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PRIMA DELLA VOCE di Paolo Parrini (Samuele editore, 2021)

Non so voi, ma quando io ho un libro di poesia tra le mani e il cuore, trattengo negli occhi il titolo per tutta la durata della prima lettura del testo, per cercare di agganciare con ago e filo invisibili le maglie della “rete” che tiene insieme tutte le parole e il senso, e quel filo diventa poi per me, nelle letture successive, l’impalcatura su cui lascio asciugare le parole che, in poesia, trasudano sempre mentre si “compiono”.

Ma, questa volta, il Poeta spiazza e il titolo diventa veicolo che trasporta il lettore verso una direzione che comprenderà solo alla fine di questo viaggio poetico che si compie in una “terra” tesa tra il titolo dell’opera e l’ultima poesia che, collocata strategicamente tra l’indice e il colophon (che chiude l’opera in ultima pagina), svela dove il cammino poetico approda temporaneamente, proprio dove ha avuto inizio, dove ha sempre inizio: prima della voce.

Il titolo trattiene l’essenza dell’opera e ne svela l’origine, aprendo al lettore una porta sulla “stanza segreta” dove tutto prende forma, su quel “non luogo” pre-verbale dal suono pieno, che non passa attraverso un contenuto semantico, ma attraverso un aspetto sensoriale che anticipa la nascita della parola poetica che è, di fatto, quell’esitazione prolungata tra suono e senso secondo la definizione a me tanto cara di Paul Valery.

Il poeta Parrini accompagna con grande maestria in un percorso circolare che ha approdo nel punto di inizio dove “l’emozione sale a cercare il fiore incolto” che sboccia dai semi di una percezione ancora informe, nuova o sovrapposta. E ricorda al lettore che, in poesia, si parte sempre “per tornare a casa”, facendo riecheggiare, in questa esperienza di circolarità del percorso poetico, nel ripetersi del ritorno dalla forma pre-verbale (punto di partenza della poesia) al linguaggio poietico, le parole di T.S. Elliott: “e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il luogo per la prima volta […] dove l’ultima terra da conoscere sia quella che era il principio”.

Parrini introduce il lettore ai suoi versi con la complicità della fotografia di Michela Goretti (che lavora sul piano dell’articolazione inconscia della realtà), dialogando con lo scatto dell’artista non solo in copertina, ma ritornando a intercettare la sua proposta di “luoghi dell’inconscio” anche nella seconda e nella terza di copertina, in cui si “compie” il senso dei primi versi parriniani che il lettore incontrerà in questo viaggio e con cui traduce le tappe del percorso trasformativo reso possibile dalla poesia.

Dal punto di vista simbolico-figurativo, lo specchio trattenuto tra le mani che, in copertina, riflette “la pace degli alberi” (raccontata dal primo verso a pag. 13) pur nel loro intricarsi, colloca il soggetto nel luogo della creatività, rappresentato dalle radici tanto vicine al corpo. La donna dallo sguardo ingabbiato nella seconda di copertina racconta “La terra (ovvero il somatico) che aspetta dietro un cancello stretto (rimandando all’impossibilità di rappresentare, all’incapacità di comprendere alcune sensazioni)” (p.13). La mente è imprigionata mentre la memoria del corpo è libera di sentire e di registrare il vissuto. La poesia ha il potere di liberare il sé corporeo (la mente più arcaica); ha il potere di liberare dalla gabbia della non rappresentabilità. Infine, l’immagine della donna che copre il volto con un mazzo di fiori trattenuto tra le mani in terza di copertina sussurra il verso: “sulla via camminata in mille ore/ il sunto d’un dolore/ poi il mandorlo fiorito là” (p.13). Da un punto di vista simbolico, i fiori (che sembrano avere radici nel corpo, nella memoria ancestrale del soggetto fotografato come del poeta) rappresentano il lavoro trasformativo della poesia proprio su quella “terra che aspetta”.

L’attesa, che ritorna più volte nella poesia del Parrini ha bisogno di essere nominata e riconosciuta, mentre “tutto si addormenta per poi svegliarsi ancora” (p.26) e racconta la “La resurrezione di ogni giorno” che non rappresenta solo un chiaro riferimento alla vita, ma alla poesia stessa intesa come processo trasformativo e di resurrezione che ri-conduce a sé, alla propria voce e all’incontro con l’altro attraverso la parola poetica, nella sua capacità di far risuonare nel presente le parole “e dire l’amore, prima del vento/ prima della sera.” (p.22)

Il codice condiviso della poesia e della fotografia nell’opera di Parrini traduce, nelle forme armoniose di voci polisemiche, il codice nascosto della parola poietica, ovvero di una parola capace non solo di dire, ma soprattutto di agire, su chi la riceve, ad un livello più profondo, perché la parola poetica è parola del risveglio della possibilità. Parola quindi che richiede, questa volta in maniera esplicita, un ascolto polisensoriale e, di conseguenza, un’efficace messa in comunicazione con l’altro che il Poeta non identifica solo come lettore passivo, ma come interlocutore necessario, come presenza cooperante.

