Prefazione di Natalia Ceravolo
In copertina: “La Scalata” di Andrea Bassani
Scelgo giorni necessari – Ensemble (edizioniensemble.it)

Prefazione di Natalia Ceravolo
In copertina: “La Scalata” di Andrea Bassani
Scelgo giorni necessari – Ensemble (edizioniensemble.it)
Intervista di Gabriella Grande
Oltre ad essere un raffinato curatore, lei è Docente all’Accademia di Belle Arti di Foggia, ma è anche un’ artista. Cosa significa per lei insegnare a partire anche da una forte identità artistica?
La mia storia è “eclettica”, come l’Associazione che ho creato nel 2003 a cui ho dato proprio il nome di “Eclettica”. Infatti, uno dei motivi per cui decisi di intitolare in questo modo l’Associazione culturale con cui ho messo in campo i miei progetti più importanti, risiede proprio in questa possibilità di esprimere l’essenza della mia esperienza, fin dalle origini della mia formazione. Ho mosso i miei primi passi in qualità di artista e mi sono diplomata nel 1989 all’Accademia di Belle Arti di Bari in pittura. Successivamente, mi sono laureata in Storia dell’Arte (Roma Tre) e poi, a seguire, ho fatto altre esperienze fondamentali, che hanno sicuramente contribuito a costruire la mia formazione a trecentosessanta gradi: un corso di computer grafica allo IED (Istituto Europeo di Design, Milano) e un corso di curatore con Ludovico Pratesi all’inizio del 2000. Mi piace ricordare un’esperienza per me molto formativa, quella con l’associazione Fonopoli di Renato Zero con cui ho iniziato, una ventina di anni fa, a muovere i miei primi passi da curatore di un concorso di arti visive.
Credo sia molto importante nascere artista. Lo è tanto per “condividere” al meglio con gli artisti invitati la produzione di opere e la messa in campo di mostre, quanto per affiancare il giovane studente che si affaccia sul mondo della creatività. L’insegnamento è per me un’esperienza nuova, in cui ci si interfaccia con artisti ancora in fase formativa. In precedenza, sono stata impegnata, in qualità di tutor, in percorsi regionali quali il bando PIN, il programma BOLLENTI SPIRITI, recentemente nel progetto SPARC, in cui ho potuto trasferire la mia competenza a giovani che avevano già acquisito una formazione e che si aprivano al mondo del lavoro. Ho vinto recentemente l’insegnamento in “Organizzazione di grandi eventi” presso l’Accademia di Foggia, dove seguo un gruppo di allieve di Fashion Design, una dimensione non strettamente legata all’ Arte Contemporanea, ma comunque ad essa connessa, in virtù della multidisciplinarietà che ormai fa parte del mondo e delle industrie culturali e creative. Mi impegno a trasmettere loro la mia esperienza di artista (che è, per così dire, “passata dall’altra parte” adesso) e di organizzatore di “eventi” complessi – ad esempio quelli identitari come la Disfida di Barletta – constatando, ogni giorno di più, come si tratti di un dare e di un avere continuo, inscindibile, che emoziona, perché questo scambio chiede che la costruzione del percorso venga fatta “insieme” e perché dalle giovani allieve di Fashion Design ho la possibilità di recepire una ”visione nuova”, arricchente. Nel periodo pandemico che abbiamo attraversato, la didattica a distanza mi ha privato della possibilità di costruire un rapporto “diretto” con le mie allieve e me ne dispiace, ma questo non ha impedito a me e a loro di “toccare” i nostri differenti sguardi sul mondo e sulla realtà.
Alighiero Boetti sosteneva che “curare una mostra è come disegnare una mappa”. Partendo dal suo personale punto di vista, cosa significa per lei raccontare un progetto artistico? Lo intende come modalità di presentazione, una forma di interpretazione o di moltiplicazione del messaggio dell’artista o è esso stesso un atto performativo e creativo? E perché?
Per me è essenzialmente un atto performativo e creativo in cui mi esprimo non solo come Curatore e come Storico dell’arte, ma anche come artista. Per un certo periodo, ho lavorato con Achille Bonito Oliva che è stato consulente scientifico del progetto INTRAMOENIA EXTRART (forse, il mio progetto più ambizioso), in cui si sono avvicendati cinque anni di mostre nei castelli e palazzi storici della Puglia che hanno ospitato i più grandi artisti internazionali: pugliesi, nazionali e internazionali.
