Non so voi, ma quando io ho un libro di poesia tra le mani e il cuore, trattengo negli occhi il titolo per tutta la durata della prima lettura del testo, per cercare di agganciare con ago e filo invisibili le maglie della “rete” che tiene insieme tutte le parole e il senso, e quel filo diventa poi per me, nelle letture successive, l’impalcatura su cui lascio asciugare le parole che, in poesia, trasudano sempre mentre si “compiono”.
Ma, questa volta, il Poeta spiazza e il titolo diventa veicolo che trasporta il lettore verso una direzione che comprenderà solo alla fine di questo viaggio poetico che si compie in una “terra” tesa tra il titolo dell’opera e l’ultima poesia che, collocata strategicamente tra l’indice e il colophon (che chiude l’opera in ultima pagina), svela dove il cammino poetico approda temporaneamente, proprio dove ha avuto inizio, dove ha sempre inizio: prima della voce.
Il titolo trattiene l’essenza dell’opera e ne svela l’origine, aprendo al lettore una porta sulla “stanza segreta” dove tutto prende forma, su quel “non luogo” pre-verbale dal suono pieno, che non passa attraverso un contenuto semantico, ma attraverso un aspetto sensoriale che anticipa la nascita della parola poetica che è, di fatto, quell’esitazione prolungata tra suono e senso secondo la definizione a me tanto cara di Paul Valery.
Il poeta Parrini accompagna con grande maestria in un percorso circolare che ha approdo nel punto di inizio dove “l’emozione sale a cercare il fiore incolto” che sboccia dai semi di una percezione ancora informe, nuova o sovrapposta. E ricorda al lettore che, in poesia, si parte sempre “per tornare a casa”, facendo riecheggiare, in questa esperienza di circolarità del percorso poetico, nel ripetersi del ritorno dalla forma pre-verbale (punto di partenza della poesia) al linguaggio poietico, le parole di T.S. Elliott: “e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il luogo per la prima volta […] dove l’ultima terra da conoscere sia quella che era il principio”.
Parrini introduce il lettore ai suoi versi con la complicità della fotografia di Michela Goretti (che lavora sul piano dell’articolazione inconscia della realtà), dialogando con lo scatto dell’artista non solo in copertina, ma ritornando a intercettare la sua proposta di “luoghi dell’inconscio” anche nella seconda e nella terza di copertina, in cui si “compie” il senso dei primi versi parriniani che il lettore incontrerà in questo viaggio e con cui traduce le tappe del percorso trasformativo reso possibile dalla poesia.
Michela Goretti. I luoghi dell’inconscio. Michela Goretti. I luoghi dell’inconscioMichela Goretti. I luoghi dell’inconscio
Dal punto di vista simbolico-figurativo, lo specchio trattenuto tra le mani che, in copertina, riflette “la pace degli alberi” (raccontata dal primo verso a pag. 13) pur nel loro intricarsi, colloca il soggetto nel luogo della creatività, rappresentato dalle radici tanto vicine al corpo. La donna dallo sguardo ingabbiato nella seconda di copertina racconta “La terra (ovvero il somatico) che aspetta dietro un cancello stretto (rimandando all’impossibilità di rappresentare, all’incapacità di comprendere alcune sensazioni)” (p.13). La mente è imprigionata mentre la memoria del corpo è libera di sentire e di registrare il vissuto. La poesia ha il potere di liberare il sé corporeo (la mente più arcaica); ha il potere di liberare dalla gabbia della non rappresentabilità. Infine, l’immagine della donna che copre il volto con un mazzo di fiori trattenuto tra le mani in terza di copertina sussurra il verso: “sulla via camminata in mille ore/ il sunto d’un dolore/ poi il mandorlo fiorito là” (p.13). Da un punto di vista simbolico, i fiori (che sembrano avere radici nel corpo, nella memoria ancestrale del soggetto fotografato come del poeta) rappresentano il lavoro trasformativo della poesia proprio su quella “terra che aspetta”.
L’attesa, che ritorna più volte nella poesia del Parrini ha bisogno di essere nominata e riconosciuta, mentre “tutto si addormenta per poi svegliarsi ancora” (p.26) e racconta la “La resurrezione di ogni giorno” che non rappresenta solo un chiaro riferimento alla vita, ma alla poesia stessa intesa come processo trasformativo e di resurrezione che ri-conduce a sé, alla propria voce e all’incontro con l’altro attraverso la parola poetica, nella sua capacità di far risuonare nel presente le parole “e dire l’amore, prima del vento/ prima della sera.” (p.22)
Il codice condiviso della poesia e della fotografia nell’opera di Parrini traduce, nelle forme armoniose di voci polisemiche, il codice nascosto della parola poietica, ovvero di una parola capace non solo di dire, ma soprattutto di agire, su chi la riceve, ad un livello più profondo, perché la parola poetica è parola del risveglio della possibilità. Parola quindi che richiede, questa volta in maniera esplicita, un ascolto polisensoriale e, di conseguenza, un’efficace messa in comunicazione con l’altro che il Poeta non identifica solo come lettore passivo, ma come interlocutore necessario, come presenza cooperante.
Lo specchio trattenuto tra le mani ha bisogno di un’immagine da riflettere per dar senso alla funzione per cui esiste, la gabbia ha bisogno che un altro la apra perché se ne possa liberare il contenuto e i fiori hanno bisogno che ci sia qualcuno o qualcosa che se ne prenda cura per non appassire. I luoghi dell’inconscio raccontati da Michela Goretti hanno bisogno dell’altro, fondamentale per il compiersi, e per il dare forma a quanto esiste prima della voce. Quell’altro che Parrini chiama alla condivisione: “Alla mia sera aggiungi la tua/ al mio dolore il tuo.” (p.16) e che considera importante al punto da riproporre lo stesso verso in un’altra poesia, quattro pagine più avanti (p.20): “Alla mia sera aggiungi la tua”. ”Non siamo fatti di certezze” e, per questo, abbiamo bisogno di non perderci mentre “si scompone la sera” (p.20).
“Se scuoti la tovaglia le briciole/ di pane ti indicano il cielo” (p.14) e il verso, tronco a metà pagina, diventa trampolino per le emozioni che (ci ricorda il Poeta), se liberate, nutrono lo spirito del tempo ed è questo nutrimento ad indicare il cielo inteso come crescita personale del poeta e del lettore, ovvero ad annullare il tetto della rimozione, lasciandoci sempre scoperti fino a “farsi raggio o crepa.”(p.52)
“Sia benedetto questo spazio fatto altrove” (p.52) che è la poesia, il luogo della trasformazione, della possibilità, l’autunno lucido di pioggia che canta il Parrini nel verso che porto con me in questa vita che “ha troppi incagli e mura senza appigli.” (p.26):
“Tra tutti i miei anni scelgo/ quest’autunno lucido di pioggia/ perché posso cambiarlo ancora,/ prima del buio.” (p.41)
Tutto è ancora possibile, prima del buio, prima della voce.
La mia ombra è fatta di pietre scalcinate, il mio cielo si perde stretto fra i tetti e le grondaie. non ho il senso della pianta alla finestra, m’hanno rubato il sole appena nato. E so il sale e il tempo maturo dell’estate scritto sui muri e le pareti antiche. tra tutti i miei anni scelgo quest’autunno lucido di pioggia perché posso cambiarlo ancora, prima del buio.
Sabato, 15 maggio, il Museo Archeologico Nazionale di Taranto ha inaugurato la prima delle mostre del Circuito del Contemporaneo al MArTA, organizzata in collaborazione con l’Associazione Culturale Eclettica – Cultura dell’Arte (di cui Stefano Faccini ne è Presidente): SILENT SPRINGdella scultrice pugliese Claudia Giannuli, ospitata nelle sale espositive del primo piano del Museo, a cui si potrà accedere, fino al 25 luglio, in un percorso obbligato, dopo la visita alle collezioni del secondo piano.