Lo specchio trattenuto tra le mani ha bisogno di un’immagine da riflettere per dar senso alla funzione per cui esiste, la gabbia ha bisogno che un altro la apra perché se ne possa liberare il contenuto e i fiori hanno bisogno che ci sia qualcuno o qualcosa che se ne prenda cura per non appassire. I luoghi dell’inconscio raccontati da Michela Goretti hanno bisogno dell’altro, fondamentale per il compiersi, e per il dare forma a quanto esiste prima della voce. Quell’altro che Parrini chiama alla condivisione: “Alla mia sera aggiungi la tua/ al mio dolore il tuo.” (p.16) e che considera importante al punto da riproporre lo stesso verso in un’altra poesia, quattro pagine più avanti (p.20): “Alla mia sera aggiungi la tua”. ”Non siamo fatti di certezze” e, per questo, abbiamo bisogno di non perderci mentre “si scompone la sera” (p.20).

Se scuoti la tovaglia le briciole/ di pane ti indicano il cielo” (p.14) e il verso, tronco a metà pagina, diventa trampolino per le emozioni che (ci ricorda il Poeta), se liberate, nutrono lo spirito del tempo ed è questo nutrimento ad indicare il cielo inteso come crescita personale del poeta e del lettore, ovvero ad annullare il tetto della rimozione, lasciandoci sempre scoperti fino a “farsi raggio o crepa.”(p.52)

Sia benedetto questo spazio fatto altrove” (p.52) che è la poesia, il luogo della trasformazione, della possibilità, l’autunno lucido di pioggia che canta il Parrini nel verso che porto con me in questa vita che “ha troppi incagli e mura senza appigli.” (p.26):

Tra tutti i miei anni scelgo/ quest’autunno lucido di pioggia/ perché posso cambiarlo ancora,/ prima del buio.” (p.41)

Tutto è ancora possibile, prima del buio, prima della voce.

di Gabriella Grande

https://www.samueleeditore.it/prima-della-voce-paolo-parrini/

La mia ombra è fatta di pietre
scalcinate, il mio cielo
si perde stretto fra i tetti e le grondaie.
non ho il senso della pianta
alla finestra, m’hanno rubato
il sole appena nato.
E so il sale e il tempo
maturo dell’estate
scritto sui muri e le pareti antiche.
tra tutti i miei anni scelgo
quest’autunno lucido di pioggia
perché posso cambiarlo ancora,
prima del buio.

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EMPATIA SÌ, MA SI PUÒ (E SI DEVE) FARE DI PIÙ. “Contro l’empatia” di Paul Bloom, Liberilibri edizioni, 2019

“Contro l’empatia” di Paul Bloom, Liberilibri edizioni, 2019

Recensione di Gabriella Grande

Calvino, in un intervento dedicato a Carlo Emilio Gadda dal titolo “Il mondo è un carciofo”, sostenne che: “la realtà del mondo si presenta ai nostri occhi multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti. Come un carciofo.” 1 E in questo mondo, con la bellezza della sua complessità, Bloom ci invita a considerare che l’empatia, da sola, non basta. Le nostre decisioni e le nostre azioni morali sono fortemente modellate dalla forza dell’empatia, e questo, il più delle volte, rende il mondo peggiore. Il saggio dello psicologo di Yale ci invita a considerare che i problemi che affrontiamo come individui e come società sono spesso dovuti ad un eccesso di empatia. Come ha dichiarato l’etologo olandese Frans de Waal, noi non viviamo in un’età della ragione, viviamo in un’età dell’empatia. Bloom sostiene che l’empatia ci tradisce quando la prendiamo come guida morale e che ci sono alternative preferibili.
L’empatia può essere grande fonte di piacere se riguarda l’arte, la fantasia, lo sport ed è preziosa nelle relazioni intime, in cui si desidera il rispecchiamento empatico, anche se Bloom ci porta a riflettere come, spesso, si riveli fallimentare anche nella dimensione dell’intimità. L’empatia può corrodere relazioni importanti come quella tra medico e paziente (poiché il paziente non cerca il rispecchiamento dei suoi stati d’animo e delle sue emozioni nel medico, ma sicurezza laddove è incerto e calma laddove è insicuro. Il paziente, come fa notare Bloom, vuole “guardare il medico e poter vedere l’opposto della sua paura, non la sua eco”) e può renderci peggiori come amici, genitori, mariti e mogli, in quanto Bloom ci porta a considerare come l’empatia sia faziosa e costituisca una forza miope e distorta. Una risposta empatica è un processo di simulazione diretto e inconscio, quindi preriflessivo, che realizza in modo automatico un legame diretto tra chi agisce e chi osserva agire e che determina l’adesione all’emozione provata dall’altro in risposta a stimoli espressivi manifestati da quella persona. Di conseguenza, viene a mancare la differenziazione tra l’emozione propria e quella altrui. È una risposta rapida perché spinta da considerazioni immediate ed è influenzata da ciò che pensiamo della persona con cui stiamo empatizzando e da come giudichiamo la situazione in cui si trova quella persona.
Bloom concorda con l’analisi di Batson secondo cui “la forza dell’empatia sta nella sua capacità di rendere l’esperienza degli altri osservabile e saliente, pertanto più difficile da ignorare”, ma ciò che vediamo dipende da cosa scegliamo di guardare, innescando un processo che, purtroppo, il più delle volte, diventa più forte dell’equità. Per questo motivo, Bloom paragona l’empatia ad un riflettore da palcoscenico, in quanto ha un raggio d’azione limitato che ci rende selettivi nel decidere a chi interessarci. Illumina intensamente quelli che amiamo (e questo dato di fatto circa la natura umana è inevitabile, considerata la nostra storia evolutiva) mentre diventa debole verso gli estranei (in quanto non siamo psicologicamente costituiti per sentire nei confronti di un estraneo quello che sentiamo nei confronti di chi amiamo), verso chi ci inganna, verso chi crediamo sia triste per una motivazione sciocca, verso chi ha successo all’improvviso (poiché l’invidia blocca l’empatia), verso chi si lamenta di continuo, e verso quelli che ci repellono.
Si è evidenziato che, quando abbiamo a che fare con questo tipo di persone, si attua una riduzione di attività nella corteccia prefrontale mediale (area del cervello coinvolta nel ragionamento sociale), di conseguenza interrompiamo la nostra comprensione sociale e le disumanizziamo; basti considerare il modo in cui i nazisti pensavano agli Ebrei o alla rappresentazione delle donne nella pornografia. Poiché l’empatia riflette preconcetti e propensioni e può essere modificata dalle nostre credenze, aspettative e motivazioni, è in grado di distorcere i nostri giudizi morali nello stesso modo in cui lo fa il pregiudizio.

