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GIULIO DE MITRI. “Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento” (Catalogo, Crac, 2019)

di Gabriella Grande

Sere fa, nella frenesia dei saluti e nella gioia degli sguardi, sono stata arricchita del regalo inaspettato di un libro, entrato, con emozione, poi, a far subito parte del mio giardino di nutrimento e riparo: il Catalogo del Maestro tarantino Giulio De Mitri, Presidente del CRAC Puglia di Taranto (“Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento”, Crac, 2019), che raccoglie testimonianza fotografica e bozzetti di due sue installazioni ambientali, del 2019, presentate in occasione della III edizione del MAS WEEK 2019, Festival di Architettura, Design e Arte:
“UNO SGUARDO ACCESSIBILE”, realizzata, con rigore tecnico, nel Borgo Nuovo, nelle tre vasche della Concattedrale Gran Madre di Dio e “RICONGIUNGIMENTO”, progettata, invece, nel Porto di Taranto, alle due estremità dei Moli di Sant’Eligio e di San Cataldo.

Purtroppo, non ho avuto occasione di visitare queste due installazioni nel periodo della loro fruizione pubblica ed è, quindi, necessario premettere che per poter dire di conoscere un’opera è assolutamente imprescindibile “incontrarla” nella sua materia viva, nella sua irruzione allo sguardo, in quanto esiste una distanza incolmabile tra l’opera e la sua rappresentazione, sebbene il Catalogo del Maestro De Mitri offra un’accurata e dettagliata galleria fotografica delle installazioni a cui faccio riferimento. Nonostante ciò, mi permetto di parlarne, oggi, solo concettualmente, per esprimere, nel modo che più mi rappresenta, la mia gratitudine per la condivisione della testimonianza cartacea di un atto creativo pregevole e che, ancora oggi, a tre anni di distanza, ritengo possa suggerirci un “modo di stare al mondo” che solo i Poeti come Giulio De Mitri sanno fare.


L’uso sapiente che il Maestro De Mitri, in “Uno sguardo accessibile”, ha fatto della luce monocroma blu, proiettata da 36 fari sulle tre vasche della Concattedrale, le ha permesso di diventare, infatti, materia poetica, accendendo di vitalità autonoma i 36 quadrati specchianti in pvc, di 50×50 cm, con i loro effetti cangianti e mutevoli, poggiati su basi di terracotta nelle tre vasche. Colpiti dalla luce azzurra, in dissolvenza, con le sue infinite potenziali mutazioni in successione, hanno reso possibile l’ interazione con il fruitore e le sue plurime risposte percettive ed hanno definito, nello spazio disegnato da Gio Ponti, un ulteriore spazio di animazione di comunicazione poetica, la sola a portare la forma di un’azione capace, nel medesimo tempo, di captare e mandare segnali ad altissimo contenuto sensoriale in una sequenza di riti di passaggio che sembrano testimoniare come quel che di oggettivo incontriamo, ci colpisce, individualmente, sempre in modo soggettivo e De Mitri, in questa installazione, fa di questa pluralità di attraversamenti un’identità che mi ricorda “Autoritratto” di Luigi Ghirri (Parigi, 1976).
Il messaggio essenziale, a mio parere, sia a livello di metodologia adottata che di essenza poetica, racconta che non dovremmo mai dimenticare, inoltre, che le espressioni individuali germinano da un sostrato di natura e di vissuto, come di storia e di memoria e, partendo da questo presupposto essenziale e ricalcando pienamente, a mio parere, il concetto di Arte dichiarato da Deleuze intesa come “captazione di forze”, l’installazione di De Mitri suggerisce quanto sia ancora possibile per questa Città andare incontro all’espressione della sua identità più piena se si accetta di fare esperienza della soglia non prevista. L’area dei quadrati non trattiene un limite, ma, con la sua superficie riflettente, si impone a guida del nostro sguardo in direzioni diverse da quelle che avremmo seguito spontaneamente. Rappresentano la soglia per andare verso qualcosa, la linea di passaggio verso un diverso “sguardo accessibile” sulle possibilità inespresse, ma rivelabili.
L’utilizzo della sola luce blu, questa scelta della monocromia che si offre ai quadrati specchianti, disposti come totem su cui il colore diventa forma in continuo mutamento, in giochi percettivi sempre diversi, mi rimanda a Yves Klein, il quale affermava che il colore blu fosse differente da tutti gli altri colori perché privo di dimensione, e collocabile, quindi, al di fuori del tempo e dello spazio, collocabile dunque in una diversa dimensione, forse proprio quella della possibilità, nascosta eppure suggerita da De Mitri, di un necessario e salvifico cambio di prospettiva, di un’apertura ad un diverso punto di vista sulle cose.
Le superfici specchianti che riproducono, ad ogni variazione d’angolo, immagini sfocate dell’ambiente circostante, del passaggio degli autoveicoli e dei bus e dello stesso fruitore, non solo restituiscono la complessità e l’ambiguità di quel che si vede e si vive, ma predispongono ad accogliere una gamma di risposte possibili non più lineari come quelle dell’occhio umano, facendo luce su quanto sia importante sfuocarsi, lasciare che i contorni, delle cose come delle posizioni, tremino.

È grande il mio rammarico per aver perso la possibilità di incontrare e di interagire con questa installazione, che tuttavia riesco ad attraversare, oggi, tra le pagine del catalogo, e che sento di definire “l’ora blu”, “l’ora costante” di Ungaretti che sa accendere la notte del pensiero stagnante.

Proprio come avviene nella seconda installazione: RICONGIUNGIMENTO, realizzata al Porto di Taranto, alle due estremità dei moli di Sant’Eligio e di San Cataldo, in cui lo spazio tra cielo e mare diventa una tela su cui ciò che De Mitri disegna mi fa ripensare ai versi di Roberto Mussapi: “una fibra di luce incapace di scindersi, / la nostra origine inglobata in un abbraccio” (Roberto Mussapi,”Le poesie” Ed. Ponte alle Grazie, Milano 2014).
La geometria tracciata dalla proiezione di coni di due fasci di energia luminosa di colore blu definiscono un contorno immateriale capace di ricreare, anche qui, uno spazio nello spazio, la cui immagine si forma e si rivela nel buio, a sottolineare come ci sia una realtá ulteriore a quella visibile e percepibile. I due fasci di luce disegnano un triangolo equilatero che, nel significato simbolico che associa le figure geometriche ai 4 elementi, rappresenta la terra. In questo caso, terra in cui prende forma il punto di equilibrio tra il mondo interno e quello esterno, tra ciò che è rappresentato e ciò che, invece, è lasciato fuori dalla rappresentazione ma che, nonostante tutto, esiste. È, a mio parere, la terra del ricongiungimento delle soglie possibili, quella percepita e quella a cui si deve tendere per andare verso il cambiamento, verso quell’alternativa che De Mitri “caparbiamente rivendica: il diritto e il dovere dell’arte e della cultura di farsi testimonianza attiva per la ricerca di nuovi equilibri di cui, partendo proprio dal suo stratificato passato, il Sud può divenire l’Avamposto (Catalogo “Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento”, Giulio De Mitri, Crac, 2019, pag.13).