Achille Bonito Oliva mi diceva che mi si riconosceva per la mia “scrittura espositiva”. Probabilmente questa “scrittura espositiva” trova le sue radici proprio nel mio bagaglio di artista che mi orienta a pensare ad un progetto sempre nella sua completezza, m’ impegna a non trascurare o a non delegare nessuna delle sue parti, che ritengo tutte fondamentali. Perciò arricchisco della mia scrittura anche la fase d’ideazione dell’opera, relazionandomi con la visione dell’artista, con il tema della mostra, con l’identità del luogo, con il luogo stesso, con la struttura architettonica che accoglierà la mostra e l’istallazione, con la possibile percezione dei visitatori. Il percorso che seguo è, quindi, indubbiamente anche creativo. Ed è performativo, in quanto seguo l’artista in tutte le fasi. La stessa confezione del prodotto finale – che sia una mostra personale, un intervento speciale o una collettiva – risulta, alla fine, un racconto a trecentosessanta gradi di quello che io per prima voglio trasmettere al fruitore. Anche per questo, lavoro molto al fianco dei grafici, che io considero artisti alla pari degli artisti che invito nelle mie mostre. Ti porto l’esempio di un progetto di alcuni anni fa, WATERSHED (2012/13), che si è collocato al Primo Posto nel Programma Cultura della Commissione Europea (l’attuale Europa Creativa), su oltre trecento progetti candidati. Il progetto grafico di WATERSHED, quindi il logo stesso che identificava l’intervento di ogni artista, si trasformava in funzione del medium utilizzato dall’artista, rappresentato da elementi fluidi (acqua, petrolio, ecc…), e diventava esso stesso protagonista di un progetto grafico di alto livello artistico a cura di un team di creativi guidati da Carla Palladino. In quell’occasione, il gruppo dei grafici ebbe la capacità di trasmettere, attraverso il visual design, il vero senso del concept di WATERSHED, al punto da meritare una segnalazione alla Biennale del Design di Mosca.
Lei è stata curatore esecutivo del progetto a cura di Achille Bonito Oliva DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO (2010). Questa proposta di presentazione delle opere d’arte da un diverso punto di osservazione mi sembra che racconti molto anche delle sue modalità operative: lavorare sul limite, sulla soglia per rischiare un cambio di prospettiva e presentare una diversa cucitura narrativa tra l’opera proposta e il fruitore. Quanto è importante correre “il rischio” di lavorare sulla soglia? E, concettualmente, quanto ritiene sia stato rilevante il cambio di prospettiva nel relazionarsi all’arte proposto al fruitore?
DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO è un progetto figlio dell’esperienza di INTRAMOENIA EXTRART, oltre che di altre esperienze, portato in Puglia con la direzione scientifica di Achille Bonito Oliva con cui mi ero già confrontata, nell’esperienza attraversata dal 2005 al 2010, sull’uso di questi luoghi limite e sulla proposta allo spettatore di uno sguardo da punti di vista differenti rispetto a quello tradizionale.
A questo proposito, voglio ricordare due realizzazioni in particolare nell’ambito di INTRAMOENIA EXTRART: un intervento realizzato nel 2006 a Lucera con l’artista colombiana Maria Teresa Hincapiè de Zuluaga ed un altro a Lecce con l’artista (fotografo) Oliviero Toscani. “El espacio se mueve despacio” di Maria Teresa Hincapiè de Zuluaga propose un’eccezionale proiezione di notevole forza emotiva, nel grande spazio della fortezza di Lucera, con una modalità di osservazione inusuale, ovvero dal basso verso l’alto e quindi invertita rispetto a quella proposta in DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO. Oliviero Toscani occupò lo spazio libero sulla Torre Mozza della fortezza Carlo V, con un grande manifesto prospiciente la strada, una fotografia di modelle seminude, bendate in diverse parti del corpo con cui la meraviglia della bellezza incontrava la critica alla sua degenerazione, attraverso l’allusione agli interventi spesso invasivi di chirurgia estetica. Anche in questo caso, l’osservazione è stata proposta al fruitore da un diverso punto di vista.
Credo che, attraverso il ricordo di alcuni dei miei progetti, abbia risposto alla domanda di quanto sia importante lavorare “sulla soglia” e “correre il rischio” di proporre uno sguardo differente sulle cose. Il “limite” è un concetto chiave. Il vero artista contemporaneo si muove sul limite, e quindi è importante sollecitare il visitatore anche con punti di osservazione “al limite”: al limite dell’assurdo, al limite anche del facilmente digeribile, al limite della fiaba, al limite della provocazione anche fisica. Penso all’istallazione “Macchine celibi” dell’artista Francesco Schiavulli, macchine in legno di risulta con cui il fruitore, nel progetto DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO, poteva attraversare il limite del fossato del Castello Svevo di Bari. Si rese possibile l’attraversamento di quel limite naturale architettonico e quindi il “limite del proibito”, utilizzando queste macchine delle emozioni. L’Arte contemporanea è anche questo: è un oltrepassare il limite. L’artista, come dice Achille Bonito Oliva, “è un errore biologico”, per cui io credo che dal vero artista non possiamo aspettarci nulla di scontato, l’arte deve sorprendere; anche un punto di vista insolito può aiutare a “spiazzare”, emozionare. Nella proposta di un punto di osservazione differente va letto anche il progetto realizzato, nel 2010, proprio nella tua città, Taranto, con l’artista Stefano Cagol, invitato a produrre un lavoro site specific nell’ambito di INTRAMOENIA EXTRART. Con questo esempio rispondo anche alla tua seconda domanda relativa all’importanza di offrire al fruitore un cambio di prospettiva nel relazionarsi all’arte. L’intervento di Stefano Cagol ha rappresentato un’opera di coinvolgimento della città e dei cittadini, incentrata sull’osservazione della difficoltà di conciliare salute e lavoro, in un momento in cui questo tema non era sentito in maniera pubblica fortemente come lo è, invece, oggi. Un’ ape car (triciclo Piaggio) circolava nelle strade della città, con la collaborazione dell’allora giovane artista Valentina Vetturi, alla ricerca di oggetti luccicanti per creare quest’opera multidisciplinare, il cui titolo, “Scintillio e cenere”, rimandava anche alla bellezza degli Ori di Taranto e insieme alla traduzione di Ilva. Cagol installò nel fossato del Castello Aragonese di Taranto una grande bandiera rivolta verso la città e su cui vi era scritto CENERE. In questo caso, l’arte ha condotto il fruitore sulla “soglia” dell’osservazione di una realtà che di lì a poco si sarebbe palesata in tutta la sua drammaticità, in forte contrasto con la bellezza della luce e della storia millenaria della città.