Quando l’empatia ci fa sentire dolore, la reazione è spesso di inazione o di fuga. A questo proposito Bloom porta l’esempio di una donna che “viveva vicino ai campi di sterminio della Germania nazista e che potendo vedere facilmente le atrocità dalla sua casa […] scrisse una lettera di protesta: […] Richiedo che questi atti inumani vengano interrotti, o che vengano fatti dove nessuno possa vederli”.
Per condurci alla piena comprensione della sua tesi, nella prima parte del saggio, Bloom descrive, in maniera dettagliata, origine e caratteristiche dell’empatia e questa attenzione, sostenuta da esempi efficaci ed essenziali, rafforza la sua tesi, perché non lascia spazio a fraintendimenti e falle di conoscenza. Bloom ci accompagna finanche nella distinzione tra empatia cognitiva ed empatia emotiva, per metterne in luce i diversi processi cerebrali che le coinvolgono e per sottolineare come ci influenzano in modo differente, dal momento che, mentre nell’empatia cognitiva “comprendo che tu sei in pena senza necessariamente farne esperienza”, nell’empatia emotiva “sento ciò che tu provi e, in particolare, sento il tuo dolore”. Bloom ci spiega chiaramente il suo schieramento in particolar modo contro quest’ultimo tipo di empatia, considerandola fallace, moralmente corrosiva e in grado di distorcere le nostre decisioni morali e politiche in modi che causano sofferenza invece di alleviarla, mentre considera l’empatia cognitiva uno strumento utile, ma comunque moralmente neutro.
Bloom non trascura di analizzare il ruolo di questi due distinti tipi di empatia negli psicopatici, nei soggetti affetti da autismo o da Sindrome di Asperger e se intercorra un legame tra empatia, violenza e crudeltà. Le informazioni che ci fornisce consentono di avere un quadro più chiaro della distinzione tra i due tipi di empatia descritti e ci permettono di costruire una riflessione personale fondata su dati esaustivi. Bloom evidenzia come negli psicopatici si ipotizzi un alto grado di empatia cognitiva, ma un basso grado di empatia emotiva. Molti psicopatici hanno un’eccellente empatia cognitiva e sono quindi perfettamente in grado di comprendere la mente degli altri. Questo è ciò che li rende capaci di essere degli ottimi manipolatori ed eccellenti imbroglioni e seduttori. Sostenere che gli psicopatici mancano di empatia è corretto solo se si considera che la parte emozionale dell’empatia è assente: ovvero la sofferenza degli altri non li fa soffrire. Le persone affette da sindrome di Asperger e da autismo, invece, solitamente hanno una bassa empatia cognitiva e per questo hanno difficoltà a comprendere la mente degli altri. Si ritiene che abbiano anche una bassa empatia emotiva, sebbene esista una controversia sulla loro incapacità di provare empatia e sulla scelta di non utilizzarla, ma non rivelano alcuna propensione allo sfruttamento e alla violenza e sono, anzi, più spesso vittime che non autori di crudeltà.
Ma cosa c’è alla base di una risposta empatica? Bloom dedica un intero capitolo all’anatomia dell’empatia e alla scoperta dei “neuroni specchio” (neuroni visuo-motori attivi sia durante l’esecuzione delle azioni, sia nell’osservazione delle azioni eseguite da altri), dapprima nel cervello dei macachi (Gallese et al. 1996; Rizzolatti et al. 1996), e successivamente nel cervello umano (Gallese et al. 2004; Gallese, 2007, 2014, 2018). Bloom ci ricorda come queste importantissime scoperte abbiano rivelato non solo che i circuiti parieto-premotori con proprietà specchio consentono di controllare l’esecuzione delle proprie azioni e di comprendere le azioni degli altri, ma anche che meccanismi di mirroring sono alla base della nostra capacità di condividere le emozioni e le sensazioni provate da altri. Le strutture nervose coinvolte nell’ esperienza soggettiva di emozioni e sensazioni sono le stesse che si attivano anche quando tali emozioni e sensazioni sono riconosciute in altri. L’empatia è dunque un processo di natura affettivo-cognitiva fondato su delle proprietà “specchio”.
Poiché Bloom propone in questo saggio l’immaginazione “come strumento attraverso il quale l’empatia può essere coltivata, arginata, sviluppata ed estesa”, ritengo opportuno aggiungere l’informazione che la simulazione incarnata può anche verificarsi quando immaginiamo di percepire qualcosa o di fare qualcosa. Recenti studi hanno infatti dimostrato come i meccanismi neurobiologici che consentono la connessione al “mondo reale” si sovrappongono ampiamente ai meccanismi collegati al mondo immaginario. Quindi, la teoria della simulazione incarnata può essere impiegata per spiegare sia come percepiamo il mondo che come lo immaginiamo. Dal punto di vista delle neuroscienze, il confine che separa il mondo reale da quello immaginario sembra molto labile.
In questo capitolo Bloom sottolinea, inoltre, un aspetto importante dell’empatia, ovvero che la sofferenza empatica è diversa dalla sofferenza effettiva, non soltanto nel grado ma anche nella tipologia. Una piena e totale partecipazione empatica è irrealizzabile, poiché ci è impossibile accedere alla coscienza e al vissuto dell’altro. Questa inaccessibilità, lungi dall’essere un limite è, invece, la condizione strutturale senza la quale nessun soggetto potrebbe manifestarsi, dal momento che è proprio l’irriducibile alterità il presupposto della relazione intersoggettiva. “Siamo reciprocamente un segreto gli uni per gli altri”, come sosteneva il filosofo francese Jacques Derrida.