BIOGRAFIA di GIULIO DE MITRI

Giulio De Mitri è nato a Taranto. Presidente del CRAC Puglia di Taranto (Centro Ricerca Arte Contemporanea). Ha compiuto studi umanistici ed artistici (Accademia di Belle Arti e Università). È professore ordinario di prima fascia in Tecniche e tecnologie delle arti visive contemporanee all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Impegnato da anni in una ricerca sulla storia e sull’immaginario della cultura mediterranea, protagonista italiano nella creazione di installazioni luminose. Ha sempre lavorato su progetti in grado di generare estremo coinvolgimento emotivo e spirituale nel fruitore, manifestando una sensibilità e una leggerezza che spesso l’arte contemporanea ignora. Ha esposto in mostre personali, collettive e di gruppo ed è stato invitato a numerose rassegne in Italia e all’estero, tra le più recenti si segnala: Mediterranean dream, Pinacoteca Provinciale, Salerno; La seduzione del monocromo, Museo Civico dei Bretti e degli Enotri, Cosenza; Esperidi, Studio d’arte contemporanea “Pino Casagrande”, Roma; Biennali di Venezia LIV e LII per gli eventi: Sguardo contemporaneo, Palazzo Bianchi Michiel del Brusà e Padiglione Italia; J. Beuys. 
Difesa della natura, Thetis, Arsenale Novissimo; XV Quadriennale, Roma; 20 artisti per i 150° dell’Unità d’Italia, Palazzo Reale, Torino; Intramoenia Extra Art (a cura di A. Bonito Oliva e G. Caroppo), Castelli di Puglia; La luce come corpo, Galleria Peccolo, Livorno; XV e XIV Biennale d’Arte Sacra Contemporanea, Museo Stauros d’Arte Sacra Contemporanea, San Gabriele, Isola del Gran Sasso (Teramo); Videoart Yearbook 2007 e 2006, Bologna; Environmental Art Festival Lakonia: arthumanature topos 2007, Sparta, Sellasia e Geraki (Grecia). Dell’ampia bibliografia si segnalano le pubblicazioni più recenti: P. Aita, Accanto al meno, un ipotesi nell’arte contemporanea, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ), 2013; G. Gellini, Temporary Installations /Light Art in Italy 2012, Maggioli Editore, 2013; G. DeMitri / Oltre nella luce, (con testi di P. Aita, R. Barilli, G. Bonomi, V. Dehò, A. Iori C. Spadoni), Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2012; Giulio De Mitri / Il grandemare, Libro d’artista, Edizioni Peccolo, Livorno, 2012; B. Corà, Giulio De Mitri / La luce come corpo (con testi di R. Branà, L. Canova, B. Corà, L. P. Finizio, B. Tosi), Edizioni Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; T. Coltellaro, Fatti d’Arte, un percorso nel contemporaneo tra arte, società e territorio, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2010. 

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AURELIO AMENDOLA. “Un’antologia. Michelangelo, Burri, Warhol e gli altri”

Celebra 60 anni di carriera del Maestro della fotografia Aurelio Amendola, la Mostra antologica a cura di Paola Goretti e Marco Meneguzzi, visitabile nelle sale del Castello Svevo di Bari fino al 25 giugno 2022.

Un allestimento che si attraversa in punta di piedi, raccolti in se stessi come in poche Cattedrali in cui la Bellezza è più forte della voce dello stupore.

Potrei anticiparvi che incontrerete straordinari ritratti d’artista, immersive foto di architettura e della più grande opera di Land Art esistente al mondo (il Grande Cretto di Ghibellina di Alberto Burri), originali punti di vista di sculture del Rinascimento italiano (che Amendola disegna con la luce come Van Gogh racconta, in una lettera al fratello Theo, di fare con i tronchi dei salici: lavorandoci “finché non c’è dentro un po’ di vita”), incursioni nell’Arte Contemporanea e nel bianco e nero del Maestro Amendola che si traduce in un vero e proprio atto creativo.

Potrei preannunciarvi i suoi happenings e la potenza con cui, tra gli altri, documentano Alberto Burri che, nel suo studio di Città di Castello, attraversa l’obiettivo con la ferita della combustione, Claudio Parmiggiani che crea e si sottomette alla scheggia e ai frantumi del suo labirinto di cristallo, Mario Ceroli (che Achille Bonito Oliva chiama “l’archi-scultore”), le cui grandi ali di farfalla, intagliate in legno in un’alternanza di pieni e di vuoti, sembrano legare, con un respiro, empirico e trascendente.

Potrei… Ma non racconterei comunque nulla dell’esperienza che farete davanti ad ogni singola fotografia, che diventa essa stessa “corpo”, ridefinendo il significato comune della fotografia.

È alterità radicale che supera il margine tra simbolico e reale che fa, generalmente, da scudo tra l’osservatore e l’oggetto o il soggetto rappresentato. Ad ogni scatto, ritroverete amiche le parole che Lacan scrisse nel Seminario VII: “Mi è estraneo, eppure al centro di me”.

Gabriella Grande

BANSKY. REALISMO CAPITALISTA

di Gabriella Grande

L’intento dell’arte è che sia “collante tra il presente dell’opera e il futuro delle sue reazioni”, “la via possibile di una nuova coscienza civile per aprire lo sguardo e accendere la fiamma del giudizio critico 1, per questo ha sempre senso allestire una Mostra sullo street artist Bansky e, in particolar modo, ne ha quando la progettazione e l’ideazione dell’allestimento è eccellente come in questo caso.

È molto più di un benvenuto quello che troverete ad accogliervi nel lavoro Welcome, multiplo in edizione limitata proveniente da una collezione privata (uno zerbino su cui è stata cucita la scritta che dà il titolo al lavoro, utilizzando il tessuto di giubbotti di salvataggio abbandonati sulle spiagge del Mar Mediterraneo), all’ingresso della Mostra su Bansky, in esposizione a Bari, nello spazio polifunzionale del Teatro Margherita fino al 12 giugno 2022, curata magistralmente da Stefano Antonelli e Gianluca Marziani. È, piuttosto, la scelta di predisporre il fruitore ad un potente atto di comunicazione che ha inizio con un’offerta che chiama subito alla responsabilità.

Welcome apre le porte dell’universo banskyano, offrendo la singolare occasione di acquisire un collettivo giubbotto di salvataggio per attraversare la realtà e le leggi di potere che la dominano, a cui, in più ambiti, si soccombe quasi inconsapevolmente, come sembrano ricordare le cuciture che legano il giubbotto di salvataggio al tessuto di una terra che si proclama accogliente e salvifica, ma che, nel concreto, imprigiona e rischia di far annegare il pensiero critico. È quanto suggerisce, a più riprese, la scelta delle “opere” con cui è stato allestito il primo modulo della Mostra.

Ma chi è a dirci questo? Si possono avanzare solo ipotesi sull’identità di Bansky.

Antonelli e Marziani, nel pannello introduttivo, paragonano Bansky ad “un fantasma” e le sue opere a delle “tracce”.