Vorrei prendere spunto dalla scelta espositiva della mostra Silent Spring di Claudia Giannuli nelle sale del Museo MarTa di Taranto per considerare come lei proponga un modello alternativo di gestione dei beni culturali tradizionali. In questo caso si tratta dell’utilizzo dello spazio espositivo museale, in atri suoi progetti ha impegnato siti di rilevanza storico-artistica e paesaggistica. Si tratta sempre di spazi espositivi inusuali, che lei sceglie di volta in volta, già di per sé impregnati del loro personale significato e il cui senso trova nuova espansione attraverso l’arte contemporanea ed un più efficace coinvolgimento concettuale del fruitore, a mio parere. Qual è la particolarità, in ambito espositivo, della mostra Spring di Claudia Giannuli al MarTa?
Devo andare necessariamente un po’ indietro nel tempo, perché nessuno di questi progetti nasce come progetto spot, ma sono il risultato di una lunga gestazione e di un’idea ben precisa e consapevole che è quella del CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO, indubbiamente figlio, anche questo, delle esperienze precedenti, quindi di INTRAMOENIA EXTRART, che è modello di “museo temporaneo diffuso”. La particolarità di questa mostra sta nel fatto che, pur legandosi sempre alla realtà del territorio, il Museo Archeologico Nazionale MarTa ha già una sua organizzazione interna. Invece i miei progetti, generalmente, coinvolgono realtà periferiche e luoghi non convenzionali. Porto l’esempio del progetto CASA FUTURA PIETRA (2015/17): una delle mostre è stata pensata e realizzata negli Ipogei Capparelli che si trovano di fronte al Parco Archeologico di Siponto, un luogo totalmente abbandonato che abbiamo fatto gestire da realtà locali, associazioni e cooperative ingaggiate per il tempo di fruizione della mostra.
SILENT SPRING di Claudia Giannuli, proposta nel MarTa, non ha presentato questa necessità, perché il Museo dispone già di un personale predisposto alla sorveglianza degli spazi e dei reperti che il Museo, generosamente messo a disposizione della mostra, grazie alla piena collaborazione della direttrice Eva Degl’Innocenti. Nonostante tutto, ho voluto comunque fortemente il coinvolgimento di Cristina Principale, professionista e storica dell’arte che si occupa di comunicazione e la cui competenza è nutrita anche dell’espressione del territorio tarantino. Ritengo che sia fondamentale garantire sempre la presenza di un professionista che conosca bene il territorio, per poter assicurare il miglior approccio possibile in funzione delle specificità di forza e di debolezza dell’ente pubblico locale e dei fruitori locali con cui ci si interfaccia, in relazione anche alla floridità culturale, più o meno vivace, dei diversi territori in cui si va ad operare.
La mostra SILENT SPRING è stata organizzata con l’Associazione culturale ECLETTICA – Cultura dell’Arte, di cui oggi è presidente lo scultore Stefano Faccini, ed è stata prodotta grazie al finanziamento ottenuto partecipando al bando regionale “Custodiamo la Cultura in Puglia” e da aziende sensibili come 2STAR/MOFRA e EUMAKERS. Ma senza il lavoro che ha visto coinvolti la Direttrice del MarTa, Eva Degl’Innocenti e lo staff del Museo, di cui fa parte il prezioso funzionario archeologo Lorenzo Mancini, nulla si sarebbe potuto realizzare. E non è facile confrontarsi con un’Istituzione complessa come un Museo Nazionale; l’affermazione della Direttrice, nel giorno dell’inaugurazione, “qui si entra solo per meritocrazia”, pertanto, è stata molto appagante!
Il CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO di cui fa parte la mostra SILENT SPRING è uno straordinario progetto pluriennale di fruizione di arte contemporanea di cui mi ha molto colpito il capillare lavoro collettivo che fa di ogni mostra non una dimensione limitata nel tempo, ma tasselli che si combinano in un percorso che si costruisce insieme, come risultato di una collaborazione sinergica. Quanto ritiene importante o necessaria la possibilità di un lavoro collettivo in ambito artistico? E perché?