Dopo queste lunghe ed esaustive premesse, infarcite di particolari, Bloom ci invita a sperimentare strade diverse dall’empatia, ricordandoci che “siamo esseri complessi e ci sono molte strade che conducono al giudizio e all’azione morale”. Sviluppando la tesi che alla base della moralità c’è molto altro oltre l’empatia, ci porta a considerare che ciò che conta davvero sono capacità come “autocontrollo, intelligenza ed una più diffusa compassione”. “L’autocontrollo può essere visto come la forma più pura di razionalità in quanto limita i desideri impulsivi, irrazionali, emotivi”, e la ragione è per Bloom “il luogo della vera azione”. Ma quando si è in grado di costruire un buon ragionamento? Quando ci affidiamo all’applicazione di regole e principi o ad un calcolo costi/benefici. Solo allora possiamo almeno in parte diventare giusti e imparziali. Anche se, a prescindere da come compiamo le nostre scelte morali, a volte, inevitabilmente sbaglieremo, in quanto una certa quantità di irrazionalità è inevitabile, data la nostra natura fisica. “Ogni dimostrazione della nostra irrazionalità è anche una dimostrazione della nostra intelligenza, perché senza la nostra intelligenza non saremmo in grado di capire che si tratta di una dimostrazione di irrazionalità.[…] È l’abilità di riconoscere criticamente i nostri limiti che rende possibile tutto ciò che facciamo”. La ragione e la razionalità, allora, non sono sufficienti per essere una persona buona e capace. Ma la tesi di Bloom è che esse sono necessarie, dal momento che “attraverso atti di volontà anche l’empatia può essere indirizzata e governata”.
Bloom ci porta a riflettere in modo interessante anche sulla politica, sostenendo che “spesso sembra che la politica sia a corto di razionalità […] La politica non si interessa alla verità perché per essa non è la verità ad essere in palio”. In questo modo ci esorta a considerare la necessità di una chiamata alla responsabilità. A volte, i nostri tentativi di deliberazione razionale possono essere confusi, basati su premesse errate o annebbiati dall’interesse personale. Ma qui il problema sta nel ragionare male, ci avverte Bloom, non nel ragionare in sé.
In questo saggio Bloom popone di ricorrere ad una ragione che sceglie come alleata la compassione, ovvero una ragione che scende a patti con le mancanze, con quello che sfugge al nostro controllo e la tesi di Bloom ci riporta alla mente l’ecologia dell’azione di cui parla il filosofo e sociologo francese Edgar Morin: “La nostra realtà non è altro che la nostra idea di realtà […] Il reale comprende un possibile ancora invisibile e che diventa visibile negli imprevisti, nelle incertezze, nelle situazioni complesse” 2, può diventare visibile nel ricorso alla compassione, vicina al mistero dell’uomo più della ragione.
Il sentimento della compassione che partecipa della ragione ci può consentire di riconoscere la verità etica. M. Nussbaum, in “Terapia del desiderio”, sostiene che: “esaminare la realtà senza ricorrere alle emozioni comporterebbe la mancanza di una parte di verità: sentimenti, esperienze emotive fungono, infatti, da guida verso la realtà etica” 3. La compassione alleata della ragione può quindi diventare elemento costitutivo e determinante su cui basare la vita morale, evitando il delirio di onnipotenza della ragione, perché è più vicina al mistero dell’altro e ricorda come ogni percezione della realtà comporti sempre una parte di inconoscibile. F. Abbate, in “L’occhio della compassione”, sostiene che la compassione si basa sull’atto dell’immaginazione, “per cui ha la capacità di figurarsi e di comprendere emotivamente la complessità umana, i bisogni e i desideri degli individui e le circostanze materiali in cui essi agiscono.” 4
All’immaginazione fa riferimento Bloom in questo saggio quando sostiene che attraverso di essa “l’empatia può essere coltivata, arginata, sviluppata ed estesa”e, nel suo saggio precedente, “Buoni si nasce” conclude scrivendo che: “la nostra morale […] è il risultato della compassione, dell’immaginazione e della nostra straordinaria capacità di ragionare.” 5
Perché Bloom accenna anche in questo saggio all’immaginazione, in modo conciso ma esplicativo? L’immaginazione, “regina del vero” per Baudelaire, è uno sguardo che consente di attingere ad un vero nascosto, in attesa di rivelazione e che ci chiama a non essere inerti e ad usare l’immaginazione per raggiungere la realtà che resta opaca. L’immaginazione è trasformativa, evoca possibilità, aprendo a nuove prospettive ed è valutativa. Edgar Allan Poe in “I delitti della Rue Morgue” sostiene che: “L’uomo veramente d’immaginazione non può essere che un analista.” 6
Bloom, infine, per meglio farci comprendere la scelta del ricorso alla compassione come alleata della ragione, evidenzia la distinzione (supportata da ricerche di neuroscienze) tra empatia e compassione, che è cruciale per ciò che si prefigge di dimostrare in questo saggio. La compassione non richiede il rispecchiamento nei sentimenti dell’altro, che è implicito invece nell’empatia. Il più delle volte è proprio il rispecchiamento ad impedire ai genitori, ad esempio, di infliggere ai figli sofferenze temporanee per il loro bene. Invece, questa scelta educativa è resa possibile “dall’amore, dall’intelligenza e dalla compassione”.
La compassione è un sentimento “per” gli altri (a differenza dell’empatia che è un’emozione “con” gli altri) che ci consente di aprirci all’altro, alla sua situazione, ed implica non solo la capacità di distinguere l’altro come diverso da sé, ma anche e soprattutto la capacità di decentrarsi da sé, di assumere la prospettiva dell’altro. Bloom, nel descrivere come sia stata esplorata la differenza neurologica tra empatia e compassione in una serie di studi fatti con la fMRI (risonanza magnetica funzionale), ne evidenzia la differenza neurale: mentre l’allenamento all’empatia porta ad una accresciuta attivazione dell’insula e della corteccia cingolata anteriore, l’allenamento alla compassione induce, invece, l’attivazione di altre parti del cervello, come la corteccia orbito-frontale mediale e lo striato ventrale.