Se anche aveste visitato il Museo MarTa più e più volte, come è capitato a me, questo percorso vi apparirà “diverso”, perché l’essere proiettati alla visione di una Mostra d’Arte Contemporanea vi farà vivere un attraversamento del tempo passato e dei suoi “segni” e “resti” singolare. Ogni sala costituirà una dimensione che vi avvicinerà al presente, in un cammino di progressiva presa di consapevolezza della storia che ci appartiene, che cucirà una trama cognitiva che vi sosterrà, quando la fruizione emotiva dell’opera di Claudia Giannuli vi farà tremare per la bellezza con cui racconta la verità del presente attraverso il corpo che pure non c’è, ma si intuisce. Il messaggio che l’Artista ci consegna, utilizzando come canali del suo linguaggio artistico la ceramica, la vegetazione e il corpo femminile, si sviluppa in cinque teche illuminate da un led rosa, a costituire delle piccole serre (quattro terrari e un paludario). Il corpo non c’è perché diventa teca, si riduce a contenitore inerte. Noi uomini, come le piante, siamo fragili ed abbiamo bisogno di “contenitori” per vivere e, del resto, lo stesso ambiente in cui esistiamo diventa la nostra casa affettiva e, mai come in questo periodo storico, violentato dalla pandemia, il corpo è diventato teca, non raggiunto più da alcun desiderio, un contenitore “protetto” (come lo è stato in questo recente forzato lockdown), da un esterno che non è più dimensione di relazione oggettuale, ma di “attacco”, in attesa di comunicare. Un’anima chiusa, limitata a se stessa che non può mescolarsi alla vita. Mentre vi aggirerete tra le teche, istintivamente cercherete di stabilire una relazione con quanto vi si propone, scandaglierete la terra con lo sguardo, andrete in cerca di un movimento, di un soffio d’aria che alteri quella fissità e verrete scossi dentro quando dovrete arrendervi alla “distanza”, diversa da quella che intercorre tra voi e un reperto museale disposto nelle vetrine tra una teca e l’altra. Il tempo vissuto, raccontato da ogni reperto del IV e III secolo a. C. è pregno di vita, sale agli occhi come una visione, e fa da contrasto al tempo fermo, immobile che scivola sulle pareti lucide dei dispositivi-gioiello in ceramica di Claudia Giannuli perché è tempo mortificato, è “il poteva essere e non è stato”, è tempo vinto nella spirale dell’isolamento. Adagiati su terreni, inerti, immobili troverete cinque dispositivi-gioiello floreali come mine inesplose, ”toppe di blindatura”, come le ha definite l’attento Curatore Antonello Tolve, “ferite” imposte che mortificano gli organi sensoriali e che, nei sette video proposti lungo il percorso, trovano applicazione nelle aperture del corpo femminile di un avatar, questo “sistema aperto” verso l’esterno, che è il corpo, viene colonizzato nelle sue parti visibili e accoglienti, in una penetrazione che non contraddice la vita, ma la silenzia. Penetrazione che non rappresenta una vera e propria occlusione, quanto piuttosto un’inclusione. Si ravvisa una sorta di “interramento” negli orifizi del corpo umano (l’estremità della forma di due dei cinque dispositivi-gioiello rimanda al bulbo) che diventa un vaso contenente linfa, energia che conferisce vita e si fa alimento per questi vegetali-gioiello che, proprio per aver ricevuto vita dal corpo, possono realizzare un movimento che assume il ritmo regolare del respiro. E in questo movimento, quasi impercettibile, conferito dal ritmo vitale del respiro che vitalizza la pianta stessa, si evidenzia come il mondo vegetale venga elevato, dall’Artista Giannuli, a componente percettiva di un’esperienza soggettiva di alienazione, di isolamento coatto. L’aspetto formale di rimando fallico di due dei cinque dispositivi-gioiello, che il Curatore Antonello Tolve descrive come “oggetti di piacere corporale e dispiacere”, portano a riflettere sul meccanismo profondo che rende l’essere umano dipendente da manovre difensive di alienazione. Il potere “seduttivo” di quanto chiude dall’esterno, blandisce la capacità di “resistere” alla mortificazione di una dipendenza autodistruttiva che si alimenta di un sentimento di impotenza, radice della collusione scaturita dalla gratificazione allarmante dell’essere dominato da un potere esterno. L’Artista sembra volerci scuotere da questa organizzazione che può diventare perversa perché desoggettivizza e, attraverso l’Arte e la sua fruizione emotiva, darci un’indicazione per un necessario risveglio alla vita che sia occasione di crescita psicologica e consapevolezza di sé. “Possiamo ribadire all’infinito che l’intelletto umano è senza forza a paragone della vita pulsionale, e in ciò avere ragione”, ci ricorda Freud, “eppure in questa debolezza c’è qualcosa di particolare: la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza. Più e più volte pervicacemente respinta, riesce alla fin fine a farsi ascoltare.” 1
È uno schermo il mezzo attraverso il quale l’Artista Giannuli, sceglie di rappresentare visivamente e di oggettivare un contenuto del mondo interno. I sette video diventano, così, un ponte di comunicazione di grande potenza, irrompono silenziosi nelle nostre porte d’accesso, fino a farci sentire “toccati” e violati. L’avatar, ospite di questo presente e, fino al 25 luglio, dell’incanto di una storia che arriva a parlarci dal IV e III secolo a.C., tra i reperti funerari di una civiltà che credeva nella vita oltre la morte e i ritrovamenti di specchi, flauti, maschere comiche e personaggi grotteschi del mondo del teatro e della musica, ha gli occhi chiusi ma non è addormentata, è anima quietamente alienata, sola. Sembra aver raggiunto un “equilibrio” immobile, una passività privata della sua intenzionalità, trasferendoci la visione degli effetti di un “sistema” che sta operando indisturbato, perché l’essere umano ha utilizzato il suo rifugio per restare relativamente libero dall’angoscia, al prezzo di un arresto quasi totale della sua espressione. La rappresentazione dell’avatar, a mio parere, si colloca perlopiù in una dimensione inconscia, dove sembra non ravvisarsi alcuna consapevolezza di quanto traumatica possa essere la perdita della comunicazione con l’esterno. Il riparo blindato danneggia la possibilità percettivo-sensitiva e il gioiello floreale è un dispositivo che, sebbene blindi nella sua porzione penetrativa in cui “far esistere l’altro come luogo della mia esistenza” (come direbbe Lacan), rendendo impossibile il “sentire” e creando un’interruzione di flusso dall’esterno, allo stesso tempo, costituisce ancora un tramite con il mondo esterno nella sua porzione floreale e quest’ultima frazione, fragile, delicata, (che richiama l’oreficeria tarantina del IV e III sec. a.C. e , in particolare, la Corona a foglie di quercia e il Diadema fiorito, conservati nel MarTa e la cui pianta di origine differisce in quattro delle cinque strutture, ed è specificata in tableaux al fine di leggerne la derivazione come chiavi di accesso a quanto si è “sacrificato” in questo processo di isolamento e di alienazione), consente ancora, anche se in modo quasi impercettibile, il richiamo, destabilizza il punto di rottura, di interruzione con l’esterno e rende ancora possibile il farsi “sentire”. Ma è un farsi sentire silenzioso quel respiro appena percettibile che i nostri sguardi incontrano nel percorso. Quell’ornamento floreale, che chiude le aperture del corpo dell’avatar, diventa ornamento diagnostico che sembra domandarci: “Ci sei ancora? Vieni più vicino, libera il mio respiro, libera il tuo respiro”, mentre si attraversa la sala che racconta di una storia che ha resistito al tempo e che ancora parla al visitatore e lo fa in maniera più efficace nel percorso tra le sale del MarTa che si deve effettuare per raggiungere la Mostra Silent Spring e che è stato scelto in una strategia di condivisione di visioni che ha portato il progetto Il Circuito del Contemporaneo (il cui Direttore Artistico è un’appassionata Giusy Caroppo) ad avviare una dialogo tra collezione e spazi del Museo che facilita e incoraggia una fruizione emozionale. Come ha spiegato l’illuminata Direttrice del Museo Marta, Eva degli Innocenti: “alla Mostra dell’artista Giannuli si giungerà attraverso una sorta di percorso catartico che dal passato condurrà al presente e al futuro, dal secondo al primo piano delle nostre collezioni”, percorso che si è rivelato, a mio parere, “un narrare necessario a poter pensare” prendendo in prestito le parole dello psicanalista Nino Ferro. Se vorrete visitare la Mostra, e ve lo consiglio vivamente, forse capiterà anche a voi, come è successo a me, di imbattervi in una guida che cercherà di riportare la vostra attenzione sui reperti museali sui quali è evidentemente molto preparato, ma tenete bene a mente, mentre zigzagate tra passato e presente che, in quella sala, una presenza “silenziosa” aspetta l’incontro con il fruitore per dargli l’opportunità di un “risveglio”, di una “primavera” che faccia recuperare il senso, la verità storica dell’uomo, ovvero che il vissuto dell’essere umano è relativo ad un’esperienza di rapporto. “Noi siamo un dialogo”, come sostiene lo psichiatra fenomenologico G. Stanghellini, “un dialogo con l’alterità, quella che abita in noi e quella costituita dall’Altro fuori di noi.” In un suggestivo scatto di Pierpaolo Miccolis, che vi propongo, io credo si possa trovare racchiuso il senso e il mistero di questo “incontro” tra Silent Spring e il MarTa. La testa femminile in terracotta (IV sec. a. C.), la cui espressione racconta l’equilibrio della grandezza dell’anima tipico delle figure greche, è “ferita” proprio nei “luoghi corporei” in cui, nell’avatar di Claudia Giannuli è avvenuta la penetrazione di due dei cinque dispositivi-gioiello floreali, destinati all’occhio e al naso. È un trait d’union acceso quello che si realizza e che ci fa muovere in una dimensione emotiva che è essa stessa contenitore, reale, solido, scialuppa di salvataggio che garantisce uno spazio nuovo in cui potersi aprire al messaggio di quest’Artista barese che ci mette in guardia nell’attraversamento di questa “Primavera silenziosa”.
Il titolo della Mostra è mutuato dall’omonimo libro della biologa marina statunitense Rachel Carson, pubblicato nel 1962,2 decisivo per la storia del pianeta terra e dell’intera umanità. Gli storici della scienza sostengono che, con questo libro e in questa data, abbia avuto inizio la nuova era della storia umana: l’era dell’ecologia. La Carson, con questo saggio, è stata la prima scienziata al mondo ad avvisare che doveva essere rivisto il modello di sviluppo, in quanto l’utilizzo continuativo del DDT nelle campagne stava minacciando in modo irreparabile la biodiversità, e che il rapporto scienza tecnica ed etica che si stava applicando avrebbe portato all’autodistruzione. La Carson ha sentito l’urgenza di dire all’umanità di fare attenzione, di rivedere il senso di appartenenza dell’uomo alla terra, di rivisitare il senso dell’umanesimo”, come ricorda in una preziosa intervista il Prof. Luciano Valle (filosofo che ha profuso il suo impegno nella ricerca sui temi dell’Etica ambientale). “Stanno scomparendo i pettirossi” denunciava la Carson “ stanno scomparendo i cardellini, i verdoni nelle campagne americane e il loro canto. Ma quando scomparirà tutta questa biodiversità, allora scomparirà la bellezza”. L’artista Giannuli recupera il grido di denuncia della Carson e, attraverso il potente strumento dell’Arte, che, come ha affermato il Curatore della Mostra A. Tolve nella presentazione che si è svolta il 15 maggio nel chiostro del Museo MarTa “ha sempre avuto il potere magnetico di risvegliare il cervello atrofizzato della società e di educarla”, ci avvisa di stare attenti, di restare accesi, perché stiamo blindando la vita, ne stiamo annullando la comunicazione e, di questo passo, scomparirà il canto dell’uomo, l’unicità di ogni singola “voce”. E se scompare tutto questo, perdiamo la bellezza, quella stessa che, invece, nei secoli ha resistito ed è arrivata fino a noi e si fa grembo di un grido silenzioso che non possiamo non ascoltare. “Sapete voi, sapete che l’umanità può vivere […] senza la scienza e senza il pane, soltanto senza la bellezza non può vivere, giacché non avrebbe più nulla da fare al mondo!” 3 R. Carson insisteva nel dire che l’umanità non può perdere la bellezza che è insita nella natura perché l’etica dell’umanità, senza bellezza, è un’etica monca. La scultrice Giannuli riprende quel monito, e attraverso il veicolo della natura, difesa dalla Carson, viene a dirci che l’umanità non può perdere la bellezza della relazione, che è alla genesi della comunicazione, perché un’umanità mortificata si aliena e muore.
Foto di PIERPAOLO MICCOLIS
Foto di MARINO COLUCCIFoto di GABRIELLA GRANDE
Foto di MARINO COLUCCI
1 Freud, L’avvenire di un’illusione Einaudi 2015
2 R. Carson, Silent spring, Houghton; later Printing edizione, 1 gennaio 1962
3 F. M. Dostoevskij I demoni, Rizzoli, Milano 1981, pag. 537
BREVE PROFILO DELL’ ARTISTA Claudia Giannuli (Bari, 1979). Scultrice, la sua produzione si caratterizza per opere in terracotta, realizzate con misurata sintesi formale, che rimandano prevalentemente a un universo femminile, quotidiano e alquanto paranoico; le piccole presenze sono collocate in ambientazioni in scala, dove l’argilla è contaminata da legno, resina o altri materiali sintetici. Nel 2013 la Fondazione Museo Pino Pascali di Polignano a Mare, che vede la sua opera presente in collezione permanente, le dedica la personale “Ognimaledettadomenica”. Nel 2015 al suo processo creativo è stato dedicato “Le pareti di vetro” per la regia di Vito Palmieri, docufilm prodotto nell’ambito del progetto ArtVision, trasmesso da SkyArte nella primavera del 2016. Parallelamente all’attività artistica insegna “Tecniche della Ceramica” all’Accademia di Belle Arti di Bari.