Il lavoro collettivo è fondamentale ed il problema cardine sta nel fatto che il lavoro collettivo ha un costo. Mi dispiace enormemente che a tuttt’oggi non sia stato ancora recepito che il CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO non è un mero calendario di eventi ma molto di più che ha al centro “il lavoro” in ambito culturale: è un sistema tra professionisti del settore il cui lavoro creativo ha indubbiamente e appropriatamente un costo che oggi, purtroppo, non è coperto. Al lavoro di produzione di una mostra, allo studio dei testi, allo studio della grafica, al concept generale, alle traduzioni, al piano e ai prodotti per l’accessibilità, anche al lavoro svolto dall’artista nella progettazione di un’opera, nonché alla produzione artistica o artigianale dell’opera (come è stato necessario nel caso delle opere di Claudia Giannuli, di produzione artigianale) si deve aggiungere necessariamente il LAVORO DI IDEAZIONE che ha esso stesso un costo che non rientra nel budget della produzione fisica dell’oggetto o del service che monta audio e video (quando sono necessari) e del mero allestimento della mostra. Oggi è possibile sperare nella copertura solo dei costi vivi di produzione di una mostra, mentre si pone in un immeritato piano secondario il valore effettivo del costo della ideazione del progetto, svilendo l’importanza di quello che dovrebbe, invece, essere considerato un passaggio “perno” su cui ruota e si sviluppa tutto il progetto che si vuole proporre, di volta in volta. È assolutamente necessario un cambio di prospettiva. Vorrei poter creare e dirigere un board di curatori pugliesi, senza escludere il confronto sempre necessario e anzi auspicabile con curatori di altre regioni italiane o internazionali, a cui poter trasferire la mia esperienza, maturata negli anni, e con cui poter lavorare ad una progettazione biennale o triennale, per costruire insieme progetti che possano offrire giusta visibilità ad artisti del territorio, ma che, nel territorio sono purtroppo poco conosciuti, mentre hanno già raccolto stima e risultati in altre realtà di respiro internazionale. Porto ad esempio gli artisti Rossella Biscotti (originaria di Molfetta), Francesco Arena (nato a Torre Santa Susanna, in provincia di Brindisi) o Sarah Ciracì e Giulio De Mitri (di Taranto), solo per citarne alcuni.
Sono pienamente d’accordo con lei. Mettere in secondo piano la valorizzazione concreta di artisti di talento del territorio per dare spazio, piuttosto, a progetti spot che garantiscano un esclusivo momentaneo ritorno di favore in ambito turistico, rischia di intercettare sempre più spesso un pubblico poco interessato al messaggio artistico, svilendo il valore dell’arte e la funzione fondamentale del curatore. È necessario che venga presa seriamente in considerazione la prospettiva auspicabile di valorizzazione del ruolo e dell’identità del curatore, che non può e non deve essere ridotto ad un “organizzatore” che riempie di contenuti un contenitore-luogo di esposizione, ma deve essere riconosciuto nel suo indispensabile ruolo di regista e creatore, impegnato nella traduzione, nella scrittura e nella tessitura della trama di un progetto artistico. Un atto dovuto all’Arte, io credo, sia porre le basi e le condizioni da parte degli enti pubblici di mettersi al servizio dell’Arte, affinché la cultura sia la radice su cui far crescere la pianta florida del turismo e non piuttosto servirsi dell’Arte stessa per muovere un turismo che trovi basi solo sull’inconsapevolezza del tesoro a cui si sta accedendo.
Sì, è così. Una simile visione dell’arte che non riconosce il valore dell’ideazione non potrà mai portare a grandi risultati. Ne sono molto dispiaciuta. Ribadisco quanto sia assolutamente necessario un cambio di prospettiva da parte degli enti pubblici.
Lei ha preso parte al progetto CARNAVAL VISUAL ART 2017 che ha visto coinvolti artisti di fama internazionale sul tema identità e maschera. Uno spunto di riflessione molto interessante che mi porta a chiederle: quanto crede che l’arte possa contribuire a “rileggere” la realtà in modo più autentico?
Consentire la rilettura della realtà in modo più autentico è forse la mission fondamentale dell’arte. L’arte può e deve smascherare la realtà. L’artista ha la grandezza della “visione”, la capacità di guardare oltre, di prevedere anche il futuro, di precorrere i tempi con il suo sguardo smaliziato sulla realtà, la cui lettura non è mai una sola. L’artista ha una mission sociale, smaschera quello che non va della società oppure lo traveste di bellezza. Io sono un curatore molto attento alla veste estetica dell’opera d’arte che non significa “bello” ma cura, equilibrio. Perché siamo attratti dall’arte del passato? Perché è un’arte estetizzante. Tra gli artisti che ho ospitato nelle mie mostre, vi è Jan Fabre (belga) che molti faticano a considerare un artista contemporaneo perché definito molto “leccato”, così accade anche per artisti squisiti come Matteo Basilè o Andres Serrano.
Sono artisti che cercano nella fotografia, nell’installazione una veste impeccabile, assolutamente perfetta, facendo ricorso anche all’uso di materiali pregiati o soluzioni ricercate. Jan Fabre spazia dall’impiego del vetro di Murano, al marmo di Carrara, al carapace dello scarabeo. L’arte contemporanea è, invece, spesso associata al brutto, all’antiestetico, nell’immaginario della gente e c’è una sorta di repulsione della critica per l’opera ben confezionata. Ma l’arte, anche quella attuale, deve avere il coraggio della bellezza, perché questo può aiutarci a vivere meglio. La pandemia che abbiamo attraversato ha, inoltre, potenziato la comprensione della capacità consolatoria dell’Arte. L’arte, la vera arte quindi non solo smaschera, ma consola.