Studi ulteriori hanno dimostrato come l’allenamento alla compassione aiuti a gestire meglio le situazioni di stress ed apra molte opportunità allo sviluppo mirato di emozioni e motivazioni sociali adattative, il che può essere particolarmente benefico per persone che lavorano nel settore dell’assistenza o in ambienti generalmente stressanti. Contrariamente all’empatia che, invece, può essere spesso causa di quello che viene definito “stress empatico” che, se vissuto cronicamente, comporta, di frequente, degli esiti negativi per la salute. Assorbire in maniera esagerata la sofferenza degli altri può causare burnout o portare ad una condizione descritta da Bloom e definita da V. Helgeson e H. Fritz “comunione non mitigata”, ovvero “un eccessivo interessamento verso gli altri e una tendenza a mettere i bisogni degli altri prima dei propri”. In questo tipo di relazioni asimmetriche si presta molta cura agli altri e poca a se stessi, ciò che è causa di stress empatico con effetti negativi a lungo termine e minore efficacia nell’aiutare gli altri.
Bloom fa appello ad una compassione sostenuta dalla ragione, avvicinandosi all’affermazione di M. Nussbaum, che definisce la compassione come un’emozione razionale, che include il pensiero e che, per questo motivo, può essere educata a superare i confini angusti del sé, in quanto “la compassione […] spinge i confini del sé ad espandersi ancora.” 7
La bellezza del saggio di Bloom, a mio parere, sta soprattutto nella capacità di smuoverci e di indurci alla riflessione, stimolandoci ad interrogarci fin dal titolo del saggio. “Contro l’empatia” forse non vuol dire semplicemente “sono contrario all’empatia”, ma è piuttosto una domanda nascosta, che attinge al significato latino di contrarius, ovvero che sta di fronte, quasi a chiederci: “Scegli di stare di fronte all’empatia? Ovvero scegli di lasciare che tutto sia confinato al ruolo dell’empatia – semplice presupposto della comunicazione e comprensione intersoggettiva – o scegli di superare il limite di questa visione e accogli la mia sfida al movimento e all’azione?
La compassione è movimento. Mentre l’empatia si sviluppa entro i confini del sé, facendo in modo che le emozioni dell’altro vengano sì condivise, ma nello spazio del sé (che, in caso contrario, risulterebbe impenetrabile), la compassione “espande i confini del sé”, come sostiene M. Nussbaum. La compassione, quindi, comporta un movimento da sé verso l’altro, sposta il baricentro emotivo, realizzando un decentramento in cui la propria vita si espande, incontrando e sorreggendo l’altro nella sua forma più vulnerabile ed esposta. Compassione deriva dal latino cum patior e patior non vuol dire solo patire, ma anche sostenere. Per questo ritengo che la compassione si possa considerare, in questa epoca di fragilità spirituale, quasi un incontro mistico nel dolore dell’altro perché, attraverso la compassione, è possibile sostenere insieme l’incontro del segreto costitutivo dell’altro, la vicinanza del suo mistero. In questo movimento, che contrasta la stasi dell’anima che affligge questo nostro secolo, il soggetto, ritornando a sé, si può riconoscere portatore della stessa fragilità, scoprendo un sé di cui poter avere compassione. La compassione è dunque il massimo movimento che si possa compiere, perché pensato ed orientato. Ma per essere efficace ed evitare di trasformarsi in sterile pietà, anche la compassione da sola non è sufficiente. La risposta a cui Bloom ci chiama dipende da ciò che vogliamo davvero. Bloom ci pungola: “Se vuoi il piacere del contatto umano fai pure e dai qualcosa al bambino (che muore di fame), forse per sentire una vibrazione quando le vostre mani si toccano, un calore che rimane con te mentre ritorni in hotel. Ma se vuoi fare davvero qualcosa per migliorare la vita delle persone, fai qualcosa di diverso.” Bloom ci invita ad una compassione che partecipa della ragione, accompagnandoci verso una visione cognitivo-valutativa della compassione che, in questo modo, può costituire sicuramente una risorsa e la base per la moralità. In “Teoria dei sentimenti morali” Adam Smith sottolinea che “la compassione assume il punto di vista dello spettatore, formulando il miglior giudizio che lo spettatore possa offrire su ciò che sta realmente avvenendo alla persona, anche quando esso differisce dal giudizio della persona stessa.” 8
Thích Nhất Hạnh, monaco buddista vietnamita, ritiene che la compassione sia un verbo, la compassione è allora azione. Bloom sostiene che la ragione è il luogo della vera azione, ma ammette che la ragione sia alleata della compassione, riconoscendo implicitamente azione anche al sentimento della compassione.
Nel “Faust” di Goethe, il protagonista, ad un certo punto, si interroga sulla frase del Vangelo di San Giovanni: “In principio era la Parola” (Gv 1,1) e dice: “Non posso dare alla parola un valore così alto; forse devo intendere il senso; ma può il senso essere ciò che tutto opera e crea? Si dovrà allora dire: In principio era la Forza? Ma no, un’improvvisa illuminazione mi suggerisce la risposta: In principio era l’Azione”. Bloom sembra richiamarci a questo principio, da cui tutto ha origine. Il neuroscienziato Gazzaniga sostiene, infatti, che l’azione efficace è il fine ultimo di tutta l’elaborazione interna. Concetto che mi permetto di estendere anche alla dimensione morale. Quella di Bloom è una chiamata ad un’azione morale efficace e la dimensione morale trova la sua efficacia se si mettono in campo autocontrollo, ragione e compassione secondo la tesi di Bloom. Io sono con Bloom.