Dentro tutte le cose c’è amore? Sì, ma “l’amore ti spezza”1, come ci avvertiva già Philip Roth, “frantuma”, come canta il poeta di Castelfiorentino in questi versi (Puntoacapo Editrice, 2021), capaci, però, di riconoscere nella vibratilità sottile di ogni passaggio, seppur breve e silenzioso, della vita uno stato gestativo continuo, le possibili e sempre nuove dinamiche riparative e costruttive di una forza che è ciclica rinnovazione dell’origine, in cui la frantumazione è il preludio di una rigenerazione che sottrae all’esito finale.
Capire i rapporti dell’amore con la vita richiede già amore e il coraggio di fare ricorso alla dimensione creatrice della Poesia, perché si renda possibile esprimere un concetto limite così sfuggente, ovvero un concetto il cui confine, “un limitare che attende il perdono”, è superiore alla portata umana e nel quale ci si smarrisce senza il linguaggio della Poesia, questo “dono da meritare prima del silenzio” che eleva la nostra temporalità fino all’orizzonte dell’essere.
Nell’attraversamento dei versi di Paolo Parrini – un caleidoscopio delle voci emozionali più intime – ha riecheggiato nella mia mente quanto dice Fantasio nella pièce di de Musset: “Ognuno porta in sé un mondo”2 mentre “la notte annera il giorno”, mentre “muore il […] tempo breve” in cui “gli anni hanno corroso i sogni” “a ricercare parole, quelle ancora non dette tra le mille sprecate”. E lo strumento di conoscenza della poesia parriniana è la malinconia. La malinconia3 di Dürer, la malinconia della serie di Munch4. Una malinconia in cui ci riconosciamo tutti, ancora di più in questo particolare periodo storico, su questa terra che ci appare così “dolorosa e fragile”, per mezzo della quale la sua parola poetica rivela e manifesta l’essenza del nostro tempo povero, in cui la realtà assume, nei suoi versi, le sembianze del vento che strappa, che frusta, che scuote, che fiacca mentre irrigidisce il pensiero in cui ci sono ferite che restano irraggiunte, come quelle di giovani vite perse ancora prima di cominciare (“Ragazzi di pineta”) o interrotte (“Non so se fu una corda”) quando “morire è cosa leggera quando si spegne il sole in un sorriso stanco”. Spetta alla poesia dare voce a queste ferite. Prendendo in prestito le parole di Deleuze, spetta al poeta “andare nei luoghi estremi, alle ore estreme, dove vivono e si levano le verità alte più profonde.”5
Cantare una ferita equivale a sanarla, ad accogliere l’amore che ne era rimasto sommerso perché inascoltato (“il fiato sui vetri copre le ferite”), restituendogli pace e perdono nella notte che, per il poeta Parrini, viviamo tutti e che altro non è se non un “attimo sospeso tra il nulla e il ritorno”, dimensione dell’esistenza scissa tra due possibilità reattive con opposte volontà di potenza. E in questa notte il “buio […] accoglie l’occhio nudo”, ovvero ci accoglie nudi, esposti, senza riparo, inducendoci, di conseguenza, ad un difetto di visione della fine e del senso delle cose.
Nel greco antico, “oida” (οἶδα), il tempo perfetto del verbo greco “orao” (ὁράω, che significa “io vedo”)viene impiegato per esprimere, nel presente, il risultato di un’azione avvenuta nel passato; “oida” quindi significa “io so perché ho visto“. L’azione della visione nel passato rende possibile la conoscenza nel presente. Ma Parrini canta la difficoltà della visione e, di conseguenza, l’impossibilità della conoscenza del senso delle cose e, per questo, “morremo senza sapere”. Ma la morte non è l’ultima parola del poeta. In questa notte “ogni volta morire, poi rinascere”, in questo eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, risolvendo ciclicamente il dramma dell’oggettivazione del nulla nel ritorno. L’amore è dunque una forza liberatrice, affermatrice. Forza attiva e reattiva che “frantuma” (e “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”) imponendo la sua valenza e dominando quanto gli si oppone, affermandone l’essenza, affinché “sia luce e risa. Sia la vita”.
Mentre la natura (simbolo dell’eterno rinnovamento, della rigenerazione) protegge il senso (“è un albero a rammentarti il sole”) “siamo vivi dentro questo dolore che ci tiene svegli e ci costringe a non morire”, “persi nel vuoto”, un vuoto non concepito come assenza, ma come spazio potenzialmente attivo, in cui si avvicenda un processo continuo di alternanza di creazione e annichilimento e in cui la felicità “ci appare a tratti. Lampeggia. Come un faro nel buio”.
“Perdonaci Dio” recita un verso di Parrini, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Ma, come canta l’inno a Patmos di Hölderlin : “Dio è vicino, ma non si lascia afferrare” e, nel frattempo, “la pelle è un ramo sconfitto”. Verso in cui c’è tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade. L’immagine sembra rimandare alla matematica dei rami, teoria sostenuta da Leonardo e poi dimostrata scientificamente, secondo la quale la disposizione dei rami sugli alberi non è casuale, ma segue regole matematiche, per adattarsi meglio a resistere alla violenza del vento ed evitare la rottura dei rami. Nella poesia di Parrini il vento è metafora della vita e la pelle “è un ramo sconfitto” dalla violenza di questo vento di solitudine e di abissi incolmabili in cui il poeta confessa: “non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi”, riprendendo il tema della visione compromessa dal buio in cui abitiamo e che, spesso, diventa anche non coincidente con l’altro con cui ci interfacciamo, per una vita o per pochi attimi. E la non coincidenza dello sguardo neutralizza l’esperienza dell’altro e ci conserva nella nostra fragilità, perché guardare l’altro dà la possibilità di conquistare un potere che è autenticamente umano, ovvero non il potere sull’altro, ma il potere con l’altro, che rende più umani. Per questo, il poeta suggerisce: “molto amammo. Molto non sapemmo farlo, ma adesso è tempo ancora dello sguardo”, senza temere il vuoto in cui ognuno di noi è perso, la tempesta che il singolo attraversa e in cui “inesausto batte il cuore, s’infrange sullo sterno e sul costato.” Il vuoto diventa un alleato per il poeta, perché lo rende disponibile all’evento parola, non più povera, ma presenza reale intersoggettiva, nutrimento, pane. E il pane, ci ricorda Parrini, “è un pezzo di vento impigliato dentro il grano”, verso che considero centrale della poetica parriniana.
Il grano, questo seme di nutrimento generato dall’amore che è in tutte le cose e nell’evento parola, trattiene il “vento”, ovvero la realtà e la ferocia, l’incomprensibilità di alcune sue manifestazioni e ne genera un impasto che, purificato dal dolore, diventa “pane”, possibilità di far crescere dentro di noi quello che mai si esaurisce, apertura all’esperienza dell’essere che può manifestarsi in una pacificante luce nel buio: “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”. L’amore, quindi, nell’alternanza tra il nulla e il ritorno, non solo stabilisce il carattere selettivo del ritorno, ma diventa lievito e predispone al miracolo: “Tu vedi ombre che inseguono il sole, eppure è già notte stanotte”. Tu, caro lettore, che attraverserai la poesia di Parrini, “fallo con dolcezza. Smorza il grido, resta come neve bianca” e, forse, come me, ti sorprenderai a ritrovarti in “La notte stellata sul Rodano” di Van Gogh6, in cui una coppia di innamorati svela il segreto della vita: “ogni uomo è amore se lascia scorrere le sere buie in un immenso oceano”.
“Tremo se penso che potremmo perderci così, senza aver stretto le mani”. “Saremo l’amore che abbiamo lasciato”.
“Ho trovato una corda. La volevo robusta, forte, disumana.”
Scegliamo cosa cercare e troviamo quello che ci impegniamo a cercare.
Ce lo ricorda Francesco Zarzana, in questo suggestivo racconto (ProgettArte Edizioni, 2020), basato su fonti storiche e bibliche e sulle possibili dinamiche che possono essersi sviluppate laddove la storia indietreggia davanti al mistero, in cui il divino e l’umano si sfiorano senza mai riuscire a toccarsi veramente.
Zarzana rende possibile un incontro ravvicinato e un confronto con l’Iscariota, una delle figure più enigmatiche della storia dell’umanità, la cui ricerca della soddisfazione di un suo bisogno si rivelò una corda disumana, paralizzante e mortifera e cercare di capire questo aspetto della fragilità umana, fraterna (perché Giuda è un nostro fratello, anche se rifiutato e dimenticato) è una sfida difficile, ma necessaria, mentre “sembra quasi che Dio non voglia farsi più sentire e non voglia più bene ai suoi figli prediletti”. Zarzana ci accompagna, con la sua scrittura limpida, nel silenzio di Dio, permeandone l’intero tessuto dell’opera, ma non per farlo corrispondere al vuoto della parola quanto, piuttosto, ad un piano di confronto dal valore interrogativo, in cui la radice di ogni dialogo, incontro e situazione è il non ancora detto che attende solo di essere raggiunto. Da attento regista qual è, Zarzana lo inserisce come spazio di comunicazione più radicale, suggerendo che, per essere luogo rivelativo, necessita di un accesso più profondo, di intercettare la capacità di costruzione intorno al senso e non solo quella, più immediata, intorno alla “fame”, al “bisogno contingente”, in uno spazio creativo inatteso in cui la comprensione, lungi dall’avvenire solo su un piano intellettivo, si aprirà al possibile, al potenziale, in un processo di sintonizzazione emozionale necessario a raccogliere ed accogliere ciò che si disvela.
Il II capitolo si apre con la pericope di Giovanni Battista che predica nel deserto e Giuda racconta la sua partecipazione “all’interramento di Giovanni.” Considero importante la scelta dell’Autore di inserire la sepoltura di Giovanni Battista in uno dei primi capitoli, quindi nella fase di apertura al nostro incontro con l’uomo che la storia ha reso l’emblema del tradimento. L’uomo dell’attesa, Giovanni Battista, viene seppellito da Giuda che, invece, non ha saputo “attendere”, ma nel significato latino di rivolgere l’animo verso chi aveva deciso di seguire. Il Battista fonda la sua vita e la sua predicazione sulla Fede e sulla fiducia in Dio. Crede in Lui in una dinamica in cui credere precede la conoscenza. Accoglie il desiderio di Dio e desidera il desiderio di Dio, ovvero è capace di desiderare il desiderio dell’Altro, quindi di riconoscerlo, pur non conoscendolo. “Ho fede mentre cerco di capire” è il fulcro su cui si muove l’esperienza di Giovanni Battista, degli altri undici discepoli e dello stesso Autore, che esordisce scrivendo: “Mi sono proposto di cercare di capire” […] “Una bella sfida che ho accettato con me stesso” Ed ancora: “Non ho paura della morte e proprio per la mia fede.” Parole che Zarzana fa pronunciare a Giuda in quest’opera, ma che credo non possano essere riferite a lui quanto all’Autore che, in apertura del testo si affaccia a tratti, interpellandoci, chiamandoci a reagire, a non attraversare la lettura in modo passivo, ma ad accettare il rischio di lasciarci mettere in discussione, rinunciando alla tentazione del giudizio che muove sin dallo sfoglio della copertina.
