di Gabriella Grande©
“’[…] Come l’esistenza/ che non matura – resta sempre acerba,/ di splendido giorno in splendido giorno – io non posso che restare fedele/ alla stupenda monotonia del mistero./ […] Pari, sempre pari con l’inespresso/all’origine di quello che io sono” (Pier Paolo Pasolini).
Ed è il tentativo di recupero dell’origine e l’attraversamento della sua ferita a trattenere, in una Napoli evanescente e contraddittoria, Felice Lasco, il protagonista del travolgente lungometraggio presentato in concorso al Festival del Cinema di Cannes, anche dopo la morte della madre che aveva sempre rifiutato di raggiungerlo all’estero e a cui si è potuto riunire, per assisterla, solo negli ultimi momenti della sua vita.
Il tempo e lo spazio, che separano ció che lui è ed ha nel presente (una avviata carriera da imprenditore, una moglie, interpretata dalla raffinata Sofia Essaïdi, innamorata e rispettosa dei suoi spazi e dei suoi tempi interiori ed un futuro medio-orientale luminoso), dall’adolescente che era stato, sottratto alla dissolutezza, si aggrumano e la nostalgia si contrappone alle attese, alle aspettative sul futuro ed emerge, fondamentale, a tentare di rendere decifrabile la storia identitaria di Felice, mutilata dalla perdita forzata dell’adolescenza che ha fatto seguito ad un evento violento e drammatico condiviso con l’amico fraterno Oreste Spasiano (interpretato da un convincente e ombroso Tommaso Ragno).
Di nostalgia si può vivere, ma si può anche morire, quando porta il protagonista del film a trattenere una certa distanza dalla realtà e a farlo restare fermo in un giorno assoluto in cui si orienta l’unico “tempo vero”, un “ventre materno”, una sorta di madre “ambiente” che – Felice ne è certo – sarà in grado di accoglierlo con un amore incondizionato, rispondendo alla sua esigenza di riparazione della frammentazione subita, e da cui poter essere anche attaccato, ma senza esserne distrutto. Un “tempo vero” che Felice si illude di poter riattraversare con una vecchia Gilera 125, alla ricerca di una ripetizione impossibile, ma che resta, invece, tempo parallelo al suo, non più abitabile, perché definitivamente perduto, come la madre.
La potente opera di Mario Martone (adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Ermanno Rea, Edizioni Feltrinelli, 2016), si apre con una citazione di Pier Paolo Pasolini tratta da “Poesie in forma di rosa”: “La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso, non possiede”. E, come l’Edipo pasoliniano, Felice sembra credere che la vita debba continuare e finire dove comincia, in un grembo-luogo di identificazione.
Così come luogo di identificazione e non solo mezzo di comunicazione diventa il linguaggio per il protagonista. Vissuto quarant’anni all’estero, catapultato, a quindici anni, in una realtà in cui non conosceva la lingua del Paese e la sua lingua Madre (l’italiano) non era più sufficiente per farsi comprendere, è stato segnato dall’essere un emigrato, e non solo a livello linguistico. Massimo Vedovelli (filosofo e linguista) traccia molto chiaramente questa condizione dell’emigrato, in cui ”tutto gli sembra parziale; tutto gli appare come segnato da linee di confine che invece di indicargli i territori nella loro identità, confondono e mescolano, nascondendo al migrante la ricerca della propria identità”.
L’italiano di Felice, al suo arrivo a Napoli, è stentato e ricco di interferenze linguistiche e le sue abitudini fortemente legate alla religione musulmana (non beve alcool e fa precedere la preghiera dall’abluzione purificatoria).
Man mano che costruisce il suo progetto di restare nella sua città d’origine, ritrova la propria identità e si riappropria della lingua Madre e finanche del suo idioma musicale. Solo allora, vediamo uno straordinario Favino (vincitore del meritatissimo Nastro d’Argento*) liberarsi in una coinvolgente danza orientale condivisa con i “ragazzi” di don Luigi Rega nel cortile della Chiesa di Santa Maria della Sanità, che diventa espressione di un sé ritornato integro e, per questo, dinamico.