1 Saggi 1945-1985 a c. di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995
2 E. Morin, “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”, Raffaello Cortina, Milano 2001
3 M. Nussbaum, “Terapia del desiderio”, Vita e Pensiero editore, Milano 1998
4 F. Abbate, “L’occhio della compassione” Edizioni Studium Roma, 2005
5 P. Bloom, “Buoni si nasce. Le origini del bene e del male”, Codice Edizioni, 20148
6 Edgar Allan Poe, “I delitti della Rue Morgue”, Mursia editore, 2007
7 M. Nussbaum, “L’intelligenza delle emozioni”, Edizioni Il Mulino, 2009
8 A. Smith, “Teoria dei sentimenti morali”, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 1995

contro l'empatia Paul Bloom
“Contro l’empatia” di Paul Bloom, Liberilibri edizioni, 2019

NEL CAFFÈ DELLA GIOVENTÙ PERDUTA – PATRICK MODIANO

“Viviamo in balia di alcuni silenzi”: è questa la sensazione che ci coglie in questo romanzo in cui Modiano ci immerge tra le vie della Parigi dei primi anni ’60. Cinque capitoli in cui si susseguono 4 voci narranti nel tentativo di ricostruire la storia di una donna di 22 anni, costantemente in fuga, e che di sé dice:

“non ero veramente me stessa se non nel momento in cui fuggivo”.

