza possiamo però solo indovinare perché in realtà nei suoi paesaggi l’artista non dipinge quasi mai persone: eppure, esse in qualche modo si “sentono”. Infatti, attraverso il “sussurro del colore”, Faccincani riesce magicamente a farci sentire anche quello che non rappresenta. Dipinge paesini e città che si dispongono in una coreografia che dilata lo spazio: siamo tutti invitati a “camminare” insieme a lui nel quadro. A questo invito ne segue un altro: “viverlo”, diventarne in qualche modo parte, perché lo scenario rappresentato attende proprio noi per essere abitato. Forse è per questo che l’artista ha dipinto sedie a sdraio vuote (come in “Angolo di luce e poesia”) e tavoli che sembrano lì pronti ad accogliere qualcuno (come in “Sognando di noi a Santorini”). Tutto è sospeso, nell’attesa che venga accolto l’invito a condividere un momento di felicità che non si perde, che resta cristallizzato sulla tela in attesa di essere riconosciuto. Se visiterete questa mostra di Faccincani non ne resterete delusi: tra i colori delle case della sua anima fiorita, vorticherà il cuore verso l’alto, in una tensione di stupore e meraviglia, come il volo dei colombi in “Poesia a Venezia fra luce e riflessi e i piccioni di sempre”.

Gabriella Grande © Riproduzione riservata

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Personale di pittura di Athos Faccincani, Galleria Comunale del Castello Aragonese, 22-30/11/2014
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NEL CAFFÈ DELLA GIOVENTÙ PERDUTA – PATRICK MODIANO

“Viviamo in balia di alcuni silenzi”: è questa la sensazione che ci coglie in questo romanzo in cui Modiano ci immerge tra le vie della Parigi dei primi anni ’60. Cinque capitoli in cui si susseguono 4 voci narranti nel tentativo di ricostruire la storia di una donna di 22 anni, costantemente in fuga, e che di sé dice:

“non ero veramente me stessa se non nel momento in cui fuggivo”.

La chiamano Louki, questa fuggitiva protagonista del romanzo, figlia di un padre ignoto e di una madre, ormai morta, che aveva lavorato come maschera al Moulin Rouge: tra loro due un’incomunicabilità interrotta solo in occasione di qualche contatto fugace e maldestro. In fuga dal suo passato e dal suo matrimonio, questa donna “piena di fascino”, ma dal profilo vago e confuso, appare come un fantasma evanescente al confronto della Parigi iperrealistica descritta dall’autore con ossessiva precisione topografica. Prendendo le distanze da ogni cosa, Louki resta fedele solo alla sua passività, al “suo posto, giù nell’angolo”, senza il coraggio e la reale volontà di affacciarsi alla “vera vita” cui aspira. La insegue sempre, ma quella vera vita è altrove o al di là, è un “orizzonte perduto” che si dà solo tra le pagine di libri impregnati di misticismo. Unico punto fermo è il caffè Le Condé, dove Louki si rifugia, mimetizzandosi tra scrittori, pseudoartisti e studenti universitari, che vivono al presente, senza progetti, secondo la regola di vita dei cosiddetti “situazionisti”. Potremo seguire all’infinito il racconto dello studente di ingegneria di cui non conosceremo il nome, di Roland, aspirante scrittore e amante di Louki, o di Pierre Caisley, l’investigatore ingaggiato dal marito per ritrovarla, ma sarà solo un’illusione quella di avanzare nella comprensione delle loro vite: esse abitano un vuoto di cui non resterà altro che qualche fotografia, un numero di telefono, e alcuni indirizzi.

Ci si inerpichi pure tra le pagine in cerca di risposte… La prima tra tutte: ma chi è veramente Jacqueline Choureau, nata Delanque, poi ribattezzata Louki dagli habitué del caffè Le Condé? Ne ricaveremo solo silenzi, paure ed ombre. Nel suo continuo vagabondare verso la deriva, Louki appare sempre più vulnerabile, impenetrabile, solitaria, evanescente. Impossibile accoglierla: ella resiste ad ogni rivelazione, arranca tra “paradisi artificiali”, s’impaluda con Roland in hotel di passaggio, attraversa “zone neutre” di Parigi, sporgendosi ogni giorno di più sul ciglio del nulla, fino all’epilogo drammatico in un giorno di novembre, in cui Louki sceglierà di uscire per sempre dalla scena del mondo.