Se si conoscesse la sua identità, si potrebbe forse arrivare anche a comprendere le motivazioni personali della sua espressione artistica. Rimanendo un’incognita, invece, le sue motivazioni più profonde restano al di fuori di tale comprensione e la sua unicità, in quanto individuo, conserva uno spazio etico non rappresentabile e quindi non violato. Probabilmente, è questo il primo messaggio che Bansky vuole esprimere con la sua scelta. Diane Perpich afferma che “il volto dell’altro è l’immagine dell’alterità assoluta e della singolarità non rappresentabile”. Bansky sceglie, quindi, di non essere rappresentabile, difendendo in modo radicale il valore della singolarità e lanciando così un primo elemento di sfida: una comprensione profonda condivisa della singolarità è possibile? Bansky non confeziona risposte, ma privilegia la domanda ed è per questo che alla sua sfida risponde con un ulteriore domanda a cui ci inchioda, lungo il percorso della Mostra, davanti a CND Soldiers (serigrafia su carta proveniente da una collezione privata, riproduzione di uno stencil realizzato da Bansky nei pressi del Parlamento britannico nel 2003 e rapidamente rimosso dalle autorità), due soldati che temono di essere scoperti mentre disegnano il simbolo della pace su un muro. Ci strappano istintivamente un sorriso che, però, presto diventa amaro nel constatare come l’apparente incompiutezza del gesto sia, in realtà, la mutilazione di un desiderio rivelatore, nella rappresentazione, del modo in cui opera il potere mediante la presentazione dei fatti in ogni contesto, senza escludere nemmeno quello familiare.  La serigrafia su carta Jack and Jill (collezione privata), in cui due bambini saltellano giocosi in una pozzanghera d’acqua, indossando giubbotti antiproiettile con la scritta “Police”), denuncia, infatti, il pericolo di considerare i figli (il futuro) un’estensione delle proprie categorie, dei propri punti di vista, dei propri bisogni, del personale modo di percepire la realtà e chiama alla responsabilità di non imprigionare l’altro fino a renderlo qualcosa di controllabile, annientandone le possibilità, come si impegnano a fare alcuni genitori “disposti a fare qualsiasi cosa per i loro figli, tranne lasciarli essere se stessi” (come sottolinea Bansky con estrema schiettezza, nel suo libro “Wall and piece”), o come ci riconosciamo a fare noi quando crediamo superficialmente di conoscere quale sia il bene per l’altro senza averne chiesto il parere. Accade nella vita privata, come nella politica e nella religione. Bansky ci chiede di muoverci oltre ciò che crediamo di conoscere e di accettare la sfida di sanare il conflitto tra etica e conoscenza che, utilizzando dei modelli, è, spesso, pericolosamente applicabile.

A questo punto del percorso di presa di consapevolezza a cui si è accompagnati nella Mostra, a mio parere, l’intervento dei curatori offre, in modo straordinariamente efficace eppure non invasivo, una fondamentale chiave di lettura del messaggio banskyano, scegliendo di esporre un’opera di Brad Downey dal titolo Flying Copper,  risultato della “riconfigurazione” di alcuni dei classici stencil e dei tre grandi Flying Copper sormontati dalla scritta “Every picture tells a lie” che Bansky aveva realizzato, diversi anni prima, nella stessa sala (della Mostra di Bethanien del 2003),  in cui viene affidato un progetto a  Downey che, trovando le opere ancora lì, sepolte da uno strato di pittura rossa, decide di ridurle in frammenti e riconfigurare un nuovo, gigantesco Flying Copper.

La scelta di far “incontrare” il fruitore con l’opera di Downey verso la metà del percorso della Mostra su Bansky sembra avere lo scopo di sottolineare come la sola presa di consapevolezza (necessaria per modificare certi automatismi) sia solo l’inizio di un percorso che deve condurre al cambiamento. La consapevolezza può essere bloccata, offuscata, come è accaduto alle opere di Bansky in mostra a Bethanien, seppellite sotto uno strato di pittura rossa. Il cambiamento, che parte dalla consapevolezza, richiede poi l’azione, una distruzione creatrice che comprende, quindi, un doppio gesto: un atto distruttivo, o più precisamente decostruttivo (la rottura profonda e permanente della struttura di uno schema) e poi creativo (una diversa risposta allo stimolo, nuova e ribelle).

Quanto ne siamo consapevoli? Bansky lo chiede dando voce ai topi e alle scimmie (che diventano elementi figurativi paladini “di sentimenti di purezza e di integrità morale”), che sembrano rivolgersi ad una società di “cavie” minacciata da un capitalismo assoluto e quindi disperato a cui è asservita fino ad appiattire il desiderio al godimento dell’oggetto che dissolve ogni tipo di legame, finanche con il divino (come in Sale ends today, serigrafia su carta proveniente da collezione privata con la particolarità di non essere mai stata oggetto di esposizione pubblica non commissionata, ma apparsa per la prima volta sottoforma di serigrafia) e con la verità, come in Bomb love (serigrafia su carta proveniente da collezione privata) in cui il contesto storico corrompe l’innocenza e può farlo fino ad ammalarla, mentre dovrebbe nutrirla (come nella serigrafia su carta Virgin Mary – Toxic Mary e nel murales del bimbo che gioca con la neve-cenere, realizzato nella zona di Taibach a Port Talbot nel Galles (classificata come una delle aree urbane più inquinate della nazione) e raccontato nei contenuti video con cui è stata arricchita la Mostra.

Personalmente, è proprio nella distruzione creatrice che rinvengo il fil rouge della Mostra. Aprendosi con il lavoro Welcome (la cui creazione ha partenza nella distruzione e riorganizzazione di un giubbotto di salvataggio), trova il perno nell’opera “Flying Cooper” di Downey e termina con la serigrafia “Girl with Balloon”, (la cui ispirazione sembrerebbe provenire da “Il palloncino rosso”, un cortometraggio di Albert Lamorisse del 1966 e dipinta per la prima volta con la tecnica dello stencil, in forma non commissionata, su un muro al lato di un ponte della zona di Southbank, a Londra, nel 2004). Durante l’asta di Sotheby’s a Londra, il 5 ottobre 2018, dopo essere stata venduta per una cifra superiore al milione di sterline, “Girl with Balloon” si è autodistrutta, mediante un meccanismo di tritadocumenti inserito nel telaio. Metà del quadro è stato tagliato in decine di strisce, acquisendo un valore addirittura superiore a quello dell’opera integra.

Questo ulteriore incremento del valore dell’opera a seguito della sua parziale “distruzione”, credo avvalori, inoltre, nel suo aspetto performativo, anche la forza e il potere del processo di distruzione creatrice proprio dei sistemi capitalistici, di cui fu pioniere l’economista J. A. Schumpeter, che costituisce un meccanismo di rinnovamento interno al sistema economico. Mi permetto di ritenere che,  al di là della spiegazione del gesto fornita dallo stesso Artista in un video, Bansky abbia voluto dimostrare quanto si è sudditi del potere capitalista e dei suoi processi e, per farlo, ha scelto un’opera (la stessa con cui i curatori hanno pensato di chiudere il percorso della Mostra), che racconta (in contraddizione con il testo che accompagna l’immagine “C’è sempre una speranza”),  “una vitalità disperata”, per dirla con il titolo di una poesia di Pasolini, che rimane senza la sponda di un sogno (il palloncino strappato alla bimba dal vento) quando comprende che  “la morte non è/ nel non poter comunicare/ma nel non poter più essere compresi2 dall’uomo che sfrutta l’uomo.

“Non possiamo fare nulla per cambiare il mondo finché il capitalismo non crolla”

È il muro delle parole dello street artist con cui ci si scontra, scostate le tende blu del Teatro Margherita all’uscita, per poi perdersi nella sua stessa contraddizione che è, prima di tutto quella della nostra società, sempre più liquida:

“Nel frattempo ,dovremmo andare tutti a fare acquisti per consolarci”n

È il PARADOSSO quello con cui l’Artista ci congeda, ma per fermarci dall’istintiva fuga dalla consapevolezza che si è accesa nel percorso, perché “nessuna fuga ci darà il futuro”.3

Bansky!

Note bibliografiche:

1 tratto dal Catalogo della Mostra: Bansky. L’artista che si è fatto fantasma. Edizione illustrata. G. Marziani, S. Antonelli, 2022

2 “Una disperata vitalità” tratta da “Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, 1964

3 F. Scarabicchi, “La figlia che non piange“, Giulio Einaudi Editore, 2021

IL GESTO FOTOGRAFICO DI CARMINE LA FRATTA, TESTIMONE DI UNA VOLONTÀ CHE CHIEDE DI RESISTERE

La fotografia è guerriera quando attraversa il nostro tempo senza giustificarlo, diventando testimonianza di un cambiamento profondamente umano, raccontato nella poetica della forma.