Gabriella Grande
Link per approfondimenti:
Giusy Caroppo – Storico dell’Arte e Curatore Indipendente
di Gabriella Grande
Sabato, 15 maggio, il Museo Archeologico Nazionale di Taranto ha inaugurato la prima delle mostre del Circuito del Contemporaneo al MArTA, organizzata in collaborazione con l’Associazione Culturale Eclettica – Cultura dell’Arte (di cui Stefano Faccini ne è Presidente): SILENT SPRING della scultrice pugliese Claudia Giannuli, ospitata nelle sale espositive del primo piano del Museo, a cui si potrà accedere, fino al 25 luglio, in un percorso obbligato, dopo la visita alle collezioni del secondo piano.
Se anche aveste visitato il Museo MarTa più e più volte, come è capitato a me, questo percorso vi apparirà “diverso”, perché l’essere proiettati alla visione di una Mostra d’Arte Contemporanea vi farà vivere un attraversamento del tempo passato e dei suoi “segni” e “resti” singolare. Ogni sala costituirà una dimensione che vi avvicinerà al presente, in un cammino di progressiva presa di consapevolezza della storia che ci appartiene, che cucirà una trama cognitiva che vi sosterrà, quando la fruizione emotiva dell’opera di Claudia Giannuli vi farà tremare per la bellezza con cui racconta la verità del presente attraverso il corpo che pure non c’è, ma si intuisce. Il messaggio che l’Artista ci consegna, utilizzando come canali del suo linguaggio artistico la ceramica, la vegetazione e il corpo femminile, si sviluppa in cinque teche illuminate da un led rosa, a costituire delle piccole serre (quattro terrari e un paludario). Il corpo non c’è perché diventa teca, si riduce a contenitore inerte. Noi uomini, come le piante, siamo fragili ed abbiamo bisogno di “contenitori” per vivere e, del resto, lo stesso ambiente in cui esistiamo diventa la nostra casa affettiva e, mai come in questo periodo storico, violentato dalla pandemia, il corpo è diventato teca, non raggiunto più da alcun desiderio, un contenitore “protetto” (come lo è stato in questo recente forzato lockdown), da un esterno che non è più dimensione di relazione oggettuale, ma di “attacco”, in attesa di comunicare. Un’anima chiusa, limitata a se stessa che non può mescolarsi alla vita. Mentre vi aggirerete tra le teche, istintivamente cercherete di stabilire una relazione con quanto vi si propone, scandaglierete la terra con lo sguardo, andrete in cerca di un movimento, di un soffio d’aria che alteri quella fissità e verrete scossi dentro quando dovrete arrendervi alla “distanza”, diversa da quella che intercorre tra voi e un reperto museale disposto nelle vetrine tra una teca e l’altra. Il tempo vissuto, raccontato da ogni reperto del IV e III secolo a. C. è pregno di vita, sale agli occhi come una visione, e fa da contrasto al tempo fermo, immobile che scivola sulle pareti lucide dei dispositivi-gioiello in ceramica di Claudia Giannuli perché è tempo mortificato, è “il poteva essere e non è stato”, è tempo vinto nella spirale dell’isolamento. Adagiati su terreni, inerti, immobili troverete cinque dispositivi-gioiello floreali come mine inesplose, ”toppe di blindatura”, come le ha definite l’attento Curatore Antonello Tolve, “ferite” imposte che mortificano gli organi sensoriali e che, nei sette video proposti lungo il percorso, trovano applicazione nelle aperture del corpo femminile di un avatar, questo “sistema aperto” verso l’esterno, che è il corpo, viene colonizzato nelle sue parti visibili e accoglienti, in una penetrazione che non contraddice la vita, ma la silenzia. Penetrazione che non rappresenta una vera e propria occlusione, quanto piuttosto un’inclusione. Si ravvisa una sorta di “interramento” negli orifizi del corpo umano (l’estremità della forma di due dei cinque dispositivi-gioiello rimanda al bulbo) che diventa un vaso contenente linfa, energia che conferisce vita e si fa alimento per questi vegetali-gioiello che, proprio per aver ricevuto vita dal corpo, possono realizzare un movimento che assume il ritmo regolare del respiro. E in questo movimento, quasi impercettibile, conferito dal ritmo vitale del respiro che vitalizza la pianta stessa, si evidenzia come il mondo vegetale venga elevato, dall’Artista Giannuli, a componente percettiva di un’esperienza soggettiva di alienazione, di isolamento coatto. L’aspetto formale di rimando fallico di due dei cinque dispositivi-gioiello, che il Curatore Antonello Tolve descrive come “oggetti di piacere corporale e dispiacere”, portano a riflettere sul meccanismo profondo che rende l’essere umano dipendente da manovre difensive di alienazione. Il potere “seduttivo” di quanto chiude dall’esterno, blandisce la capacità di “resistere” alla mortificazione di una dipendenza autodistruttiva che si alimenta di un sentimento di impotenza, radice della collusione scaturita dalla gratificazione allarmante dell’essere dominato da un potere esterno. L’Artista sembra volerci scuotere da questa organizzazione che può diventare perversa perché desoggettivizza e, attraverso l’Arte e la sua fruizione emotiva, darci un’indicazione per un necessario risveglio alla vita che sia occasione di crescita psicologica e consapevolezza di sé. “Possiamo ribadire all’infinito che l’intelletto umano è senza forza a paragone della vita pulsionale, e in ciò avere ragione”, ci ricorda Freud, “eppure in questa debolezza c’è qualcosa di particolare: la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza. Più e più volte pervicacemente respinta, riesce alla fin fine a farsi ascoltare.” 1