La chiamano Louki, questa fuggitiva protagonista del romanzo, figlia di un padre ignoto e di una madre, ormai morta, che aveva lavorato come maschera al Moulin Rouge: tra loro due un’incomunicabilità interrotta solo in occasione di qualche contatto fugace e maldestro. In fuga dal suo passato e dal suo matrimonio, questa donna “piena di fascino”, ma dal profilo vago e confuso, appare come un fantasma evanescente al confronto della Parigi iperrealistica descritta dall’autore con ossessiva precisione topografica. Prendendo le distanze da ogni cosa, Louki resta fedele solo alla sua passività, al “suo posto, giù nell’angolo”, senza il coraggio e la reale volontà di affacciarsi alla “vera vita” cui aspira. La insegue sempre, ma quella vera vita è altrove o al di là, è un “orizzonte perduto” che si dà solo tra le pagine di libri impregnati di misticismo. Unico punto fermo è il caffè Le Condé, dove Louki si rifugia, mimetizzandosi tra scrittori, pseudoartisti e studenti universitari, che vivono al presente, senza progetti, secondo la regola di vita dei cosiddetti “situazionisti”. Potremo seguire all’infinito il racconto dello studente di ingegneria di cui non conosceremo il nome, di Roland, aspirante scrittore e amante di Louki, o di Pierre Caisley, l’investigatore ingaggiato dal marito per ritrovarla, ma sarà solo un’illusione quella di avanzare nella comprensione delle loro vite: esse abitano un vuoto di cui non resterà altro che qualche fotografia, un numero di telefono, e alcuni indirizzi.

Ci si inerpichi pure tra le pagine in cerca di risposte… La prima tra tutte: ma chi è veramente Jacqueline Choureau, nata Delanque, poi ribattezzata Louki dagli habitué del caffè Le Condé? Ne ricaveremo solo silenzi, paure ed ombre. Nel suo continuo vagabondare verso la deriva, Louki appare sempre più vulnerabile, impenetrabile, solitaria, evanescente. Impossibile accoglierla: ella resiste ad ogni rivelazione, arranca tra “paradisi artificiali”, s’impaluda con Roland in hotel di passaggio, attraversa “zone neutre” di Parigi, sporgendosi ogni giorno di più sul ciglio del nulla, fino all’epilogo drammatico in un giorno di novembre, in cui Louki sceglierà di uscire per sempre dalla scena del mondo.

Modiano è solo cronista della crisi del nostro tempo: ne registra fedelmente i sintomi, ma non offre soluzioni. Anche la sua è un’“arte della fuga”, fuga forse anche dalla letteratura, attraverso l’uso di un linguaggio scarno che affida le sue capacità significanti alla secca descrizione di azioni prosciugate dall’emozione. È quasi l’approdo ad una nuova forma di fotografia: un inchiostro fotografico, che può solo testimoniare la realtà dei fatti, escludendo la profondità dell’animo. A Modiano sembra basti “cercare di salvare dall’oblio”, convinto come la poetessa Daria Menicanti che “muoiono veramente quelli solo/ che vai dimenticando”. Forse! Intanto, sotto un cielo che “è come una tenda strappata di un povero circo”, se ti lasci andare, il nulla ti inghiotte nel caffè della gioventù SCONFITTA. “Nel caffè della gioventù perduta” è un romanzo desertico; proverete arsura.

Gabriella Grande  © Riproduzione riservata

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http://www.sololibri.net/Nel-caffe-della-gioventu-perduta.html

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DORA BRUDER – PATRICK MODIANO

Viene buio presto” ci avverte il Premio Nobel per la Letteratura 2014, Patrick Modiano, la cui scrittura è un vero e proprio atto di resistenza a qualsiasi forma di oblio, in questo romanzo in cui lancia appelli “ai margini della notte”, segnali di luce emanati dalle parole per sciogliere quel grumo di ignoto e di silenzio in cui si sono perse le tracce di “una ragazza di 15 anni, Dora Bruder, m 1,55, volto ovale, occhi castano-grigi, cappotto sportivo grigio, pullover bordeaux, gonna e cappello blu marina, scarpe sportive color marrone. Inviare eventuali informazioni ai coniugi Bruder boulevard Ornano 41, Parigi”.
Da questo annuncio nella rubrica intitolata “Da ieri a oggi” di un vecchio numero di Paris-Soir del 1941, e letto da Modiano quasi 50 anni dopo, prende avvio il suo faticoso atto di investigazione privata per raccogliere le tracce residue di Dora, un’adolescente ebraica di origine francese in fuga nella Parigi dell’Occupazione, forse con l’illusione di sfuggire ad Auschwitz.

L’estrema precisione dei dettagli di quell’annuncio ossessiona l’autore, attratto dai vuoti di questa storia come da un campo magnetico il cui orlo irradia una solitudine che è un richiamo, un appello. Ben poco, però, sapremo di Dora, anche al termine di questa lunga indagine durata 8 anni e dominata dalla “vertigine” di un’inquietudine che scuote nel profondo, la fatica di un pensare che si interroga senza sosta, pur consapevole del rischio ogni volta in agguato di una mancanza di risposte e di una ricerca senza ricompense.

Patrick Modiano cerca indizi, i più lontani nel tempo, effettuando ricerche in uffici, tra documenti personali, lettere, testimonianze, registri di polizia e archivi, ma dopo anni raccoglie solo lacunose ricostruzioni. Viene a conoscenza di date, trasferimenti, domicili a cui tuttavia non corrispondono più i luoghi in cui lei ha vissuto. La narrazione non presenta una struttura lineare ma si dispiega simultaneamente su diversi piani temporali.

Dimensione storica, episodi autobiografici e riferimenti intertestuali si intrecciano. L’effetto è quello di una narrazione frammentata, un’artificiosa dispersione che è essa stessa ancora una fuga, quella dell’autore, da ogni pretesa di irrigidimento del testo in categorie definite.