A distanza di alcuni giorni dai festeggiamenti del Santo Patrono della città di Taranto, si vestono di ulteriore potenza espressiva gli scatti del fotografo tarantino Carmine La Fratta che raccontano come la volontà abbia subìto un contagio collettivo e la dimensione dello spirituale stia cedendo lo spazio interiore sacro, da difendere saldamente, ad un intervallo sempre più precario, in rapida evaporazione cosciente.

Ph Carmine La Fratta

Il primo scatto condensa il volto di una città che le difficoltà e i sacrifici hanno mortificato e complessificato. La luce calda dei lampioni, allineata con cura con la fila delle candele, prima accese, poi spente e infine di nuovo accese, in un’alternanza che rimanda a quella della luce semaforica, in quello snodo di Corso Vittorio Emanuele II in cui il segnale stradale pedonale raffigura un uomo con il volto coperto da un adesivo, è la sintesi di uno stato d’animo che si manifesta in questo istante di collettiva “distrazione”. Nessuno sguardo verso il Santo, nessuna ferma volontà di accogliere il momento nella sua potenza emotiva ed anche il selfie lo si preferisce da un’angolazione che difficilmente catturerà il Patrono e il senso di quello che si sta vivendo. Dritta e fiera davanti al passaggio di un’icona, che dovrebbe costruire un anello tra il trascendente e il reale, c’è solo una palma perché la Natura quell’atto di volontà di far “resistere” la Bellezza lo compie ogni giorno, in silenzio.

Ph Carmine La Fratta

Anche il suo secondo scatto sembra raccontare la stessa ricerca dell’uomo di un tangibile che riesca a scuotere una volontà troppo minata dall’insoddisfazione, da un reale che celebra un rito che pare non essere sempre in grado di dare risposte. Zaccheo salì sull’albero per vedere il passaggio di Gesù nella città di Gerico (come ci racconta Luca nel suo Vangelo). L’uomo che La Fratta ha immortalato nel suo scatto è il contemporaneo Zaccheo che, nella spettacolarizzazione del gesto, esprime l’estremo tentativo del desiderio di restare vivo. Desiderio significa letteralmente “mancanza di stelle”. L’opera fotografica di La Fratta sembra ricordarci che dobbiamo riscoprire il modo di “trovare le stelle”, perché una società che si allontana dalla legge del suo desiderio, si ammala e uccide la volontà.

Ph Carmine La Fratta

L’ultimo scatto ci incaglia come pesci nella rete dell’obiettivo, tra desiderio di trascendenza, che spinge incessantemente avanti, e la necessità a cui sottopone “l’animale che ci portiamo dentro” e che assoggetta il desiderio alle necessità del capitalismo. Il vicolo stretto e angusto della Città vecchia, che La Fratta ha scelto come cornice di questo racconto fotografico, è uno dei tanti rami in cui l’Imperatore bizantino Niceforo Foca fece organizzare la struttura urbanistica della città di Taranto, dopo la distruzione del 927 per mano dei Saraceni, per proteggere la città dagli attacchi di nuovi invasori, rallentando il passaggio nei vicoli che consentono, ancora oggi, l’attraversamento di una sola persona alla volta. Un vicolo che racconta, quindi, la volontà di resistere di un passato la cui eco ci “co-stringe” a non cedere alla renitenza alla leva della Volontà, e invita a diventare dei nuovi Philippe Petit (il funambolo delle Torri gemelle del World Trade Center di New York) in equilibrio sul quel filo della luce che, nell’opera fotografica di La Fratta, segna il confine tra conflitto e desiderio, e trasmette l’eredità del gesto dell’Arte che restituisce il senso della volontà di presenza attiva, perché niente cambia finché non ci lasciamo interrogare dal mistero delle cose a cui l’Arte sa dare forma e rappresentabilità.

Gabriella Grande

Carmine La Fratta vive a Taranto, punto di partenza della professione fotografica. Appassionatosi al teatro, collabora con compagnie e testate giornalistiche locali nel documentare il lavoro di preparazione degli spettacoli e foto di scena. Fin dai primi anni di lavoro, le sue immagini sono diventate un importante risorsa di archivio e testimonianze attraverso gli anni con mostre, pubblicazioni, copertine, manifesti. Nel periodo 1978/1981, lavora collaborando con l’ufficio pubbliche relazioni come fotografo industriale in seno alla Italsider di Taranto, documentando varie fasi di lavoro, produzione utili per pubblicazioni e divulgazioni tecniche, sempre per l’Italsider ha seguito eventi culturali collaborando con importanti artisti e scrittori, fra tutti Domenico PORZIO. Collabora con vari enti, tra cui l’ente Provincia di Taranto che gli consente di entrare in relazione con realtà legate al territorio. Segue il premio “Ori di Taranto”. Documenta a Tellaro (Liguria) momenti di vita dello scrittore e regista Mario SOLDATI. Vincitore del concorso “Vougue sposa” e del Premio colore di ClicCiak per le fotografie di scena del film “Il miracolo” del regista Edoardo Winspeare. Fotografo di scena per i film “Scilla non deve sapere” del regista Bruno Oliviero con Blasco. Direttore della fotografia del film “Marpiccolo” del regista Alessandro di Robilant. Delle sue foto sono state scelte dalla Puglia Commision Film per la mostra del Cinema di Venezia 2010. Fotografo nel pool ravvicinato della sala stampa della Santa Sede, ha seguito la visita a Taranto di Giovanni Paolo II. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive a carattere nazionale. Le sue foto sono presenti in istituzioni e collezioni pubbliche e private. Le recensioni sui suoi lavori sono presenti in varie pubblicazioni.
Pubblicazioni:
“Iconografia dei santi a Taranto” (Regione Puglia)
“Iconografia sacra a Taranto” (Regione Puglia)
“Iconografia dei santi a Manduria” (Regione Puglia)
“Ventuno anni dopo” (A&B editori)
“Passione Tarantina” (Edizione Archita Taranto)
“Giuseppe Rossetti Pittore” a cura di Silvano D’Uggento (edito da Banca Antonveneta)
“28 e 29 ottobre 1989…ho fotografato un santo” Pubblicazione con il patrocinio della Ambasciata Polacca in Vaticano (Caforio Editore)
“Settimana santa a Taranto “ (Edit@ Casa Editrice)

“SILENT SPRING” DI CLAUDIA GIANNULI. IL CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO AL MUSEO ARCHELOGICO NAZIONALE DI TARANTO – MarTa

di Gabriella Grande

Sabato, 15 maggio, il Museo Archeologico Nazionale di Taranto ha inaugurato la prima delle mostre del Circuito del Contemporaneo al MArTA, organizzata in collaborazione con l’Associazione Culturale Eclettica – Cultura dell’Arte (di cui Stefano Faccini ne è Presidente): SILENT SPRING della scultrice pugliese Claudia Giannuli, ospitata nelle sale espositive del primo piano del Museo, a cui si potrà accedere, fino al 25 luglio, in un percorso obbligato, dopo la visita alle collezioni del secondo piano.