È uno schermo il mezzo attraverso il quale l’Artista Giannuli, sceglie di rappresentare visivamente e di oggettivare un contenuto del mondo interno. I sette video diventano, così, un ponte di comunicazione di grande potenza, irrompono silenziosi nelle nostre porte d’accesso, fino a farci sentire “toccati” e violati. L’avatar, ospite di questo presente e, fino al 25 luglio, dell’incanto di una storia che arriva a parlarci dal IV e III secolo a.C., tra i reperti funerari di una civiltà che credeva nella vita oltre la morte e i ritrovamenti di specchi, flauti, maschere comiche e personaggi grotteschi del mondo del teatro e della musica, ha gli occhi chiusi ma non è addormentata, è anima quietamente alienata, sola. Sembra aver raggiunto un “equilibrio” immobile, una passività privata della sua intenzionalità, trasferendoci la visione degli effetti di un “sistema” che sta operando indisturbato, perché l’essere umano ha utilizzato il suo rifugio per restare relativamente libero dall’angoscia, al prezzo di un arresto quasi totale della sua espressione. La rappresentazione dell’avatar, a mio parere, si colloca perlopiù in una dimensione inconscia, dove sembra non ravvisarsi alcuna consapevolezza di quanto traumatica possa essere la perdita della comunicazione con l’esterno. Il riparo blindato danneggia la possibilità percettivo-sensitiva e il gioiello floreale è un dispositivo che, sebbene blindi nella sua porzione penetrativa in cui “far esistere l’altro come luogo della mia esistenza” (come direbbe Lacan), rendendo impossibile il “sentire” e creando un’interruzione di flusso dall’esterno, allo stesso tempo, costituisce ancora un tramite con il mondo esterno nella sua porzione floreale e quest’ultima frazione, fragile, delicata, (che richiama l’oreficeria tarantina del IV e III sec. a.C. e , in particolare, la Corona a foglie di quercia e il Diadema fiorito, conservati nel MarTa e la cui pianta di origine differisce in quattro delle cinque strutture, ed è specificata in tableaux al fine di leggerne la derivazione come chiavi di accesso a quanto si è “sacrificato” in questo processo di isolamento e di alienazione), consente ancora, anche se in modo quasi impercettibile, il richiamo, destabilizza il punto di rottura, di interruzione con l’esterno e rende ancora possibile il farsi “sentire”. Ma è un farsi sentire silenzioso quel respiro appena percettibile che i nostri sguardi incontrano nel percorso. Quell’ornamento floreale, che chiude le aperture del corpo dell’avatar, diventa ornamento diagnostico che sembra domandarci: “Ci sei ancora? Vieni più vicino, libera il mio respiro, libera il tuo respiro”, mentre si attraversa la sala che racconta di una storia che ha resistito al tempo e che ancora parla al visitatore e lo fa in maniera più efficace nel percorso tra le sale del MarTa che si deve effettuare per raggiungere la Mostra Silent Spring e che è stato scelto in una strategia di condivisione di visioni che ha portato il progetto Il Circuito del Contemporaneo (il cui Direttore Artistico è un’appassionata Giusy Caroppo) ad avviare una dialogo tra collezione e spazi del Museo che facilita e incoraggia una fruizione emozionale. Come ha spiegato l’illuminata Direttrice del Museo Marta, Eva degli Innocenti: “alla Mostra dell’artista Giannuli si giungerà attraverso una sorta di percorso catartico che dal passato condurrà al presente e al futuro, dal secondo al primo piano delle nostre collezioni”, percorso che si è rivelato, a mio parere, “un narrare necessario a poter pensare” prendendo in prestito le parole dello psicanalista Nino Ferro. Se vorrete visitare la Mostra, e ve lo consiglio vivamente, forse capiterà anche a voi, come è successo a me, di imbattervi in una guida che cercherà di riportare la vostra attenzione sui reperti museali sui quali è evidentemente molto preparato, ma tenete bene a mente, mentre zigzagate tra passato e presente che, in quella sala, una presenza “silenziosa” aspetta l’incontro con il fruitore per dargli l’opportunità di un “risveglio”, di una “primavera” che faccia recuperare il senso, la verità storica dell’uomo, ovvero che il vissuto dell’essere umano è relativo ad un’esperienza di rapporto. “Noi siamo un dialogo”, come sostiene lo psichiatra fenomenologico G. Stanghellini, “un dialogo con l’alterità, quella che abita in noi e quella costituita dall’Altro fuori di noi.” In un suggestivo scatto di Pierpaolo Miccolis, che vi propongo, io credo si possa trovare racchiuso il senso e il mistero di questo “incontro” tra Silent Spring e il MarTa. La testa femminile in terracotta (IV sec. a. C.), la cui espressione racconta l’equilibrio della grandezza dell’anima tipico delle figure greche, è “ferita” proprio nei “luoghi corporei” in cui, nell’avatar di Claudia Giannuli è avvenuta la penetrazione di due dei cinque dispositivi-gioiello floreali, destinati all’occhio e al naso. È un trait d’union acceso quello che si realizza e che ci fa muovere in una dimensione emotiva che è essa stessa contenitore, reale, solido, scialuppa di salvataggio che garantisce uno spazio nuovo in cui potersi aprire al messaggio di quest’Artista barese che ci mette in guardia nell’attraversamento di questa “Primavera silenziosa”.