“Non gli abbiamo creduto. O forse non gli abbiamo voluto credere.”
Se mettiamo a confronto le parole di Giuda con la pericope di Giovanni1: “Che cosa dobbiamo fare per operare le opere di Dio?” Rispose loro Gesù “questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”, comprendiamo quanto credere, che implica l’accogliere, sia fondamentale per poi conoscere. Il verbo credere, in quest’opera, è menzionato da Giuda solo in negativo: non lo abbiamo accolto. Forse non lo abbiamo voluto accogliere, non abbiamo voluto accogliere il suo desiderio. Ci sembra così lontano da noi Giuda, eppure quante volte non abbiamo accolto il desiderio, ovvero la tensione verso il compimento della Verità del Sé, dei nostri figli o della persona che diciamo di amare o, addirittura, il nostro desiderio? Quante volte abbiamo tradito così?
“L’ho seguito per mesi e mesi. A distanza. Era il modo più corretto per capirlo.” racconta Giuda nelle pagine del Zarzana. “Lui andava non solo ascoltato, ma anche osservato, studiato, capito”. Sono stati selezionati dall’Autore verbi che vengono declinati nell’ordine del controllo, a sottolineare la scelta di Giuda di seguire Gesù, mosso esclusivamente da una volontà (Giuda vuole un Messia politico) e da una necessità (Gesù doveva essere proclamato Re dei Giudei). Giuda segue il Maestro per capirlo, ma si tratta di un capire per valutare, piuttosto che per comprendere, fermandosi, quindi, ad un atto intellettuale che segue le leggi della logica, escludendo la riflessione dalla dimensione emotivo-spirituale, e dalla compassione, dalla capacità di decentrarsi da sé per assumere la prospettiva dell’Altro. In questo modo, Giuda si sottrae alla scoperta, alla dolorosa, ma necessaria ricerca del senso dell’agire dell’Altro. Poiché “l’altro è anche colui che a causa della sua estraneità ci indica un altrove.” 2
“Volevo proteggere il Maestro“, continua a raccontarsi Giuda e sembra non rendersi conto di voler proteggere Gesù esclusivamente in funzione del suo modo di vedere le cose, cementato da un rigido sistema culturale e da una sua circoscritta idea politica di salvezza. Di conseguenza, questa sua volontà si rivelerà un tentativo sì di proteggere Gesù, ma dal voler essere qualcosa di diverso dal suo bisogno.
Quando Giuda va ad incontrare Gesù per chiedergli di diventare suo discepolo, Zarzana ci descrive un Maestro con gli occhi chiusi. Sottolinea per ben quattro volte questo particolare, che contrasta fortemente con la chiamata degli altri discepoli, che lo seguirono dopo essere stati guardati. Zarzana, con questo mancato accesso allo sguardo di Gesù da parte di Giuda, mette in risalto la loro reciproca intoccabilità, ovvero l’impossibilità di far entrare in contatto il bisogno di Giuda con il desiderio di Dio. Infatti, Zarzana fa dire a Giuda: “Non mi ero mai sentito così a disagio come in quel momento”. Il disagio è l’humus su cui si manterrà viva una sottile, ma continua diffidenza nei confronti del Maestro, della Promessa e dell’Attesa, in quanto Gesù rompe l’unità tra un inizio della storia della Salvezza (che Giuda conosceva bene) e la fine, che lui faceva coincidere con una conquista politica. Ma Gesù stravolge la logica, viene a fare nuove tutte le cose e quindi viene a decostruire quell’unità, non a distruggerla, ma a decostruirla, perché la Verità si rivela essere altro. Alla Verità si arriva attraverso l’Amore, in quanto la Verità ha a che fare sempre con l’umano e “l’umano arriva dove arriva l’amore” sosteneva Italo Calvino. L’amore, non lo scontro, diventa il legame di nuova costruzione. Per questo, quando Gesù gli dice: “Giuda resta con noi” lui si blocca. Gesù gli chiede di restare nel suo desiderio e in questa esortazione c’è una richiesta di movimento, da se stesso, dal suo bisogno, dalle sue convinzioni, verso il desiderio di Dio. Molto interessante l’utilizzo di Zarzana di un verbo di stasi per orientare il movimento, evidenziando come si tratti di una richiesta di movimento interiore. Ma Giuda cosa fa? Zarzana gli fa dire: “Mi guardai attorno […] Cominciai in maniera naturale a raccontare tutto di me…” sottolineando come alla richiesta di movimento, Giuda risponda con un più acceso focus su se stesso e sulla sua vita. Infatti, quando Giuda, presentandosi a Gesù, gli dice: “Io sono un uomo colto che vuole servirti”[…]”Sono qui sperando di servirti”, non intende il servizio nel senso della “sottomissione” al suo desiderio e alla sua volontà, ma “spero di servirti” significa spero di esserti necessario, di esserti utile per uno scopo, ma a quello in particolare che Giuda credeva giusto: farlo proclamare Re dei Giudei. In Giuda c’è un’inaccessibilità ai contenuti e alla logica di Gesù a causa di una rigidità del pensiero e di una incapacità di modificare la prospettiva da cui guardare Gesù che lo ammonisce: “La tua mente è chiusa” ,“Giuda, apri i tuoi occhi e il tuo cuore.” Ma al “venite e vedrete” del Maestro, Giuda risponde restando fermo nel suo bisogno, deluso quando capisce che al Maestro “non servono le mie idee.” Manca in Giuda la capacità di accogliere l’alterità di Gesù rispetto alle sue aspettative politiche. Il sentirsi tradito da Gesù è intimamente collegato alle illusioni in cui Giuda vive, alla realtà che lo circonda e alla sua condizione di disillusione. “I giudizi di valore degli uomini sono dettati esclusivamente dai loro desideri di felicità e sono quindi un tentativo di argomentare le loro illusioni.” 3 Giuda non si concede la possibilità di trascendersi, di elaborare significati nuovi ed è quindi tragicamente esposto al suo limite. “Ho sempre sperato che cambiasse idea”, fa dire Zarzana a Giuda. “Quando ci rivolgiamo agli altri, foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione di adeguarsi al nostro stato d’animo, di ripensare quel vero che pensammo noi […]. E se la cosa sta così, il problema del comunicare con altrui, del parlare ad altrui, non è quello di dire o non dire il vero ma di operare su altrui perché operi.” 4 Giuda non ha voluto negoziare i confini delle sue idee, perché? Non era un innamorato, questo lo suggerisce Zarzana quando gli fa dire: “Le sue parole conquistano il cuore della gente..“ Il cuore della gente, non il suo! E quindi non vi è potuto essere riconoscimento e Gesù è rimasto per Giuda uno straniero. Non si attua quella che i francesi definiscono la “reconnaissance”, parola che esprime sia l’atto del riconoscere che la riconoscenza, la gratitudine legata all’essere riconosciuti. Il riconoscimento è il nucleo fondante della stessa possibilità di conoscenza. Ma Giuda non riconosce e non si sente riconosciuto nel suo bisogno. Resta, quindi, strozzato dal suo io dal carattere monadico e non si attiva il desiderio che è movimento, è spinta e messa in discussione. Gli altri undici discepoli sono, invece, innamorati, e il desiderio generato dall’amore li muove per quello che attraverso il desiderio in essi viene evocato come potenza e possibilità d’essere. Nell’innamorato il desiderio diventa il desiderio dell’Altro e quindi, in questo caso, desiderio di Dio, mentre in Giuda prende forma solo il bisogno solitario e onnipotente che pretende di realizzare in modo immediato e diretto il proprio appagamento definitivo. Il suo bisogno deve coincidere con il desiderio dell’Altro, una sorta di mimesi in cui non c’è possibilità di rapportarsi davvero all’Altro, ma in cui si celebra l’esclusivo trionfo del sé, in un territorio di conflittualità che non lascia scampo all’esclusione dell’Altro, fino alla sua distruzione. L’ esito è sempre tragico: distruttivo e autodistruttivo. “Di questo avevo bisogno. Della necessità che qualcuno costruisse dentro di me la vera immagine di Dio“ ovvero l’immagine che lui poteva sopportare come vera, senza doversi schiodare dalle sue convinzioni. La costruzione interna è un processo che implica sempre delle scelte di inclusione e di esclusione che, quando si fondano sull’esclusivo tentativo di riconoscimento delle proprie aspettative nell’altro, risultano rigide e fallaci.
“Tutti hanno tradito. Tutti abbiamo tradito.”
Ma Giuda “ha tradito” nel significato latino del verbo “tradere”, ovvero consegnare, azione che ha in sé implicito il rifiuto del desiderio di Dio, mentre i discepoli hanno tradito ciò in cui credevano, quindi “si sono traditi” e tradirsi implica manifestare ciò che si voleva tenere nascosto: la paura e la fragilità (ovvero il volto più umano dell’uomo), per impotenza, per imperfezione, per vulnerabilità; tutti aspetti umani in perenne tensione con i loro opposti. M. Nussbaum scrive: “Una parte della particolare bellezza posseduta dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità” 5. È nel riconoscimento del proprio limite che ci si può accostare al perdono, ma soprattutto ci si può perdonare e accedere ad una sorta di processo di re-figurazione del Sé, da cui nasce nuova consapevolezza, come accade nei discepoli. In Giuda questo non succede e al tradimento consegue solo annientamento, poiché Giuda non rimodula le sue convinzioni e da questo ne consegue che la sua sofferenza è soggiogata ad una forma estrema di passività che lo fa ripiegare su di sé. Non c’è in lui alcun “reditus ad cor” (dal latino: ritorno al cuore). “Il mio pentimento è solo ed esclusivamente nei confronti del mio Maestro.” Giuda quindi non si pente del tutto, e il suo pentimento è solo relativo al suo Maestro, ovvero alla sua idea del Maestro, ma che non corrisponde alla Verità di Gesù. Infatti, quando pensa ad un’alternativa al suicidio, il Giuda di Zarzana si dice: “Penso che tornare a casa sarebbe per me una buona soluzione”, evidenziando l’incapacità di Giuda di contrapporre al bisogno il desiderio, ma una soluzione. E soluzione diventa per lui morire, forse per continuare a seguire il Maestro nell’ultima, deformante interpretazione della morte di Gesù. Giuda resta ottuso, l’anima seduta.
Dio ha creato l’uomo libero con un pensiero libero; libero di scegliere il bene e il male. Giuda non era predestinato al tradimento. Altrimenti saremmo tutti schiavi di Dio. Dio non si è servito di lui, ma sapeva, invece, cosa avrebbe fatto, sin dall’inizio dei tempi. Giuda è rimasto fermo nella sua corporeità, non elevandosi alla grandezza dello spirito. Orfano di una conoscenza superiore, a causa della sua superficialità, abbandona Gesù perché non ha risposto ai suoi bisogni. Si ribella a ciò che non capisce. C’è tanta umanità nella figura di Giuda che si perde, che non riesce a sollevare lo spirito verso il divino. Gli manca la necessità di andare oltre. La religione è, in fondo, un’espressione di coraggio. Ci vuole molto coraggio per avvicinarsi all’idea di Dio, comporta un’ attenzione sempre viva alla parte spirituale.