Modiano è solo cronista della crisi del nostro tempo: ne registra fedelmente i sintomi, ma non offre soluzioni. Anche la sua è un’“arte della fuga”, fuga forse anche dalla letteratura, attraverso l’uso di un linguaggio scarno che affida le sue capacità significanti alla secca descrizione di azioni prosciugate dall’emozione. È quasi l’approdo ad una nuova forma di fotografia: un inchiostro fotografico, che può solo testimoniare la realtà dei fatti, escludendo la profondità dell’animo. A Modiano sembra basti “cercare di salvare dall’oblio”, convinto come la poetessa Daria Menicanti che “muoiono veramente quelli solo/ che vai dimenticando”. Forse! Intanto, sotto un cielo che “è come una tenda strappata di un povero circo”, se ti lasci andare, il nulla ti inghiotte nel caffè della gioventù SCONFITTA. “Nel caffè della gioventù perduta” è un romanzo desertico; proverete arsura.

Gabriella Grande  © Riproduzione riservata

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DORA BRUDER – PATRICK MODIANO

Viene buio presto” ci avverte il Premio Nobel per la Letteratura 2014, Patrick Modiano, la cui scrittura è un vero e proprio atto di resistenza a qualsiasi forma di oblio, in questo romanzo in cui lancia appelli “ai margini della notte”, segnali di luce emanati dalle parole per sciogliere quel grumo di ignoto e di silenzio in cui si sono perse le tracce di “una ragazza di 15 anni, Dora Bruder, m 1,55, volto ovale, occhi castano-grigi, cappotto sportivo grigio, pullover bordeaux, gonna e cappello blu marina, scarpe sportive color marrone. Inviare eventuali informazioni ai coniugi Bruder boulevard Ornano 41, Parigi”.
Da questo annuncio nella rubrica intitolata “Da ieri a oggi” di un vecchio numero di Paris-Soir del 1941, e letto da Modiano quasi 50 anni dopo, prende avvio il suo faticoso atto di investigazione privata per raccogliere le tracce residue di Dora, un’adolescente ebraica di origine francese in fuga nella Parigi dell’Occupazione, forse con l’illusione di sfuggire ad Auschwitz.

L’estrema precisione dei dettagli di quell’annuncio ossessiona l’autore, attratto dai vuoti di questa storia come da un campo magnetico il cui orlo irradia una solitudine che è un richiamo, un appello. Ben poco, però, sapremo di Dora, anche al termine di questa lunga indagine durata 8 anni e dominata dalla “vertigine” di un’inquietudine che scuote nel profondo, la fatica di un pensare che si interroga senza sosta, pur consapevole del rischio ogni volta in agguato di una mancanza di risposte e di una ricerca senza ricompense.

Patrick Modiano cerca indizi, i più lontani nel tempo, effettuando ricerche in uffici, tra documenti personali, lettere, testimonianze, registri di polizia e archivi, ma dopo anni raccoglie solo lacunose ricostruzioni. Viene a conoscenza di date, trasferimenti, domicili a cui tuttavia non corrispondono più i luoghi in cui lei ha vissuto. La narrazione non presenta una struttura lineare ma si dispiega simultaneamente su diversi piani temporali.

Dimensione storica, episodi autobiografici e riferimenti intertestuali si intrecciano. L’effetto è quello di una narrazione frammentata, un’artificiosa dispersione che è essa stessa ancora una fuga, quella dell’autore, da ogni pretesa di irrigidimento del testo in categorie definite.

Del dossier documentario sviluppato nel romanzo fanno parte anche alcune foto di Dora e della sua famiglia: Modiano non le inserisce nel testo ma preferisce restituirle fin nel dettaglio attraverso una descrizione minuziosa, come se solo le parole potessero ridare dignità a quei corpi prima annientati come esseri umani, trasformati in “Stücke” (pezzi), e poi svaniti come ombre nel fumo dei forni crematori.