Il titolo della Mostra è mutuato dall’omonimo libro della biologa marina statunitense Rachel Carson, pubblicato nel 1962,2 decisivo per la storia del pianeta terra e dell’intera umanità. Gli storici della scienza sostengono che, con questo libro e in questa data, abbia avuto inizio la nuova era della storia umana: l’era dell’ecologia. La Carson, con questo saggio, è stata la prima scienziata al mondo ad avvisare che doveva essere rivisto il modello di sviluppo, in quanto l’utilizzo continuativo del DDT nelle campagne stava minacciando in modo irreparabile la biodiversità, e che il rapporto scienza tecnica ed etica che si stava applicando avrebbe portato all’autodistruzione. La Carson ha sentito l’urgenza di dire all’umanità di fare attenzione, di rivedere il senso di appartenenza dell’uomo alla terra, di rivisitare il senso dell’umanesimo”, come ricorda in una preziosa intervista il Prof. Luciano Valle (filosofo che ha profuso il suo impegno nella ricerca sui temi dell’Etica ambientale). “Stanno scomparendo i pettirossi” denunciava la Carson “ stanno scomparendo i cardellini, i verdoni nelle campagne americane e il loro canto. Ma quando scomparirà tutta questa biodiversità, allora scomparirà la bellezza”. L’artista Giannuli recupera il grido di denuncia della Carson e, attraverso il potente strumento dell’Arte, che, come ha affermato il Curatore della Mostra A. Tolve nella presentazione che si è svolta il 15 maggio nel chiostro del Museo MarTa “ha sempre avuto il potere magnetico di risvegliare il cervello atrofizzato della società e di educarla”, ci avvisa di stare attenti, di restare accesi, perché stiamo blindando la vita, ne stiamo annullando la comunicazione e, di questo passo, scomparirà il canto dell’uomo, l’unicità di ogni singola “voce”. E se scompare tutto questo, perdiamo la bellezza, quella stessa che, invece, nei secoli ha resistito ed è arrivata fino a noi e si fa grembo di un grido silenzioso che non possiamo non ascoltare. “Sapete voi, sapete che l’umanità può vivere […] senza la scienza e senza il pane, soltanto senza la bellezza non può vivere, giacché non avrebbe più nulla da fare al mondo!” 3 R. Carson insisteva nel dire che l’umanità non può perdere la bellezza che è insita nella natura perché l’etica dell’umanità, senza bellezza, è un’etica monca. La scultrice Giannuli riprende quel monito, e attraverso il veicolo della natura, difesa dalla Carson, viene a dirci che l’umanità non può perdere la bellezza della relazione, che è alla genesi della comunicazione, perché un’umanità mortificata si aliena e muore.
1 Freud, L’avvenire di un’illusione Einaudi 2015
2 R. Carson, Silent spring, Houghton; later Printing edizione, 1 gennaio 1962
3 F. M. Dostoevskij I demoni, Rizzoli, Milano 1981, pag. 537
BREVE PROFILO DELL’ ARTISTA Claudia Giannuli (Bari, 1979). Scultrice, la sua produzione si caratterizza per opere in terracotta, realizzate con misurata sintesi formale, che rimandano prevalentemente a un universo femminile, quotidiano e alquanto paranoico; le piccole presenze sono collocate in ambientazioni in scala, dove l’argilla è contaminata da legno, resina o altri materiali sintetici. Nel 2013 la Fondazione Museo Pino Pascali di Polignano a Mare, che vede la sua opera presente in collezione permanente, le dedica la personale “Ognimaledettadomenica”. Nel 2015 al suo processo creativo è stato dedicato “Le pareti di vetro” per la regia di Vito Palmieri, docufilm prodotto nell’ambito del progetto ArtVision, trasmesso da SkyArte nella primavera del 2016. Parallelamente all’attività artistica insegna “Tecniche della Ceramica” all’Accademia di Belle Arti di Bari.
Articolo pubblicato su lojonio.it (Direttore Leo Spalluto) il 2 maggio 2021
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di Gabriella Grande
Dentro tutte le cose c’è amore? Sì, ma “l’amore ti spezza”1, come ci avvertiva già Philip Roth, “frantuma”, come canta il poeta di Castelfiorentino in questi versi (Puntoacapo Editrice, 2021), capaci, però, di riconoscere nella vibratilità sottile di ogni passaggio, seppur breve e silenzioso, della vita uno stato gestativo continuo, le possibili e sempre nuove dinamiche riparative e costruttive di una forza che è ciclica rinnovazione dell’origine, in cui la frantumazione è il preludio di una rigenerazione che sottrae all’esito finale.