Se anche aveste visitato il Museo MarTa più e più volte, come è capitato a me, questo percorso vi apparirà “diverso”, perché l’essere proiettati alla visione di una Mostra d’Arte Contemporanea vi farà vivere un attraversamento del tempo passato e dei suoi “segni” e “resti” singolare. Ogni sala costituirà una dimensione che vi avvicinerà al presente, in un cammino di progressiva presa di consapevolezza della storia che ci appartiene, che cucirà una trama cognitiva che vi sosterrà, quando la fruizione emotiva dell’opera di Claudia Giannuli vi farà tremare per la bellezza con cui racconta la verità del presente attraverso il corpo che pure non c’è, ma si intuisce. Il messaggio che l’Artista ci consegna, utilizzando come canali del suo linguaggio artistico la ceramica, la vegetazione e il corpo femminile, si sviluppa in cinque teche illuminate da un led rosa, a costituire delle piccole serre (quattro terrari e un paludario). Il corpo non c’è perché diventa teca, si riduce a contenitore inerte. Noi uomini, come le piante, siamo fragili ed abbiamo bisogno di “contenitori” per vivere e, del resto, lo stesso ambiente in cui esistiamo diventa la nostra casa affettiva e, mai come in questo periodo storico, violentato dalla pandemia, il corpo è diventato teca, non raggiunto più da alcun desiderio, un contenitore “protetto” (come lo è stato in questo recente forzato lockdown), da un esterno che non è più dimensione di relazione oggettuale, ma di “attacco”, in attesa di comunicare. Un’anima chiusa, limitata a se stessa che non può mescolarsi alla vita. Mentre vi aggirerete tra le teche, istintivamente cercherete di stabilire una relazione con quanto vi si propone, scandaglierete la terra con lo sguardo, andrete in cerca di un movimento, di un soffio d’aria che alteri quella fissità e verrete scossi dentro quando dovrete arrendervi alla “distanza”, diversa da quella che intercorre tra voi e un reperto museale disposto nelle vetrine tra una teca e l’altra. Il tempo vissuto, raccontato da ogni reperto del IV e III secolo a. C. è pregno di vita, sale agli occhi come una visione, e fa da contrasto al tempo fermo, immobile che scivola sulle pareti lucide dei dispositivi-gioiello in ceramica di Claudia Giannuli perché è tempo mortificato, è “il poteva essere e non è stato”, è tempo vinto nella spirale dell’isolamento. Adagiati su terreni, inerti, immobili troverete cinque dispositivi-gioiello floreali come mine inesplose, ”toppe di blindatura”, come le ha definite l’attento Curatore Antonello Tolve, “ferite” imposte che mortificano gli organi sensoriali e che, nei sette video proposti lungo il percorso, trovano applicazione nelle aperture del corpo femminile di un avatar, questo “sistema aperto” verso l’esterno, che è il corpo, viene colonizzato nelle sue parti visibili e accoglienti, in una penetrazione che non contraddice la vita, ma la  silenzia. Penetrazione che non rappresenta una vera e propria occlusione, quanto piuttosto un’inclusione. Si ravvisa una sorta di “interramento” negli orifizi del corpo umano (l’estremità della forma di due dei cinque dispositivi-gioiello rimanda al bulbo) che diventa un vaso contenente linfa, energia che conferisce vita e si fa alimento per questi vegetali-gioiello che, proprio per aver ricevuto vita dal corpo, possono realizzare un movimento che assume il ritmo regolare del respiro. E in questo movimento, quasi impercettibile, conferito dal ritmo vitale del respiro che vitalizza la pianta stessa, si evidenzia come il mondo vegetale venga elevato, dall’Artista Giannuli, a componente percettiva di un’esperienza soggettiva di alienazione, di isolamento coatto.  L’aspetto formale di rimando fallico di due dei cinque dispositivi-gioiello, che il Curatore Antonello Tolve descrive come “oggetti di piacere corporale e dispiacere”, portano a riflettere sul meccanismo profondo che rende l’essere umano dipendente da manovre difensive di alienazione.  Il potere “seduttivo” di quanto chiude dall’esterno, blandisce la capacità di “resistere” alla mortificazione di una dipendenza autodistruttiva che si alimenta di un sentimento di impotenza, radice della collusione scaturita dalla gratificazione allarmante dell’essere dominato da un potere esterno. L’Artista sembra volerci scuotere da questa organizzazione che può diventare perversa perché desoggettivizza e, attraverso l’Arte e la sua fruizione emotiva, darci un’indicazione per un necessario risveglio alla vita che sia occasione di crescita psicologica e consapevolezza di sé. “Possiamo ribadire all’infinito che l’intelletto umano è senza forza a paragone della vita pulsionale, e in ciò avere ragione”, ci ricorda Freud, “eppure in questa debolezza c’è qualcosa di particolare: la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza. Più e più volte pervicacemente respinta, riesce alla fin fine a farsi ascoltare.” 1

È uno schermo il mezzo attraverso il quale l’Artista Giannuli, sceglie di rappresentare visivamente e di oggettivare un contenuto del mondo interno. I sette video diventano, così, un ponte di comunicazione di grande potenza, irrompono silenziosi nelle nostre porte d’accesso, fino a farci sentire “toccati” e violati. L’avatar, ospite di questo presente e, fino al 25 luglio, dell’incanto di una storia che arriva a parlarci dal IV e III secolo a.C., tra i reperti funerari di una civiltà che credeva nella vita oltre la morte e i ritrovamenti di specchi, flauti, maschere comiche e personaggi grotteschi del mondo del teatro e della musica, ha gli occhi chiusi ma non è addormentata, è anima quietamente alienata, sola. Sembra aver raggiunto un “equilibrio” immobile, una passività privata della sua intenzionalità, trasferendoci la visione degli effetti di un “sistema” che sta operando indisturbato, perché l’essere umano ha utilizzato il suo rifugio per restare relativamente libero dall’angoscia, al prezzo di un arresto quasi totale della sua espressione. La rappresentazione dell’avatar, a mio parere, si colloca perlopiù in una dimensione inconscia, dove sembra non ravvisarsi alcuna consapevolezza di quanto traumatica possa essere la perdita della comunicazione con l’esterno. Il riparo blindato danneggia la possibilità percettivo-sensitiva e il gioiello floreale è un dispositivo che, sebbene blindi nella sua porzione penetrativa in cui  “far esistere l’altro come luogo della mia esistenza” (come direbbe Lacan), rendendo impossibile il “sentire” e creando un’interruzione di flusso dall’esterno, allo stesso tempo,  costituisce ancora un tramite con il mondo esterno nella sua porzione floreale e quest’ultima frazione, fragile, delicata, (che richiama l’oreficeria tarantina del IV e III sec. a.C. e , in particolare, la Corona a foglie di quercia e il Diadema fiorito, conservati nel MarTa e la cui pianta di origine differisce in quattro delle cinque strutture,  ed è specificata in tableaux al fine di  leggerne la derivazione come chiavi di accesso a quanto si è “sacrificato” in questo processo di isolamento e di alienazione), consente ancora, anche se in modo quasi impercettibile, il richiamo, destabilizza il punto di rottura, di interruzione con l’esterno e rende ancora possibile il farsi “sentire”. Ma è un farsi sentire silenzioso quel respiro appena percettibile che i nostri sguardi incontrano nel percorso. Quell’ornamento floreale, che chiude le aperture del corpo dell’avatar, diventa ornamento diagnostico che sembra domandarci: “Ci sei ancora? Vieni più vicino, libera il mio respiro, libera il tuo respiro”, mentre si attraversa la sala che racconta di una storia che ha resistito al tempo e che ancora parla al visitatore e lo fa in maniera più efficace nel percorso tra le sale del MarTa che si deve effettuare per raggiungere la Mostra Silent Spring e che è stato scelto in una strategia di condivisione di visioni che ha portato il progetto Il Circuito del Contemporaneo (il cui Direttore Artistico è un’appassionata Giusy Caroppo) ad avviare una dialogo tra collezione e spazi del Museo che facilita e incoraggia una fruizione emozionale. Come ha spiegato l’illuminata Direttrice del Museo Marta, Eva degli Innocenti: “alla Mostra dell’artista Giannuli si giungerà attraverso una sorta di percorso catartico che dal passato condurrà al presente e al futuro, dal secondo al primo piano delle nostre collezioni”, percorso che si è rivelato, a mio parere, “un narrare necessario a poter pensare” prendendo in prestito le parole dello psicanalista Nino Ferro. Se vorrete visitare la Mostra, e ve lo consiglio vivamente, forse capiterà anche a voi, come è successo a me, di imbattervi in una guida che cercherà di riportare la vostra attenzione sui reperti museali sui quali è evidentemente molto preparato, ma tenete bene a mente, mentre zigzagate tra passato e presente che, in quella sala, una presenza “silenziosa” aspetta l’incontro con il fruitore per dargli l’opportunità di un “risveglio”, di una “primavera” che faccia recuperare il senso, la verità storica dell’uomo, ovvero che il vissuto dell’essere umano è relativo ad un’esperienza di rapporto. “Noi siamo un dialogo”, come sostiene lo psichiatra fenomenologico G. Stanghellini, “un dialogo con l’alterità, quella che abita in noi e quella costituita dall’Altro fuori di noi.” In un suggestivo scatto di Pierpaolo Miccolis, che vi propongo, io credo si possa trovare racchiuso il senso e il mistero di questo “incontro” tra Silent Spring e il MarTa. La testa femminile in terracotta (IV sec. a. C.), la cui espressione racconta l’equilibrio della grandezza dell’anima tipico delle figure greche, è “ferita” proprio nei “luoghi corporei” in cui, nell’avatar di Claudia Giannuli è avvenuta la penetrazione di due dei cinque dispositivi-gioiello floreali, destinati all’occhio e al naso. È un trait d’union acceso quello che si realizza e che ci fa muovere in una dimensione emotiva che è essa stessa contenitore, reale, solido, scialuppa di salvataggio che garantisce uno spazio nuovo in cui potersi aprire al messaggio di quest’Artista barese che ci mette in guardia nell’attraversamento di questa “Primavera silenziosa”.