C’è molto mistero intorno alla morte di Giuda, probabilmente perché lui muore già quando decide di consegnare il Maestro, tradendo la parte divina di Gesù che rifiuta. È in quel momento che Giuda uccide la sua spiritualità, la sua parte nobile. Il primo atto di morte è il rifiuto della resurrezione dello spirito. Il peccato di Giuda, in fondo, forse consiste proprio nell’aver tradito la parte spirituale del proprio Sé. Il diavolo ha rinunciato allo spirito. È il tradimento più grande.
Ho terminato ormai da alcuni giorni la lettura di “Iscariota” di Francesco Zarzana, ma lo trattengo ancora sulla mia scrivania. Credo che ci resterà per molto. A ricordarmi che il bisogno può uccidere il Desiderio, inteso come tensione verso il compimento della Verità del proprio Sé, che è sempre tensione verso il Bene, ed è tensione che spinge per il nostro Bene. Cercare di capire qual è la strada per arrivarci è difficile, ma “le onde si tuffano contro le rocce e ci rimbalzano quasi respinte. Ma poi ci riprovano. Ci riprovano sempre. Eternamente.”
“Abbiamo mai davvero chiesto aiuto a Dio?”
di Gabriella Grande
1 Gv 6, 28-30
2 G. Dardes-I. Punzi, Dov’è tuo fratello?, pp. 15-16
3 S. Freud. Il disagio della civiltà (1929) in Opere, vol. 10 cit pag. 629
4 B. Croce, Etica e politica, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994, pp. 46-47
5 M. Nussbaum. La fragilità del bene, 2011
“Iscariota” di Francesco Zarzana, ProgettArte Edizioni, 2020
“Contro l’empatia” di Paul Bloom, Liberilibri edizioni, 2019
Recensione di Gabriella Grande
Calvino, in un intervento dedicato a Carlo Emilio Gadda dal titolo “Il mondo è un carciofo”, sostenne che: “la realtà del mondo si presenta ai nostri occhi multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti. Come un carciofo.” 1 E in questo mondo, con la bellezza della sua complessità, Bloom ci invita a considerare che l’empatia, da sola, non basta. Le nostre decisioni e le nostre azioni morali sono fortemente modellate dalla forza dell’empatia, e questo, il più delle volte, rende il mondo peggiore. Il saggio dello psicologo di Yale ci invita a considerare che i problemi che affrontiamo come individui e come società sono spesso dovuti ad un eccesso di empatia. Come ha dichiarato l’etologo olandese Frans de Waal, noi non viviamo in un’età della ragione, viviamo in un’età dell’empatia. Bloom sostiene che l’empatia ci tradisce quando la prendiamo come guida morale e che ci sono alternative preferibili.
L’empatia può essere grande fonte di piacere se riguarda l’arte, la fantasia, lo sport ed è preziosa nelle relazioni intime, in cui si desidera il rispecchiamento empatico, anche se Bloom ci porta a riflettere come, spesso, si riveli fallimentare anche nella dimensione dell’intimità. L’empatia può corrodere relazioni importanti come quella tra medico e paziente (poiché il paziente non cerca il rispecchiamento dei suoi stati d’animo e delle sue emozioni nel medico, ma sicurezza laddove è incerto e calma laddove è insicuro. Il paziente, come fa notare Bloom, vuole “guardare il medico e poter vedere l’opposto della sua paura, non la sua eco”) e può renderci peggiori come amici, genitori, mariti e mogli, in quanto Bloom ci porta a considerare come l’empatia sia faziosa e costituisca una forza miope e distorta. Una risposta empatica è un processo di simulazione diretto e inconscio, quindi preriflessivo, che realizza in modo automatico un legame diretto tra chi agisce e chi osserva agire e che determina l’adesione all’emozione provata dall’altro in risposta a stimoli espressivi manifestati da quella persona. Di conseguenza, viene a mancare la differenziazione tra l’emozione propria e quella altrui. È una risposta rapida perché spinta da considerazioni immediate ed è influenzata da ciò che pensiamo della persona con cui stiamo empatizzando e da come giudichiamo la situazione in cui si trova quella persona.
Bloom concorda con l’analisi di Batson secondo cui “la forza dell’empatia sta nella sua capacità di rendere l’esperienza degli altri osservabile e saliente, pertanto più difficile da ignorare”, ma ciò che vediamo dipende da cosa scegliamo di guardare, innescando un processo che, purtroppo, il più delle volte, diventa più forte dell’equità. Per questo motivo, Bloom paragona l’empatia ad un riflettore da palcoscenico, in quanto ha un raggio d’azione limitato che ci rende selettivi nel decidere a chi interessarci. Illumina intensamente quelli che amiamo (e questo dato di fatto circa la natura umana è inevitabile, considerata la nostra storia evolutiva) mentre diventa debole verso gli estranei (in quanto non siamo psicologicamente costituiti per sentire nei confronti di un estraneo quello che sentiamo nei confronti di chi amiamo), verso chi ci inganna, verso chi crediamo sia triste per una motivazione sciocca, verso chi ha successo all’improvviso (poiché l’invidia blocca l’empatia), verso chi si lamenta di continuo, e verso quelli che ci repellono.
Si è evidenziato che, quando abbiamo a che fare con questo tipo di persone, si attua una riduzione di attività nella corteccia prefrontale mediale (area del cervello coinvolta nel ragionamento sociale), di conseguenza interrompiamo la nostra comprensione sociale e le disumanizziamo; basti considerare il modo in cui i nazisti pensavano agli Ebrei o alla rappresentazione delle donne nella pornografia. Poiché l’empatia riflette preconcetti e propensioni e può essere modificata dalle nostre credenze, aspettative e motivazioni, è in grado di distorcere i nostri giudizi morali nello stesso modo in cui lo fa il pregiudizio.
Quando l’empatia ci fa sentire dolore, la reazione è spesso di inazione o di fuga. A questo proposito Bloom porta l’esempio di una donna che “viveva vicino ai campi di sterminio della Germania nazista e che potendo vedere facilmente le atrocità dalla sua casa […] scrisse una lettera di protesta: […] Richiedo che questi atti inumani vengano interrotti, o che vengano fatti dove nessuno possa vederli”.
Per condurci alla piena comprensione della sua tesi, nella prima parte del saggio, Bloom descrive, in maniera dettagliata, origine e caratteristiche dell’empatia e questa attenzione, sostenuta da esempi efficaci ed essenziali, rafforza la sua tesi, perché non lascia spazio a fraintendimenti e falle di conoscenza. Bloom ci accompagna finanche nella distinzione tra empatia cognitiva ed empatia emotiva, per metterne in luce i diversi processi cerebrali che le coinvolgono e per sottolineare come ci influenzano in modo differente, dal momento che, mentre nell’empatia cognitiva “comprendo che tu sei in pena senza necessariamente farne esperienza”, nell’empatia emotiva “sento ciò che tu provi e, in particolare, sento il tuo dolore”. Bloom ci spiega chiaramente il suo schieramento in particolar modo contro quest’ultimo tipo di empatia, considerandola fallace, moralmente corrosiva e in grado di distorcere le nostre decisioni morali e politiche in modi che causano sofferenza invece di alleviarla, mentre considera l’empatia cognitiva uno strumento utile, ma comunque moralmente neutro.
Bloom non trascura di analizzare il ruolo di questi due distinti tipi di empatia negli psicopatici, nei soggetti affetti da autismo o da Sindrome di Asperger e se intercorra un legame tra empatia, violenza e crudeltà. Le informazioni che ci fornisce consentono di avere un quadro più chiaro della distinzione tra i due tipi di empatia descritti e ci permettono di costruire una riflessione personale fondata su dati esaustivi. Bloom evidenzia come negli psicopatici si ipotizzi un alto grado di empatia cognitiva, ma un basso grado di empatia emotiva. Molti psicopatici hanno un’eccellente empatia cognitiva e sono quindi perfettamente in grado di comprendere la mente degli altri. Questo è ciò che li rende capaci di essere degli ottimi manipolatori ed eccellenti imbroglioni e seduttori. Sostenere che gli psicopatici mancano di empatia è corretto solo se si considera che la parte emozionale dell’empatia è assente: ovvero la sofferenza degli altri non li fa soffrire. Le persone affette da sindrome di Asperger e da autismo, invece, solitamente hanno una bassa empatia cognitiva e per questo hanno difficoltà a comprendere la mente degli altri. Si ritiene che abbiano anche una bassa empatia emotiva, sebbene esista una controversia sulla loro incapacità di provare empatia e sulla scelta di non utilizzarla, ma non rivelano alcuna propensione allo sfruttamento e alla violenza e sono, anzi, più spesso vittime che non autori di crudeltà.
Ma cosa c’è alla base di una risposta empatica? Bloom dedica un intero capitolo all’anatomia dell’empatia e alla scoperta dei “neuroni specchio” (neuroni visuo-motori attivi sia durante l’esecuzione delle azioni, sia nell’osservazione delle azioni eseguite da altri), dapprima nel cervello dei macachi (Gallese et al. 1996; Rizzolatti et al. 1996), e successivamente nel cervello umano (Gallese et al. 2004; Gallese, 2007, 2014, 2018). Bloom ci ricorda come queste importantissime scoperte abbiano rivelato non solo che i circuiti parieto-premotori con proprietà specchio consentono di controllare l’esecuzione delle proprie azioni e di comprendere le azioni degli altri, ma anche che meccanismi di mirroring sono alla base della nostra capacità di condividere le emozioni e le sensazioni provate da altri. Le strutture nervose coinvolte nell’ esperienza soggettiva di emozioni e sensazioni sono le stesse che si attivano anche quando tali emozioni e sensazioni sono riconosciute in altri. L’empatia è dunque un processo di natura affettivo-cognitiva fondato su delle proprietà “specchio”.
Poiché Bloom propone in questo saggio l’immaginazione “come strumento attraverso il quale l’empatia può essere coltivata, arginata, sviluppata ed estesa”, ritengo opportuno aggiungere l’informazione che la simulazione incarnata può anche verificarsi quando immaginiamo di percepire qualcosa o di fare qualcosa. Recenti studi hanno infatti dimostrato come i meccanismi neurobiologici che consentono la connessione al “mondo reale” si sovrappongono ampiamente ai meccanismi collegati al mondo immaginario. Quindi, la teoria della simulazione incarnata può essere impiegata per spiegare sia come percepiamo il mondo che come lo immaginiamo. Dal punto di vista delle neuroscienze, il confine che separa il mondo reale da quello immaginario sembra molto labile.
In questo capitolo Bloom sottolinea, inoltre, un aspetto importante dell’empatia, ovvero che la sofferenza empatica è diversa dalla sofferenza effettiva, non soltanto nel grado ma anche nella tipologia. Una piena e totale partecipazione empatica è irrealizzabile, poiché ci è impossibile accedere alla coscienza e al vissuto dell’altro. Questa inaccessibilità, lungi dall’essere un limite è, invece, la condizione strutturale senza la quale nessun soggetto potrebbe manifestarsi, dal momento che è proprio l’irriducibile alterità il presupposto della relazione intersoggettiva. “Siamo reciprocamente un segreto gli uni per gli altri”, come sosteneva il filosofo francese Jacques Derrida.