Il desiderio di rivedere l’amico Oreste (nonostante la consapevolezza chiara di ciò che è diventato: ‘O Malommo, boss spietato, capo di bande criminali, di ricetattori e di prostitute) è, in realtà, desiderio orientato verso ciò che resta a testimoniare la perdita, perché è possibile elaborare ciò che è perduto, solo se quel che si è perso non è parte della nostra forma identitaria. La nostalgia di Felice è un desiderio di vedersi tornare in un “luogo” che resta dove tutto è stato perso e che, nonostante tutto, continua a parlargli.
Per questo, sono accoglienti e consolatorie le presenze di don Luigi Rega (il parroco della Chiesa Santa Maria della Sanità che recupera e sostiene i giovani a rischio), di Adele (la giovane storica dell’Arte che lo accompagna nell’attraversamento della Napoli sotterranea, tra catacombe e ipogei) e di Domenico, vecchio amico e innamorato della madre di Felice con cui, in diversi momenti del film, delimita e attraversa il non-luogo dell’assenza del padre.
Ma questi 3 personaggi, nonostante siano animati, nei confronti del protagonista, da un profondo desiderio di accoglimento e di recupero ad un metro dal baratro, riescono ad intercettare solo la dimensione visiva e cinestesica di Felice; i suoi luoghi interiori ne vengono solo sfiorati, come i vicoli di Napoli, percorsi sempre troppo in fretta.
La lezione dello psichiatra e umanista Starobinsky, forse, avrebbe aiutato a non consentire alla nostalgia di infliggere la ferita mortale, se si fosse interrogato lo snodo cruciale del passato per illuminare il presente e per cercare un punto di coerenza interna, perché, in fondo, anche questi 3 personaggi positivi non fanno che ripetere lo stesso errore commesso, a fin di bene, dallo zio di Felice, che, quarant’anni prima, nel tentativo di salvarlo, lo aveva costretto alla fuga in Libano e ad un forzato reset, senza alcuna elaborazione dell’accaduto, per rimanere poi a lavorare tra Cairo e Africa fino al suo ritorno a Napoli per assistere la madre morente.
Don Luigi, Adele, Domenico e finanche Oreste, ‘O Malommo, gli chiedono di andare via per sempre da Napoli, di “scomparire”, di operare ancora una volta una frammentazione, un nuovo reset rispetto al passato, rispetto a quell’evento drammatico dopo il quale, per un lungo periodo, Felice racconta di non aver più parlato, di non essersi più fatto ascoltare e di non essersi più ascoltato, di non essersi più “sentito”. Gli si chiede di nuovo e ancora di non “sentirsi”, di non “ascoltarsi”.
Il filosofo Agamben sostiene:” Diffidate tanto nella vita privata quanto nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro […] Solo un’indagine archeologica sul passato può permetterci di accedere al presente”.
Il nostro presente, come il nostro futuro, devono poter trovare un legame con la nostra storia interiore, altrimenti la nostalgia rapirà l’anima indietro, ma per divorarla, non per “ristorarla alla fonte”, come, invece, sostiene il filosofo Galimberti, consentendole l’elaborazione che è alla base della scelta di guardare avanti.
Felice, invece, sceglie di abitare il tempo delle corse sulla moto Gilera 125, delle ubriacature, dei tuffi nel Mare di Napoli, sceglie di acquistare una vecchia casa da abitare con la moglie, dopo averla restaurata come crede di poter fare con il tempo, fermo ad una fase arcaica sempre giovane e senza giorni, acquisendone come “religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta” (Pier Paolo Pasolini).
Ma il passato, come il grembo materno, ha un tempo di accoglimento vitale, superato il quale diventa pericoloso cercare ancora, nostalgicamente, nutrimento nelle sue buie viscere e il futuro deve voler trovare altri luoghi da abitare come uteri generanti o come qualcosa che gli assomigli.
*Nastro d’ Argento per migliore attore protagonista, migliori attori non protagonisti, migliore regia, migliore sceneggiatura