Il titolo della Mostra è mutuato dall’omonimo libro della biologa marina statunitense Rachel Carson, pubblicato nel 1962,2 decisivo per la storia del pianeta terra e dell’intera umanità. Gli storici della scienza sostengono che, con questo libro e in questa data, abbia avuto inizio la nuova era della storia umana: l’era dell’ecologia. La Carson, con questo saggio, è stata la prima scienziata al mondo ad avvisare che doveva essere rivisto il modello di sviluppo, in quanto l’utilizzo continuativo del DDT nelle campagne stava minacciando in modo irreparabile la biodiversità, e che il rapporto scienza tecnica ed etica che si stava applicando avrebbe portato all’autodistruzione. La Carson ha sentito l’urgenza di dire all’umanità di fare attenzione, di rivedere il senso di appartenenza dell’uomo alla terra, di rivisitare il senso dell’umanesimo”, come ricorda in una preziosa intervista il Prof. Luciano Valle (filosofo che ha profuso il suo impegno nella ricerca sui temi dell’Etica ambientale). “Stanno scomparendo i pettirossi” denunciava la Carson “ stanno scomparendo i cardellini, i verdoni nelle campagne americane e il loro canto. Ma quando scomparirà tutta questa biodiversità, allora scomparirà la bellezza”. L’artista Giannuli recupera il grido di denuncia della Carson e, attraverso il potente strumento dell’Arte, che, come ha affermato il Curatore della Mostra A. Tolve nella presentazione che si è svolta il 15 maggio nel chiostro del Museo MarTa “ha sempre avuto il potere magnetico di risvegliare il cervello atrofizzato della società e di  educarla”, ci avvisa di stare attenti, di restare accesi, perché stiamo blindando la vita, ne stiamo annullando la comunicazione e, di questo passo, scomparirà il canto dell’uomo, l’unicità di ogni singola “voce”. E se scompare tutto questo, perdiamo la bellezza, quella stessa che, invece, nei secoli ha resistito ed è arrivata fino a noi e si fa grembo di un grido silenzioso che non possiamo non ascoltare. “Sapete voi, sapete che l’umanità può vivere […] senza la scienza e senza il pane, soltanto senza la bellezza non può vivere, giacché non avrebbe più nulla da fare al mondo!” 3 R. Carson insisteva nel dire che l’umanità non può perdere la bellezza che è insita nella natura perché l’etica dell’umanità, senza bellezza, è un’etica monca. La scultrice Giannuli riprende quel monito, e attraverso il veicolo della natura, difesa dalla Carson, viene a dirci che l’umanità non può perdere la bellezza della relazione, che è alla genesi della comunicazione, perché un’umanità mortificata si aliena e muore.

Foto di PIERPAOLO MICCOLIS

Foto di MARINO COLUCCI
Foto di GABRIELLA GRANDE
Foto di MARINO COLUCCI

1 Freud, L’avvenire di un’illusione Einaudi 2015

2 R. Carson, Silent spring, Houghton; later Printing edizione, 1 gennaio 1962

3 F. M. Dostoevskij I demoni, Rizzoli, Milano 1981, pag. 537

BREVE PROFILO DELL’ ARTISTA Claudia Giannuli (Bari, 1979). Scultrice, la sua produzione si caratterizza per opere in terracotta, realizzate con misurata sintesi formale, che rimandano prevalentemente a un universo femminile, quotidiano e alquanto paranoico; le piccole presenze sono collocate in ambientazioni in scala, dove l’argilla è contaminata da legno, resina o altri materiali sintetici. Nel 2013 la Fondazione Museo Pino Pascali di Polignano a Mare, che vede la sua opera presente in collezione permanente, le dedica la personale “Ognimaledettadomenica”. Nel 2015 al suo processo creativo è stato dedicato “Le pareti di vetro” per la regia di Vito Palmieri, docufilm prodotto nell’ambito del progetto ArtVision, trasmesso da SkyArte nella primavera del 2016. Parallelamente all’attività artistica insegna “Tecniche della Ceramica” all’Accademia di Belle Arti di Bari.

Testo critico “Quando il segno diventa poesia” pubblicato sul n°39 del periodico della BCC di Oglio e Serio “Il Melograno”

L’anima della luce nel trittico “Il borgo/Il mare/La luce” dell’artista Giorgia Zecca

Giorgia Zecca (Taranto, 1995) dipinge con la luce, non la fotografa soltanto. Gli scatti della reflex come colpi di pennello, i tagli delle foto e le sovrapposizioni come si modella un blocco con lo scalpello, e la luce è il solo vero colore, tutti gli altri ne risultano diluiti, sciolti  in quella radiazione luminosa  riflessa nell’iride verde degli occhi di questa artista di soli 22 anni, che mentre mi descrive la finalità della sua composizione sul Mediterraneo “Il borgo/Il mare/La luce” è seria, attenta, concentrata su quelle foto, ferma nella sua postura eretta, come stesse ancora catturando altro di quella luce. Un diaframma i suoi occhi mentre mi parla e poi sorride con tutta l’innocenza dei suoi anni e la verità dell’arte  si  palesa  per un istante: l’artista ferma, seria, concentrata è qualcosa di più grande dell’uomo eppure è nell’uomo ed è un mistero che si manifesta  quando l’occhio dell’artista si impasta con la materia dell’arte e le dà forma.