Dopo queste lunghe ed esaustive premesse, infarcite di particolari, Bloom ci invita a sperimentare strade diverse dall’empatia, ricordandoci che “siamo esseri complessi e ci sono molte strade che conducono al giudizio e all’azione morale”. Sviluppando la tesi che alla base della moralità c’è molto altro oltre l’empatia, ci porta a considerare che ciò che conta davvero sono capacità come “autocontrollo, intelligenza ed una più diffusa compassione”. “L’autocontrollo può essere visto come la forma più pura di razionalità in quanto limita i desideri impulsivi, irrazionali, emotivi”, e la ragione è per Bloom “il luogo della vera azione”. Ma quando si è in grado di costruire un buon ragionamento? Quando ci affidiamo all’applicazione di regole e principi o ad un calcolo costi/benefici. Solo allora possiamo almeno in parte diventare giusti e imparziali. Anche se, a prescindere da come compiamo le nostre scelte morali, a volte, inevitabilmente sbaglieremo, in quanto una certa quantità di irrazionalità è inevitabile, data la nostra natura fisica. “Ogni dimostrazione della nostra irrazionalità è anche una dimostrazione della nostra intelligenza, perché senza la nostra intelligenza non saremmo in grado di capire che si tratta di una dimostrazione di irrazionalità.[…] È l’abilità di riconoscere criticamente i nostri limiti che rende possibile tutto ciò che facciamo”. La ragione e la razionalità, allora, non sono sufficienti per essere una persona buona e capace. Ma la tesi di Bloom è che esse sono necessarie, dal momento che “attraverso atti di volontà anche l’empatia può essere indirizzata e governata”.
Bloom ci porta a riflettere in modo interessante anche sulla politica, sostenendo che “spesso sembra che la politica sia a corto di razionalità […] La politica non si interessa alla verità perché per essa non è la verità ad essere in palio”. In questo modo ci esorta a considerare la necessità di una chiamata alla responsabilità. A volte, i nostri tentativi di deliberazione razionale possono essere confusi, basati su premesse errate o annebbiati dall’interesse personale. Ma qui il problema sta nel ragionare male, ci avverte Bloom, non nel ragionare in sé.
In questo saggio Bloom popone di ricorrere ad una ragione che sceglie come alleata la compassione, ovvero una ragione che scende a patti con le mancanze, con quello che sfugge al nostro controllo e la tesi di Bloom ci riporta alla mente l’ecologia dell’azione di cui parla il filosofo e sociologo francese Edgar Morin: “La nostra realtà non è altro che la nostra idea di realtà […] Il reale comprende un possibile ancora invisibile e che diventa visibile negli imprevisti, nelle incertezze, nelle situazioni complesse” 2, può diventare visibile nel ricorso alla compassione, vicina al mistero dell’uomo più della ragione.
Il sentimento della compassione che partecipa della ragione ci può consentire di riconoscere la verità etica. M. Nussbaum, in “Terapia del desiderio”, sostiene che: “esaminare la realtà senza ricorrere alle emozioni comporterebbe la mancanza di una parte di verità: sentimenti, esperienze emotive fungono, infatti, da guida verso la realtà etica” 3. La compassione alleata della ragione può quindi diventare elemento costitutivo e determinante su cui basare la vita morale, evitando il delirio di onnipotenza della ragione, perché è più vicina al mistero dell’altro e ricorda come ogni percezione della realtà comporti sempre una parte di inconoscibile. F. Abbate, in “L’occhio della compassione”, sostiene che la compassione si basa sull’atto dell’immaginazione, “per cui ha la capacità di figurarsi e di comprendere emotivamente la complessità umana, i bisogni e i desideri degli individui e le circostanze materiali in cui essi agiscono.” 4
All’immaginazione fa riferimento Bloom in questo saggio quando sostiene che attraverso di essa “l’empatia può essere coltivata, arginata, sviluppata ed estesa”e, nel suo saggio precedente, “Buoni si nasce” conclude scrivendo che: “la nostra morale […] è il risultato della compassione, dell’immaginazione e della nostra straordinaria capacità di ragionare.” 5
Perché Bloom accenna anche in questo saggio all’immaginazione, in modo conciso ma esplicativo? L’immaginazione, “regina del vero” per Baudelaire, è uno sguardo che consente di attingere ad un vero nascosto, in attesa di rivelazione e che ci chiama a non essere inerti e ad usare l’immaginazione per raggiungere la realtà che resta opaca. L’immaginazione è trasformativa, evoca possibilità, aprendo a nuove prospettive ed è valutativa. Edgar Allan Poe in “I delitti della Rue Morgue” sostiene che: “L’uomo veramente d’immaginazione non può essere che un analista.” 6
Bloom, infine, per meglio farci comprendere la scelta del ricorso alla compassione come alleata della ragione, evidenzia la distinzione (supportata da ricerche di neuroscienze) tra empatia e compassione, che è cruciale per ciò che si prefigge di dimostrare in questo saggio. La compassione non richiede il rispecchiamento nei sentimenti dell’altro, che è implicito invece nell’empatia. Il più delle volte è proprio il rispecchiamento ad impedire ai genitori, ad esempio, di infliggere ai figli sofferenze temporanee per il loro bene. Invece, questa scelta educativa è resa possibile “dall’amore, dall’intelligenza e dalla compassione”.
La compassione è un sentimento “per” gli altri (a differenza dell’empatia che è un’emozione “con” gli altri) che ci consente di aprirci all’altro, alla sua situazione, ed implica non solo la capacità di distinguere l’altro come diverso da sé, ma anche e soprattutto la capacità di decentrarsi da sé, di assumere la prospettiva dell’altro. Bloom, nel descrivere come sia stata esplorata la differenza neurologica tra empatia e compassione in una serie di studi fatti con la fMRI (risonanza magnetica funzionale), ne evidenzia la differenza neurale: mentre l’allenamento all’empatia porta ad una accresciuta attivazione dell’insula e della corteccia cingolata anteriore, l’allenamento alla compassione induce, invece, l’attivazione di altre parti del cervello, come la corteccia orbito-frontale mediale e lo striato ventrale.
Studi ulteriori hanno dimostrato come l’allenamento alla compassione aiuti a gestire meglio le situazioni di stress ed apra molte opportunità allo sviluppo mirato di emozioni e motivazioni sociali adattative, il che può essere particolarmente benefico per persone che lavorano nel settore dell’assistenza o in ambienti generalmente stressanti. Contrariamente all’empatia che, invece, può essere spesso causa di quello che viene definito “stress empatico” che, se vissuto cronicamente, comporta, di frequente, degli esiti negativi per la salute. Assorbire in maniera esagerata la sofferenza degli altri può causare burnout o portare ad una condizione descritta da Bloom e definita da V. Helgeson e H. Fritz “comunione non mitigata”, ovvero “un eccessivo interessamento verso gli altri e una tendenza a mettere i bisogni degli altri prima dei propri”. In questo tipo di relazioni asimmetriche si presta molta cura agli altri e poca a se stessi, ciò che è causa di stress empatico con effetti negativi a lungo termine e minore efficacia nell’aiutare gli altri.
Bloom fa appello ad una compassione sostenuta dalla ragione, avvicinandosi all’affermazione di M. Nussbaum, che definisce la compassione come un’emozione razionale, che include il pensiero e che, per questo motivo, può essere educata a superare i confini angusti del sé, in quanto “la compassione […] spinge i confini del sé ad espandersi ancora.” 7
La bellezza del saggio di Bloom, a mio parere, sta soprattutto nella capacità di smuoverci e di indurci alla riflessione, stimolandoci ad interrogarci fin dal titolo del saggio. “Contro l’empatia” forse non vuol dire semplicemente “sono contrario all’empatia”, ma è piuttosto una domanda nascosta, che attinge al significato latino di contrarius, ovvero che sta di fronte, quasi a chiederci: “Scegli di stare di fronte all’empatia? Ovvero scegli di lasciare che tutto sia confinato al ruolo dell’empatia – semplice presupposto della comunicazione e comprensione intersoggettiva – o scegli di superare il limite di questa visione e accogli la mia sfida al movimento e all’azione?
La compassione è movimento. Mentre l’empatia si sviluppa entro i confini del sé, facendo in modo che le emozioni dell’altro vengano sì condivise, ma nello spazio del sé (che, in caso contrario, risulterebbe impenetrabile), la compassione “espande i confini del sé”, come sostiene M. Nussbaum. La compassione, quindi, comporta un movimento da sé verso l’altro, sposta il baricentro emotivo, realizzando un decentramento in cui la propria vita si espande, incontrando e sorreggendo l’altro nella sua forma più vulnerabile ed esposta. Compassione deriva dal latino cum patior e patior non vuol dire solo patire, ma anche sostenere. Per questo ritengo che la compassione si possa considerare, in questa epoca di fragilità spirituale, quasi un incontro mistico nel dolore dell’altro perché, attraverso la compassione, è possibile sostenere insieme l’incontro del segreto costitutivo dell’altro, la vicinanza del suo mistero. In questo movimento, che contrasta la stasi dell’anima che affligge questo nostro secolo, il soggetto, ritornando a sé, si può riconoscere portatore della stessa fragilità, scoprendo un sé di cui poter avere compassione. La compassione è dunque il massimo movimento che si possa compiere, perché pensato ed orientato. Ma per essere efficace ed evitare di trasformarsi in sterile pietà, anche la compassione da sola non è sufficiente. La risposta a cui Bloom ci chiama dipende da ciò che vogliamo davvero. Bloom ci pungola: “Se vuoi il piacere del contatto umano fai pure e dai qualcosa al bambino (che muore di fame), forse per sentire una vibrazione quando le vostre mani si toccano, un calore che rimane con te mentre ritorni in hotel. Ma se vuoi fare davvero qualcosa per migliorare la vita delle persone, fai qualcosa di diverso.” Bloom ci invita ad una compassione che partecipa della ragione, accompagnandoci verso una visione cognitivo-valutativa della compassione che, in questo modo, può costituire sicuramente una risorsa e la base per la moralità. In “Teoria dei sentimenti morali” Adam Smith sottolinea che “la compassione assume il punto di vista dello spettatore, formulando il miglior giudizio che lo spettatore possa offrire su ciò che sta realmente avvenendo alla persona, anche quando esso differisce dal giudizio della persona stessa.” 8
Thích Nhất Hạnh, monaco buddista vietnamita, ritiene che la compassione sia un verbo, la compassione è allora azione. Bloom sostiene che la ragione è il luogo della vera azione, ma ammette che la ragione sia alleata della compassione, riconoscendo implicitamente azione anche al sentimento della compassione.