Del dossier documentario sviluppato nel romanzo fanno parte anche alcune foto di Dora e della sua famiglia: Modiano non le inserisce nel testo ma preferisce restituirle fin nel dettaglio attraverso una descrizione minuziosa, come se solo le parole potessero ridare dignità a quei corpi prima annientati come esseri umani, trasformati in “Stücke” (pezzi), e poi svaniti come ombre nel fumo dei forni crematori.

Se scorrerete queste pagine cercando di sapere “chi era” Dora Bruder nella sua essenza, resterete delusi. Vi sembrerà di essere stati vittime di un inganno dell’autore, vi parrà che invece di colmare un vuoto, egli lo abbia disegnato ancora più nitidamente e giudicherete questa ossessiva ricerca, vana e sterile. Ma non è così. Modiano ci offre molto altro: riconosce e restituisce una presenza, dimostra e attesta che Dora “è stata” un essere umano, con la sua identità, dignità, umanità e con un suo segreto, “povero e prezioso segreto”, che resterà per sempre silenzioso, inattingibile.
Di lei non conosceremo che il suo passaggio, intriso di “mesta tenerezza”, cosicché sembra scritto per lei il verso di Baudelaire: “Un lampo, poi la notte! – Bellezza fuggitiva” e il vuoto che lascia è ancora e di nuovo “vertigine”.

Gabriella Grande © Riproduzione riservata

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LA SIGNORINA ELSE – ARTHUR SCHNITZLER

È rosso il maglione che “veste” Else quando la incontriamo nelle prime pagine di questa famosa novella, La signorina Else, di Arthur Schnitzler: forse è un primo, destinale indizio dello schiacciante senso di colpa e di vergogna che poi la indurrà audacemente a “spogliarsi” di tutto, finanche della propria vita.

Else sceglie la morte, e così lascia interrotto il proprio monologante rovello interiore, un denso flusso di coscienza che, nello spazio di un solo giorno, trascina sogni, speranze ed illusioni verso il baratro del nulla. Else, 19 anni, bellissima, ma “tutta sola, così terribilmente sola, come nessuno può immaginare”; sconosciuta anche a se stessa, cerca in qualche modo di darsi forma e sostanza “leggendosi” attraverso gli occhi degli altri.

Di lei ci vien detto che è altera, misteriosa, demoniaca, seducente: emana una sorta di malia di cui però è del tutto inconsapevole. Nella sua giovane vita non mancano germogli di possibilità che, tuttavia, nel bel mezzo di una spensierata vacanza, verranno di colpo raggelati da una lettera della madre. Costei avanza alla figlia una proposta avvilente, umiliante: per evitare che il padre, noto avvocato, venga arrestato a seguito di una vicenda in cui è implicato, sarebbe necessario reperire una ingente somma di denaro da un ricco amico di famiglia, il mercante d’arte Dorsday, il quale è pronto a sborsare l’intera somma, a fronte di una particolare, quanto oscena, richiesta: Else si dovrà mostrare a lui totalmente nuda.

“Da lei non pretendo altro che di poter restare un quarto d’ora in ammirata contemplazione della sua bellezza”

E’ il laido ricatto del signor Dorsday. Else affonda allora nelle sabbie mobili della colpa e della vergogna. Nel tentativo di resistere, mente a se stessa, fino all’autoinganno, ma la presa di distanza difensiva dalla realtà è nient’altro che un buco nero apertosi nella coscienza, nel quale tutto precipita. Questa profonda lacerazione è innescata dall’evento choc, certo, ma essa ha anche preso lentamente forma nel corso dell’esistenza scialba e opaca che Else ha vissuto.

Nella prigione asfittica della solitudine e della incomunicabilità, senza nessuna possibilità di intimo confronto con l’altro, Else si è lasciata abbacinare dall’oscurità delle parole e delle esperienze non vissute: con questi brandelli di tessuto ha coperto, ma non vestito, la sua identità; orpelli deformanti l’hanno costretta a pensarsi e a costruirsi non dall’interno, ma dal di fuori, attraverso le superfici vuote degli sguardi e delle parole altrui, in cui lei ha cercato, come in uno specchio, un riflesso della propria immagine. Adesso sarà proprio questa immagine di sé quale lei vede rispecchiata negli occhi degli altri (“la figlia del truffatore”, “la mendicante”, “senza nessun talento”, ”la sgualdrina”, “la meschina”, “la vigliacca”) a darle il tormento e a consumarla.

Le speranze deluse, il grave senso di smarrimento, un’inquietudine che non trova pace, la solitudine sempre al proprio fianco, sono il corteo prodromico di quella morte che, alla fine, Else assumerà su di sé come estrema possibilità di vita. Una morte che lei sceglie come compagna, lasciandosi quasi dolcemente prendere per mano da essa, una morte di pietà, morte di pudore, che scioglie “da tutte le creature e da ogni tristezza”, come recita Quasimodo. Una dose letale di Veronal libererà in volo le ultime percezioni di Else, che abbandona quasi in estasi il deserto della sua vita.
E mentre “vola”, … è bella Else! Bellissima.

Gabriella Grande © Riproduzione riservata

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