“Il borgo/Il mare/La luce é un trittico che nasce dall’esigenza di mettere in luce la mia perce­zione dei luoghi bagnati dal Mediterraneo che ho visitato nel corso della mia vita. Attraverso la sovrapposizione di più immagini, ho creato dei paesaggi ideali, uno per ognuna delle tre dimensioni comuni in tutti quei luo­ghi: il tipico borgo di pescatori con arcate e vicoletti, gli scogli e le rocce che portano il se­gno della presenza del mare e le caratteristiche case bianche che riflettono l’accecante luce del sole.” (Giorgia Zecca)

La sovrapposizione delle foto che Giorgia realizza cerca l’incastro perfetto della luce. La combinazione fotografica salda i frammenti, le zone di confine perdono la loro delimitazione creando una capsula temporale che amplifica il potere dell’immagine nella sua possibilità di espansione  e il raggio che si disperde nei margini di una foto è nell’altra che si rigenera e si rafforza. C’è un luogo in cui si dipinge, passa attraverso gli occhi e nel trittico dell’artista Zecca  trovano nuove conferme le parole dello scrittore e filosofo tedesco Ernst Jünger: “L’ottica esteriore dipende da quella interiore e non viceversa”.

Nell’osservare il trittico di Giorgia Zecca il nostro sguardo non si ferma sull’immagine, ma la attraversa perché l’artista utilizza il plexiglass come supporto fotografico, la cui trasparenza rappresenta un’artificiale “mente vergine vuota” che  ci consente di guardare oltre, ponendo il soggetto artistico quasi sull’orlo del vuoto, orfano di un supporto, fragile, sospeso. Il Mediterraneo diventa per Giorgia un luogo mentale, uno spazio di ricerca, mare che vediamo solo  e ancora “attraverso”…attraverso la traccia che ha lasciato nel tempo su quegli scogli in cui immoto e movimento sono irrimediabilmente uniti come lo sono nelle camere dell’anima. Fotografa l’anima degli spazi Giorgia, per questo i volti sono inaccessibili, esistono solo a distanza. La foto, “liberata” dalla carta, lascia che ne affiori la profondità del mistero a cui veniva impedita l’emersione in  superficie, generando un’emozione, la più accesa di tutte: la nostalgia di un invisibile di cui quella luce ci dà percezione. La luce, nelle foto di Giorgia Zecca, è un’esperienza.

Così diceva Cézanne (“Cézanne. Dialogo di un’amicizia” di Joachim Gasquet, Edizioni Mimesis, 2010):

Chiuda gli occhi, attenda, non pensi a niente. Li apra […] che dice? Non si vede che un immenso ondeggiare colorato, no? Un’iridescenza, dei colori, una ricchezza di colori. Questo deve darci il quadro in primo luogo […]un abisso dove l’occhio sprofonda, una sorda germinazione. Uno stato di grazia colorato. Tutti questi toni vi penetrano nel sangue, vero? Ci si sente rianimati. […] si diventa se stessi, si diventa pittura.” …

…Si diventa fotografia.

Dall’Accademia di Belle Arti di  Bologna, un’artista da tenere d’occhio assolutamente:  Giorgia Zecca, che dipinge con la luce.

Gabriella Grande

giorgia zecca 2
“Il borgo” (2017), Foto stampata su plexiglass, 50×125 cm

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“Il mare” (2017), Foto stampata su plexiglass, 50×125 cm

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“La luce” (2017), Foto stampata su plexiglass, 50×125 cm

MICHELE PETRELLI E I COLORI DELL’ANIMA DELLE ANTIEROINE DEL NOSTRO TEMPO

Sono forme della loro trasparente interiorità le donne dipinte da Michele Petrelli. I loro volti ed i loro corpi tratteggiano, in modo peculiare e variegato, le sensibilità incarnate di una femminilità originaria, essenziale, assoluta. E per l’osservatore è subito “incontro” con queste iconiche antieroine del nostro tempo: affacciandosi da uno sfondo quasi liquido, privo di confini e di limiti, il loro tratto distintivo comune è una pervasiva forza seduttiva, declinata di volta in volta come innocente o provocante, libera o trattenuta, sognante o agita, appagata o turbata. Il soggetto rappresentato è spesso decontestualizzato, avvolto in una sintesi di spazio e luce, di inquietudine e bellezza. Larghe pennellate di colore emotivo si accendono nei dipinti di Petrelli, le linee tracciate si fanno soglie di profondità, rughe di concentrazione di energie: l’orizzonte di segni che esse insieme dispiegano è un invito a muoverci per attraversare quel confine. Ed ecco che all’improvviso il soggetto di questi quadri si farà strada dentro l’osservatore senza annunciarsi...con un solo sguardo. Ed è un incontro interiore. Fermarsi alla superficie del dipinto, senza interrogarsi sul suo “mistero” ci impedirebbe di partecipare della straordinaria capacità che Petrelli ha di “vedere” e “farci vedere”, trasformando le pennellate sulla tela nelle ondose volute di un empatico flusso di coscienza. Petrelli mira a cogliere l’essenza esistenziale del soggetto raffigurato, cancellando il limite tra immagine ed interiorità. Ogni ritratto di donna è un micro-racconto: la breve storia di una personalità, di una identità, di una relazione, di un’inquietudine. Mancano gli oggetti e quando sono raffigurati, appaiono come il simbolico referente di un aspetto del carattere… c’è solo la donna posta di fronte alla sua identità, come davanti ad uno specchio.