Se scorrerete queste pagine cercando di sapere “chi era” Dora Bruder nella sua essenza, resterete delusi. Vi sembrerà di essere stati vittime di un inganno dell’autore, vi parrà che invece di colmare un vuoto, egli lo abbia disegnato ancora più nitidamente e giudicherete questa ossessiva ricerca, vana e sterile. Ma non è così. Modiano ci offre molto altro: riconosce e restituisce una presenza, dimostra e attesta che Dora “è stata” un essere umano, con la sua identità, dignità, umanità e con un suo segreto, “povero e prezioso segreto”, che resterà per sempre silenzioso, inattingibile.
Di lei non conosceremo che il suo passaggio, intriso di “mesta tenerezza”, cosicché sembra scritto per lei il verso di Baudelaire: “Un lampo, poi la notte! – Bellezza fuggitiva” e il vuoto che lascia è ancora e di nuovo “vertigine”.

Gabriella Grande © Riproduzione riservata

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LA SIGNORINA ELSE – ARTHUR SCHNITZLER

È rosso il maglione che “veste” Else quando la incontriamo nelle prime pagine di questa famosa novella, La signorina Else, di Arthur Schnitzler: forse è un primo, destinale indizio dello schiacciante senso di colpa e di vergogna che poi la indurrà audacemente a “spogliarsi” di tutto, finanche della propria vita.

Else sceglie la morte, e così lascia interrotto il proprio monologante rovello interiore, un denso flusso di coscienza che, nello spazio di un solo giorno, trascina sogni, speranze ed illusioni verso il baratro del nulla. Else, 19 anni, bellissima, ma “tutta sola, così terribilmente sola, come nessuno può immaginare”; sconosciuta anche a se stessa, cerca in qualche modo di darsi forma e sostanza “leggendosi” attraverso gli occhi degli altri.

Di lei ci vien detto che è altera, misteriosa, demoniaca, seducente: emana una sorta di malia di cui però è del tutto inconsapevole. Nella sua giovane vita non mancano germogli di possibilità che, tuttavia, nel bel mezzo di una spensierata vacanza, verranno di colpo raggelati da una lettera della madre. Costei avanza alla figlia una proposta avvilente, umiliante: per evitare che il padre, noto avvocato, venga arrestato a seguito di una vicenda in cui è implicato, sarebbe necessario reperire una ingente somma di denaro da un ricco amico di famiglia, il mercante d’arte Dorsday, il quale è pronto a sborsare l’intera somma, a fronte di una particolare, quanto oscena, richiesta: Else si dovrà mostrare a lui totalmente nuda.

“Da lei non pretendo altro che di poter restare un quarto d’ora in ammirata contemplazione della sua bellezza”

E’ il laido ricatto del signor Dorsday. Else affonda allora nelle sabbie mobili della colpa e della vergogna. Nel tentativo di resistere, mente a se stessa, fino all’autoinganno, ma la presa di distanza difensiva dalla realtà è nient’altro che un buco nero apertosi nella coscienza, nel quale tutto precipita. Questa profonda lacerazione è innescata dall’evento choc, certo, ma essa ha anche preso lentamente forma nel corso dell’esistenza scialba e opaca che Else ha vissuto.

Nella prigione asfittica della solitudine e della incomunicabilità, senza nessuna possibilità di intimo confronto con l’altro, Else si è lasciata abbacinare dall’oscurità delle parole e delle esperienze non vissute: con questi brandelli di tessuto ha coperto, ma non vestito, la sua identità; orpelli deformanti l’hanno costretta a pensarsi e a costruirsi non dall’interno, ma dal di fuori, attraverso le superfici vuote degli sguardi e delle parole altrui, in cui lei ha cercato, come in uno specchio, un riflesso della propria immagine. Adesso sarà proprio questa immagine di sé quale lei vede rispecchiata negli occhi degli altri (“la figlia del truffatore”, “la mendicante”, “senza nessun talento”, ”la sgualdrina”, “la meschina”, “la vigliacca”) a darle il tormento e a consumarla.

Le speranze deluse, il grave senso di smarrimento, un’inquietudine che non trova pace, la solitudine sempre al proprio fianco, sono il corteo prodromico di quella morte che, alla fine, Else assumerà su di sé come estrema possibilità di vita. Una morte che lei sceglie come compagna, lasciandosi quasi dolcemente prendere per mano da essa, una morte di pietà, morte di pudore, che scioglie “da tutte le creature e da ogni tristezza”, come recita Quasimodo. Una dose letale di Veronal libererà in volo le ultime percezioni di Else, che abbandona quasi in estasi il deserto della sua vita.
E mentre “vola”, … è bella Else! Bellissima.

Gabriella Grande © Riproduzione riservata

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