Nel “Faust” di Goethe, il protagonista, ad un certo punto, si interroga sulla frase del Vangelo di San Giovanni: “In principio era la Parola” (Gv 1,1) e dice: “Non posso dare alla parola un valore così alto; forse devo intendere il senso; ma può il senso essere ciò che tutto opera e crea? Si dovrà allora dire: In principio era la Forza? Ma no, un’improvvisa illuminazione mi suggerisce la risposta: In principio era l’Azione”. Bloom sembra richiamarci a questo principio, da cui tutto ha origine. Il neuroscienziato Gazzaniga sostiene, infatti, che l’azione efficace è il fine ultimo di tutta l’elaborazione interna. Concetto che mi permetto di estendere anche alla dimensione morale. Quella di Bloom è una chiamata ad un’azione morale efficace e la dimensione morale trova la sua efficacia se si mettono in campo autocontrollo, ragione e compassione secondo la tesi di Bloom. Io sono con Bloom.
1 Saggi 1945-1985 a c. di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995
2 E. Morin, “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”, Raffaello Cortina, Milano 2001
3 M. Nussbaum, “Terapia del desiderio”, Vita e Pensiero editore, Milano 1998
4 F. Abbate, “L’occhio della compassione” Edizioni Studium Roma, 2005
5 P. Bloom, “Buoni si nasce. Le origini del bene e del male”, Codice Edizioni, 20148
6 Edgar Allan Poe, “I delitti della Rue Morgue”, Mursia editore, 2007
7 M. Nussbaum, “L’intelligenza delle emozioni”, Edizioni Il Mulino, 2009
8 A. Smith, “Teoria dei sentimenti morali”, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 1995
“Contro l’empatia” di Paul Bloom, Liberilibri edizioni, 2019
Giorgia Zecca (Taranto, 1995) dipinge con la luce, non la fotografa soltanto. Gli scatti della reflex come colpi di pennello, i tagli delle foto e le sovrapposizioni come si modella un blocco con lo scalpello, e la luce è il solo vero colore, tutti gli altri ne risultano diluiti, sciolti in quella radiazione luminosa riflessa nell’iride verde degli occhi di questa artista di soli 22 anni, che mentre mi descrive la finalità della sua composizione sul Mediterraneo “Il borgo/Il mare/La luce” è seria, attenta, concentrata su quelle foto, ferma nella sua postura eretta, come stesse ancora catturando altro di quella luce. Un diaframma i suoi occhi mentre mi parla e poi sorride con tutta l’innocenza dei suoi anni e la verità dell’arte si palesa per un istante: l’artista ferma, seria, concentrata è qualcosa di più grande dell’uomo eppure è nell’uomo ed è un mistero che si manifesta quando l’occhio dell’artista si impasta con la materia dell’arte e le dà forma.
“Il borgo/Il mare/La luce é un trittico che nasce dall’esigenza di mettere in luce la mia percezione dei luoghi bagnati dal Mediterraneo che ho visitato nel corso della mia vita. Attraverso la sovrapposizione di più immagini, ho creato dei paesaggi ideali, uno per ognuna delle tre dimensioni comuni in tutti quei luoghi: il tipico borgo di pescatori con arcate e vicoletti, gli scogli e le rocce che portano il segno della presenza del mare e le caratteristiche case bianche che riflettono l’accecante luce del sole.” (Giorgia Zecca)
La sovrapposizione delle foto che Giorgia realizza cerca l’incastro perfetto della luce. La combinazione fotografica salda i frammenti, le zone di confine perdono la loro delimitazione creando una capsula temporale che amplifica il potere dell’immagine nella sua possibilità di espansione e il raggio che si disperde nei margini di una foto è nell’altra che si rigenera e si rafforza. C’è un luogo in cui si dipinge, passa attraverso gli occhi e nel trittico dell’artista Zecca trovano nuove conferme le parole dello scrittore e filosofo tedesco Ernst Jünger: “L’ottica esteriore dipende da quella interiore e non viceversa”.
Nell’osservare il trittico di Giorgia Zecca il nostro sguardo non si ferma sull’immagine, ma la attraversa perché l’artista utilizza il plexiglass come supporto fotografico, la cui trasparenza rappresenta un’artificiale “mente vergine vuota” che ci consente di guardare oltre, ponendo il soggetto artistico quasi sull’orlo del vuoto, orfano di un supporto, fragile, sospeso. Il Mediterraneo diventa per Giorgia un luogo mentale, uno spazio di ricerca, mare che vediamo solo e ancora “attraverso”…attraverso la traccia che ha lasciato nel tempo su quegli scogli in cui immoto e movimento sono irrimediabilmente uniti come lo sono nelle camere dell’anima. Fotografa l’anima degli spazi Giorgia, per questo i volti sono inaccessibili, esistono solo a distanza. La foto, “liberata” dalla carta, lascia che ne affiori la profondità del mistero a cui veniva impedita l’emersione in superficie, generando un’emozione, la più accesa di tutte: la nostalgia di un invisibile di cui quella luce ci dà percezione. La luce, nelle foto di Giorgia Zecca, è un’esperienza.
Così diceva Cézanne (“Cézanne. Dialogo di un’amicizia” di Joachim Gasquet, Edizioni Mimesis, 2010):
“Chiuda gli occhi, attenda, non pensi a niente. Li apra […] che dice? Non si vede che un immenso ondeggiare colorato, no? Un’iridescenza, dei colori, una ricchezza di colori. Questo deve darci il quadro in primo luogo […]un abisso dove l’occhio sprofonda, una sorda germinazione. Uno stato di grazia colorato. Tutti questi toni vi penetrano nel sangue, vero? Ci si sente rianimati. […] si diventa se stessi, si diventa pittura.” …
…Si diventa fotografia.
Dall’Accademia di Belle Arti di Bologna, un’artista da tenere d’occhio assolutamente: Giorgia Zecca, che dipinge con la luce.
Gabriella Grande
“Il borgo” (2017), Foto stampata su plexiglass, 50×125 cm
“Il mare” (2017), Foto stampata su plexiglass, 50×125 cm
“La luce” (2017), Foto stampata su plexiglass, 50×125 cm
Ci sono libri come attraversamenti e copertine come spazi di confine, superati i quali non ci sarà niente a proteggervi dall’alcool delle parole che iniettano versi come un veleno di verità. Continua a leggere Inferni in cerimonia di Antonino Bondì→
“Non posso osare parole scritte,/ tu lo sai meglio di me./ Non sono capace dei loro silenzi/ non conosco i ricami del vuoto/ né i grandi camini splendenti / con i ciocchi ben sistemati senza fiamma. / Per rendere grazie a te, / mia dolce presenza intensa e buona, / sussurro uno di quei fermi, risoluti respiri/ che sembrano annunciare il pianto,/ ma hanno un berretto di sorriso in capo lieve, / lieve/ e lieve faccio la voce,/ il mio traballante ponte tra te e te”.
Non troverete poesie scritte, i versi di Pelini sono cantati unicamente dalla sua voce, per non dare fissità alla fluvialità del suo spirito poetico , per non darle corpo, confine e forma statici, come se la scrittura potesse spogliare le poesie del senso di cui sono portatrici. Continua a leggere IL GATTO di Domenico Pelini→
“Vieni più vicino,/ ti soffierò sul viso/ malinconia amorosa […] Ti mostrerò, perché tu creda,/ l’ottavo colore dell’arcobaleno” (XXXI). Ricorderemo che sono sette i colori che l’occhio umano può registrare in uno spettro continuo e proprio allora, fermi su quel verso, nel cercare di capire, cominceremo il nostro “salto nel vuoto” che solo alla fine ci mostrerà ciò di cui il poeta Andrea Bassani ci ha inconsapevolmente messi in cerca. Continua a leggere LECHITIEL di Andrea Bassani: UN’ELLISSE D’AMORE→
Avrete voglia di rileggerlo, perché quando sarete arrivati al punto dell’ultimo rigo dell’ultima pagina vi mancherete. Sì, vi mancherete, perché “Grandi momenti” di Franz Krauspenhaar ci ricorda che ci siamo persi, cedendo il diritto di vivere alla paura, alla delusione, alla rabbia. La sua scrittura brucia come una ferita segreta, che è poi ferita di tutti anche se, a volte, ne siamo a malapena consapevoli, e attraversa il vuoto in una solitudine proverbiale, imprimendo sulla pagina bianca la verità delle colpe del mondo che sembrano saltare addosso “come una muta di cani”, che apre le fauci per ricordarci che
“siamo tutti vittime di questa vita. Agnelli sacrificali di una pasqua che, a ogni insorgere, ci trova soli, incapaci di renderci felici.”
Materia narrativa incandescente frutto dell’inquietudine e della consapevolezza del poco tempo che ci rimane a disposizione, per vivere e non solo sopravvivere. Ad una lettura superficiale questo romanzo racconta la storia di Franco Scelsit, uno scrittore cinquantenne, appassionato di macchine anni ’60, che vive con la madre ed il fratello e la cui esistenza viene stravolta da un infarto che lo costringe a ripensare alla sua vita e a condividerla, per qualche tempo, con un gruppo di persone che hanno dovuto affrontare la stessa brusca frenata del cuore. È uno “scrittore vero, scrittore dentro” che, pur credendo nel suo talento, vede arrivare il riconoscimento economico solo quando, svalutandosi “ai suoi occhi”, accetterà di pubblicare per un editore da autogrill, sotto pseudonimo, thriller senza nessuna avventura del cuore, perché “il mondo della cultura è strano. Si dibatte nel nonsenso, nella incongruenza si frulla e impazzisce come maionese acida”.