Petrelli dipinge singole moltitudini ed in quei visi di una forte potenza realistica ogni donna può ritrovare un po’ di sé. E’ una femminilità ostinata e sensuale, altera e materna, volitiva e ironica, che non arretra di fronte alle proprie fragilità. Queste donne conoscono la fatica del vivere, hanno esercitato i muscoli e ora sanno come dominare sia lo spazio che l’uomo; talvolta stemperano le loro debolezze ricorrendo ai triti clichè della mascolinità (ma non per aderirvi passivamente, bensì per distanziarsene ancor di più), ma non rinunciano mai alle loro attitudini materne, persino quando si vendono (come in Prostitutes): per loro la maternità è anzitutto un tratto dell’anima.
Sono donne in cui si sublima la sensualità della carne, fino a diventare un messaggio di forza morale, capace di redimere ed elevare (come in Flamenco rosso). 
Emblematica la scelta di privare talvolta la donna della funzione meramente ornamentale dei capelli: in Pregnant, essi si fanno “nido” (ancora un riferimento alla maternità), in Medusa diventano tentacoli nello spazio (per conquistarlo o per aggrapparsi e non cadere?).
In Sara vediamo una donna che si prende in giro con le smorfie, ma, in realtà, si sta interrogando: è come se volesse vedersi in un altro modo per ritrovarsi, alla ricerca di un’identità “altra” che non riesce a definire, sperimentando in tal modo l’alterità già dentro di sé.
In Monkey vediamo una donna il cui braccio ha la rapacità di un uccello: le sue dita sono artigli che si protendono avide verso il mondo per ghermirlo ma, allo stesso tempo, è come se fossero da questo risucchiate, fino a sfrangiarsi o liquefarsi verso il basso. In un movimento uguale ma contrario, i capelli di questa donna sono invece risucchiati dall’aria verso l’alto, cosicché essa appare come in bilico o in equilibrio tra forze ed istanze che si oppongono. 
In Susanne 04 c’è una donna che sembra aver bisogno di tepore, di tenerezza , di qualcosa che possa darle un senso, di un’emozione che sia calda proprio come il colore giallo che Petrelli usa. Nel languido abbandono cui questa donna si lascia andare c’è il senso di un’attesa: è come se lei se ne stesse lì, dolcemente sognante ma recettiva, pronta ad accogliere una mano tesa che la prenda, oppure un segno che le dischiuda un nuovo orizzonte. Non è una resa, ma solo un momento di pausa dal suo essere forte e tenace, un frammento di tempo in cui cede le armi, ed in cui non si difende. Chiusa nel suo voler-dover essere dura, in quella corazza quotidiana in cui si cala per stare nel mondo,si sente oppressa e avverte ora il bisogno di rilassarsi, di cedere ad una tenerezza che forse tarda ad arrivare. In Adamo ed Eva e in Man with pinwheel, Petrelli volutamente non ritrae più la bellezza della donna, mirando piuttosto a coglierne la funzione originaria di alterità biologica, rispetto al maschio: sono femmine più che donne, termine binario di una polarità sessuale ricondotta alla sua dimensione primigenia, puramente riproduttiva. Eva ha la forza materica della terra, di cui è di fatto impastata, fino ad esserne l’elemento animato consustanziale. Queste donne-femmine, prive degli orpelli e dei belletti della mediazione culturale, sono vestite dei loro sorrisi compiaciuti e sornioni: sono creature vigili e presenti più che mai (anche quando appaiono in secondo piano sullo sfondo), hanno l’aria di saperla lunga loro e ci si chiede ironicamente cosa ne sarebbe mai del maschio/uomo senza di esse. Tuttavia, sia nel suo cotè più biologico (la femmina) che in quello più culturalmente mediato (la donna) la forza incorporata in queste figure non è mai prepotente ed arrogante: è temperata dalla delicatezza delle farfalle svolazzanti sulla testa di Sara, assume la posa languida e soporosa di Susanne 04, si accende delle tinte passionali di flamenco rosso, impara a convivere con il vuoto irriducibile della solitudine, come in Medusa 04Incrociare lo sguardo di Medusa è, si sa, letale, ma Petrelli ci invita comunque a “guardarla” e a “rischiare”, forse per sfidare quell’atteggiamento comune a molti di voler “possedere” senza prima essersi sforzati di “guardare”. Raccogliere questa sfida equivarrebbe allora a pietrificare una volta per tutte le nostre convinzioni superficiali, i nostri giudizi triti e veloci. In fondo a quello sguardo che intimorisce e “cattura” c’è forse la traccia della vera bellezza che si nasconde: la verità della persona.
È proprio questo, in definitiva, l’invito che la donna di Petrelli ci lancia come sfida e come compito: un guardare che miri a stanare e cogliere la verità, perché solo l’incontro con la verità è bellezza che può salvare o redimere.
Al cuore della pittura di Petrelli, suggellato da sapiente tecnica e indiscutibile talento, palpita fremente un delicato anelito di salvezza, fragile ma tenace.

A cura di Gabriella Grande © Riproduzione riservata

Pubblicato sul sito dell’artista (sezione critica) al link:

http://www.michelepetrelli.it/antieroine-del-nostro-tempo/

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ATHOS FACCINCANI E I COLORI DELLE CASE DELLA SUA ANIMA FIORITA

(Mostra personale di Athos Faccincani, 22-30 novembre 2014, Taranto)

Imperdibile la mostra personale del maestro Athos Faccincani aperta dal 22 al 30 novembre alla Galleria comunale del Castello Aragonese, a Taranto. Un “percorso” tra oltre 20 oli su tela che vi condurrà in una dimensione sospesa nella quale si ha quasi l’impressione che il tempo per qualche istante si fermi: ci abbandoniamo allora ad un’ attesa quieta, ricettiva, ed accogliente come i petali di quei fiori che Faccincani ama così tanto rappresentare. Nei suoi dipinti spesso si perdono le distanze tra l’immaginazione e la realtà: le esperienze vissute e interiorizzate nella memoria, vengono poi ricreate attraverso una pittura che usa il pennello per vibrare pulsazioni di luce pura, sotto i cui impulsi sembra colorarsi anche l’oscurità. Inseguendo le immagini dei sogni, o la felicità nelle sue diverse sfumature, la ricerca artistica di Faccincani trascende ogni malinconia, e dall’aspra voce del nostro tempo fa scaturire un canto di quiete in cui sembra celarsi questa richiesta: “Impara a guardare nella luce ciò che guardi. Io l’ho fatto anche per te”. Nei suoi dipinti, prima ancora dei contorni e delle forme, ci raggiungono i colori della sua “tavolozza solare”, i cui elementi immancabili sono i blu, i gialli, i rossi, e i vermigli. Faccincani satura il tessuto della tela con pennellate dense, fitte, vibranti di un tripudio di colori rispettosi ma non sottomessi all’egida del disegno. Certe sue pennellate minute sembrerebbero quasi dettate dall’esigenza di ricordare che anche la più piccola cosa è importante nello spazio vitale della tela. Su tutto, in questo spazio, splende il sole, che con le sue limature di luce definisce e vivifica i contorni, permeando di sé ogni forma che appare. I fiori sono elementi dominanti e prediletti in Faccincani: non sono un elemento puramente decorativo, ma sono una presenza attiva, sembrano i latori di un qualche messaggio da codificare. Ad esempio, in “Verso Positano un sogno di papaveri” e in “Da uno splendido giardino Positano e luce”, i fiori appaiono come un sipario che si apre per invitarci ad entrare nel quadro, e sono un richiamo gioioso a “vedere”, suggerendo la strada che gli occhi devono seguire. Anche il mare è una presenza significativa: non un mare statico, ma “festoso” (come quando il vento ne increspa le onde in “Città dei due Mari tra luce e poesia” ). Il mare riceve e riflette la luce, le sue acque sono quasi uno specchio ipnotico, sotto cui si intravvede un fondo invitante e mai inquietante, scintilla che accende il nostro desiderio di vedere ciò che c’è oltre. Spesso, in quel mare si ripete il motivo delle barche, ormeggiate o in movimento, come tavolozze colorate impegnate nei passi leggeri di una danza delicata. Gonfie le vele, il cui riflesso nell’acqua, a distanza, le fa apparire quasi gabbiani in volo (come in “L’ulivo e la fantasia dei papaveri”): attraverso di essi il pensiero dell’artista sembra oscillare tra l’aperto dell’orizzonte sullo sfondo, e il rassicurante rifugio delle case in primo piano. Proprio le case sono l’altro elemento costante e significativo della pittura di Faccincani: nelle case da lui dipinte si ha l’impressione di percepire il respiro della gente che le abita, uomini e donne, bambini e adulti la cui presenza possiamo però solo indovinare perché in
realtà nei suoi paesaggi l’artista non dipinge quasi mai persone: eppure, esse in qualche modo si “sentono”. Infatti, attraverso il “sussurro del colore”, Faccincani riesce magicamente a farci sentire anche quello che non rappresenta. Dipinge paesini e città che si dispongono in una coreografia che dilata lo spazio: siamo tutti invitati a “camminare” insieme a lui nel quadro. A questo invito ne segue un altro: “viverlo”, diventarne in qualche modo parte, perché lo scenario rappresentato
attende proprio noi per essere abitato. Forse è per questo che l’artista ha dipinto sedie a sdraio vuote (come in “Angolo di luce e poesia”) e tavoli che sembrano lì pronti ad accogliere qualcuno (come in “Sognando di noi a Santorini”). Tutto è sospeso, nell’attesa che venga accolto l’invito a condividere un momento di felicità che non si perde, che resta cristallizzato sulla tela in attesa di essere riconosciuto. Se visiterete questa mostra di Faccincani non ne resterete delusi: tra i colori delle case della sua anima fiorita, vorticherà il cuore verso l’alto, in una tensione di stupore e meraviglia, come il volo dei colombi in “Poesia a Venezia fra luce e riflessi e i piccioni di
sempre”.

Gabriella Grande © Riproduzione riservata