Ma “Grandi Momenti” non è solo questo…è molto di più! È un infarto dell’anima, di un uomo che ama la vita disperatamente, ma che resta intrappolato nella rete della disillusione; è un urlo interiore fasciato da una forza ostinata e da una volontà percossa ma che sa e vuole resistere, ferma davanti ad un “senso di fine” che scava, come le parole che Krauspenhaar sceglie con cura, con precisione chirurgica e con la bellezza con cui solo la poesia, di cui Krauspenhaar è capace, può cucirle. È “l’urlo della nostra disperazione, del dolore che ci invade anche solo come idea”, mentre fuori e interiormente “è quasi freddo” e “il tempo è evaporato” a smaltire la vita in una realtà stretta, chiusa, impenetrabile in cui “tutto vive e tutto muore in quel momento” e in cui il nulla è in agguato come un predatore. Franco Scelsit è un reduce della guerra che è la vita, soldato che combatte da solo una guerra che per molti è finita già da un pezzo. È un manifesto vivo del furore murato in una mente lucida, tagliente e vigile di un combattente che si è imposto di rinunciare a tutto pur avendo ancora “sete” di “desiderare di desiderare” in un mondo in cui “ottieni e non desideri, o fai finta di desiderare.” Franco Scelsit vive come un equilibrista, in bilico tra due vite “una dentro e una fuori”, accucciandosi poi, per proteggersi, nel guscio della sua famiglia. Una madre apprensiva, ma dalla grande forza interiore, un fratello che ha fatto della sua creatività una bolla da cui osservare il mondo con la saggezza di chi ne ha operato un distacco volontario e Franco Scelsit : marinai, soli nel loro corpo, su una zattera di familiare sicurezza e che, stretti nell’ amore sincero che nutrono l’uno per l’altro, azzerano, anche se solo per poco, il rumore del grido delle loro ferite, per le quali non c’è balsamo. La verità della sua essenza Franco Scelsit la trattiene chiusa dentro di sé, comprimendo l’immensità del suo essere nello spazio del suo corpo di cui ne ha fatto un bozzolo: “io sono qui, dentro di me” , mentre all’esterno cede solo il suo riflesso deformato dagli specchi frammentati dell’editoria e della cultura, di “un mondo ormai infossato senza emozioni, senza vere dannazioni” in cui si può finire per pensare di non desiderare altro “che prolungare” se stessi “dentro un burrone”. Ed è la fine desiderata per sé quella a cui condannerà, invece, la sua Jaguar di cui parla come di se stesso quando si legge: “una belva così non può carcerarsi” per poi inabissarla in un burrone. Krauspenhaar ci lascerà oscillare nello spazio sospeso tra la sua ironia reattiva e una rabbia carica d’amore di un cuore che “è una belva fuggitiva” (come recita un verso di una poesia di Krauspenhaar) in esilio dalla realtà per recuperare la verità e il senso delle cose, per stanarla come una preda, la più difficile da catturare nei miraggi del deserto di una vita che attraversa, stando sempre “dietro a se stesso e ai suoi fantasmi”, ustionato dal distruttivo bozzolo di un passato da cui si lascia risucchiare e che innesca cortocircuiti di vertigini interrogative. Il rumore del passato soffoca il futuro e falcia il coraggio di andargli incontro. Il pensiero conflagra più volte nelle fiamme della visione di una lepre in cui riconosce la figura del padre, la cui morte ha segnato la fine della sua giovinezza. In queste visioni recide e riallaccia all’infinito il suo rapporto con la figura paterna, la cui presenza non si sfila dalla sua mente, indebolendola progressivamente. La scrittura insegue una mancanza e non cura il dolore di questo distacco, non restituisce quella testimonianza etica all’agire del padre, che sarebbe invece necessaria al figlio per poter finalmente assumere i suoi valori senza sentirsi in colpa e per riuscire ad interiorizzare la figura paterna come uno scudo e non come una “lepre” sfuggente, la cui immagine si associa all’angoscia di vederla scomparire da un momento all’altro. Franco Scelsit è un Orfeo che si volge indietro e non per guardare il bel volto di Euridice ma per chiedere al passato la via più giusta, una nuova possibilità, invece di restituire l’ assenza al suo posto; l’assenza deve restare alle spalle, perché avanti può esserci ancora tutto. Non c’è scampo allora per Franco Scelsit, come non ce ne fu per Orfeo? In questo caso c’è salvezza. Ha una funzione di compensazione il ritorno al passato. Costringe il futuro a rallentare, è un’operazione di scrittura che in questa “follia” dell’oscillare tra presente e passato, crea uno spazio di sospensione per il protagonista e per il lettore che indica una via di salvezza: rallentare è la salvezza, rimettendosi in ascolto del proprio ritmo interiore e non del passo della rincorsa del tempo. A suggerirlo è la musica che accompagna l’intera trama del romanzo. È la musica, consolazione e compagna fedele in queste pagine, pausa del pensiero in cui Franco Scelsit ed il lettore respirano, ad aprire la via, a rivelarci il segreto. È musica che ha la potenza di una religione, è l’entrata di una voce, l’ultima…che sembra dire: danza la vita, segui il ritmo, respira, rallenta e vivrai quei grandi momenti che aspetti, perché “alla fine, si va dove ci aspettano i sogni.”
“Prendi la lampadina ancora accesa” ed entriamo in questa prosa poetica come in un Tempio in cui il poeta Pier Damiano Ori celebra la fenomenologia del quotidiano, con la sobrietà dei filosofi, mentre aspetta. E l’attesa si consuma sulla soglia di una domanda: “È la morte che ci sta davanti? O è il futuro?”. Abbiamo poco tempo per rispondere e “nessuno ha il potere di infrangere quelle porte” mentre il tempo e il soggetto mutano continuamente, a testimoniare che “la storia è adesso”, in un presente in cui c’è tutto, ma un tutto che è “finito in un motore spento”. Lucida prosa poetica che si scrive mentre scende la notte ad azzerare tutte le immagini, lasciando solo la “vista ad occhi chiusi” e “tutta intera la paura della fine”. Però a sorprenderci, tra le rotonde e gli svincoli di questi versi, non troveremo la morte, ma il distacco e avremo freddo in questa solitudine in cui ognuno ha il suo posto, un orizzonte soggettivo e confini incerti. Ognuno ne traccia i propri, chiuso in se stesso, nella sua tempesta, e non c’è sguardo che s’incontri e si riposi nell’altro. Ad incrociarsi sono solo le paure mentre ognuno è vinto in se stesso, “fissandosi allo specchio”. E la vita è un’opera chiusa in cui accordarsi sulla fine e sull’inizio è impossibile. Ori questo lo sa, non lo dimentica mai, e decide che è possibile solo aspettare senza però aspettarsi qualcosa. È un’ attesa in cui il poeta lascia che dorma un desiderio che ci concede di intravedere in quegli spazi lasciati, di tanto in tanto, tra le parole; spazi più lunghi, pause tracciate da un pensiero zuppo di un desiderio che intasa il cuore, senza tormentarlo. È un’attesa pacata, “tenue”, priva di polemica e che richiede una “sontuosa forza d’animo” ed un posto, che, per Ori, è rappresentato dal soggiorno/salotto. Ma “i luoghi sono diversi se lo vogliamo” e per Ori, infatti, quel luogo non è più solo un posto fisico, ma uno spazio in cui lui s’infila e quasi scompare “nella giostra dei suoi pensieri”. Ed è proprio il pensiero la forza e il carburante del poeta. Il discorso poetico di Ori ci suggerisce uno stretto collegamento tra pensiero ed organi di senso. L’effetto della funzione di un organo trova il suo significato nel pensiero, che capta il senso profondo della manifestazione delle cose e degli eventi. Da qui, credo, il titolo di questa raccolta, “Occhio e orecchio”. Il poeta è “orecchio attento”, inteso come ascolto profondo della voce e del significato delle cose, mentre con l’ “occhio” della mente si apre alla visione di un mondo in cui “c’è il sole” e “un fuoco sempre acceso”. Ma Ori ci avverte che “non tutto il calore scalda davvero” ed è per questo che, mentre il “mondo apre la finestra in cerca di gelo vero” e usa il sonno come un’arma, “la finestra a tutta parete” del poeta è chiusa. Non è un riparo dal sole, ma dal “ghiaccio unito al sole”, non è un voltare le spalle al giorno, ma al vuoto…Mentre aspetta, ma cosa? La “chiave nella toppa del portone” che dischiuda quel suo mondo di solitudine, che lo faccia risvegliare, restituendogli l’impulso e i colori della giovinezza nel pensiero, colori che sono assenti ormai. Dalla sua attesa ci congeda con un saluto ed una domanda: “Sei cresciuto?”. E mentre ci interroga, ci lascia più ricchi, di versi che hanno il peso e il valore di un’eredità: “Se qualcuno ti chiama per nome, rispondi sempre”, “se no chiudi la porta e non scordarti mai”.
“Viene buio presto” ci avverte il Premio Nobel per la Letteratura 2014, Patrick Modiano, la cui scrittura è un vero e proprio atto di resistenza a qualsiasi forma di oblio, in questo romanzo in cui lancia appelli “ai margini della notte”, segnali di luce emanati dalle parole per sciogliere quel grumo di ignoto e di silenzio in cui si sono perse le tracce di “una ragazza di 15 anni, Dora Bruder, m 1,55, volto ovale, occhi castano-grigi, cappotto sportivo grigio, pullover bordeaux, gonna e cappello blu marina, scarpe sportive color marrone. Inviare eventuali informazioni ai coniugi Bruder boulevard Ornano 41, Parigi”. Da questo annuncio nella rubrica intitolata “Da ieri a oggi” di un vecchio numero di Paris-Soir del 1941, e letto da Modiano quasi 50 anni dopo, prende avvio il suo faticoso atto di investigazione privata per raccogliere le tracce residue di Dora, un’adolescente ebraica di origine francese in fuga nella Parigi dell’Occupazione, forse con l’illusione di sfuggire ad Auschwitz.
L’estrema precisione dei dettagli di quell’annuncio ossessiona l’autore, attratto dai vuoti di questa storia come da un campo magnetico il cui orlo irradia una solitudine che è un richiamo, un appello. Ben poco, però, sapremo di Dora, anche al termine di questa lunga indagine durata 8 anni e dominata dalla “vertigine” di un’inquietudine che scuote nel profondo, la fatica di un pensare che si interroga senza sosta, pur consapevole del rischio ogni volta in agguato di una mancanza di risposte e di una ricerca senza ricompense.
Patrick Modiano cerca indizi, i più lontani nel tempo, effettuando ricerche in uffici, tra documenti personali, lettere, testimonianze, registri di polizia e archivi, ma dopo anni raccoglie solo lacunose ricostruzioni. Viene a conoscenza di date, trasferimenti, domicili a cui tuttavia non corrispondono più i luoghi in cui lei ha vissuto. La narrazione non presenta una struttura lineare ma si dispiega simultaneamente su diversi piani temporali.
Dimensione storica, episodi autobiografici e riferimenti intertestuali si intrecciano. L’effetto è quello di una narrazione frammentata, un’artificiosa dispersione che è essa stessa ancora una fuga, quella dell’autore, da ogni pretesa di irrigidimento del testo in categorie definite.
Del dossier documentario sviluppato nel romanzo fanno parte anche alcune foto di Dora e della sua famiglia: Modiano non le inserisce nel testo ma preferisce restituirle fin nel dettaglio attraverso una descrizione minuziosa, come se solo le parole potessero ridare dignità a quei corpi prima annientati come esseri umani, trasformati in “Stücke” (pezzi), e poi svaniti come ombre nel fumo dei forni crematori.
Se scorrerete queste pagine cercando di sapere “chi era” Dora Bruder nella sua essenza, resterete delusi. Vi sembrerà di essere stati vittime di un inganno dell’autore, vi parrà che invece di colmare un vuoto, egli lo abbia disegnato ancora più nitidamente e giudicherete questa ossessiva ricerca, vana e sterile. Ma non è così. Modiano ci offre molto altro: riconosce e restituisce una presenza, dimostra e attesta che Dora “è stata” un essere umano, con la sua identità, dignità, umanità e con un suo segreto, “povero e prezioso segreto”, che resterà per sempre silenzioso, inattingibile. Di lei non conosceremo che il suo passaggio, intriso di “mesta tenerezza”, cosicché sembra scritto per lei il verso di Baudelaire: “Un lampo, poi la notte! – Bellezza fuggitiva” e il vuoto che lascia è ancora e di nuovo “vertigine”.