Capire i rapporti dell’amore con la vita richiede già amore e il coraggio di fare ricorso alla dimensione creatrice della Poesia, perché si renda possibile esprimere un concetto limite così sfuggente, ovvero un concetto il cui confine, “un limitare che attende il perdono”, è superiore alla portata umana e nel quale ci si smarrisce senza il linguaggio della Poesia, questo “dono da meritare prima del silenzio” che eleva la nostra temporalità fino all’orizzonte dell’essere.
Nell’attraversamento dei versi di Paolo Parrini – un caleidoscopio delle voci emozionali più intime – ha riecheggiato nella mia mente quanto dice Fantasio nella pièce di de Musset: “Ognuno porta in sé un mondo”2 mentre “la notte annera il giorno”, mentre “muore il […] tempo breve” in cui “gli anni hanno corroso i sogni” “a ricercare parole, quelle ancora non dette tra le mille sprecate”. E lo strumento di conoscenza della poesia parriniana è la malinconia. La malinconia3 di Dürer, la malinconia della serie di Munch4. Una malinconia in cui ci riconosciamo tutti, ancora di più in questo particolare periodo storico, su questa terra che ci appare così “dolorosa e fragile”, per mezzo della quale la sua parola poetica rivela e manifesta l’essenza del nostro tempo povero, in cui la realtà assume, nei suoi versi, le sembianze del vento che strappa, che frusta, che scuote, che fiacca mentre irrigidisce il pensiero in cui ci sono ferite che restano irraggiunte, come quelle di giovani vite perse ancora prima di cominciare (“Ragazzi di pineta”) o interrotte (“Non so se fu una corda”) quando “morire è cosa leggera quando si spegne il sole in un sorriso stanco”. Spetta alla poesia dare voce a queste ferite. Prendendo in prestito le parole di Deleuze, spetta al poeta “andare nei luoghi estremi, alle ore estreme, dove vivono e si levano le verità alte più profonde.” 5
Cantare una ferita equivale a sanarla, ad accogliere l’amore che ne era rimasto sommerso perché inascoltato (“il fiato sui vetri copre le ferite”), restituendogli pace e perdono nella notte che, per il poeta Parrini, viviamo tutti e che altro non è se non un “attimo sospeso tra il nulla e il ritorno”, dimensione dell’esistenza scissa tra due possibilità reattive con opposte volontà di potenza. E in questa notte il “buio […] accoglie l’occhio nudo”, ovvero ci accoglie nudi, esposti, senza riparo, inducendoci, di conseguenza, ad un difetto di visione della fine e del senso delle cose.
Nel greco antico, “oida” (οἶδα), il tempo perfetto del verbo greco “orao” (ὁράω, che significa “io vedo”)viene impiegato per esprimere, nel presente, il risultato di un’azione avvenuta nel passato; “oida” quindi significa “io so perché ho visto“. L’azione della visione nel passato rende possibile la conoscenza nel presente. Ma Parrini canta la difficoltà della visione e, di conseguenza, l’impossibilità della conoscenza del senso delle cose e, per questo, “morremo senza sapere”. Ma la morte non è l’ultima parola del poeta. In questa notte “ogni volta morire, poi rinascere”, in questo eterno ritorno in cui l’amore, ”solo l’amore azzanna al collo la morte, frantuma e rinasce”, risolvendo ciclicamente il dramma dell’oggettivazione del nulla nel ritorno. L’amore è dunque una forza liberatrice, affermatrice. Forza attiva e reattiva che “frantuma” (e “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”) imponendo la sua valenza e dominando quanto gli si oppone, affermandone l’essenza, affinché “sia luce e risa. Sia la vita”.
Mentre la natura (simbolo dell’eterno rinnovamento, della rigenerazione) protegge il senso (“è un albero a rammentarti il sole”) “siamo vivi dentro questo dolore che ci tiene svegli e ci costringe a non morire”, “persi nel vuoto”, un vuoto non concepito come assenza, ma come spazio potenzialmente attivo, in cui si avvicenda un processo continuo di alternanza di creazione e annichilimento e in cui la felicità “ci appare a tratti. Lampeggia. Come un faro nel buio”.
“Perdonaci Dio” recita un verso di Parrini, lasciando spazio alla speranza di una dimensione che sia luogo di origine e destinazione. Ma, come canta l’inno a Patmos di Hölderlin : “Dio è vicino, ma non si lascia afferrare” e, nel frattempo, “la pelle è un ramo sconfitto”. Verso in cui c’è tutta l’umanità dell’uomo che lotta e, il più delle volte, cade. L’immagine sembra rimandare alla matematica dei rami, teoria sostenuta da Leonardo e poi dimostrata scientificamente, secondo la quale la disposizione dei rami sugli alberi non è casuale, ma segue regole matematiche, per adattarsi meglio a resistere alla violenza del vento ed evitare la rottura dei rami. Nella poesia di Parrini il vento è metafora della vita e la pelle “è un ramo sconfitto” dalla violenza di questo vento di solitudine e di abissi incolmabili in cui il poeta confessa: “non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi”, riprendendo il tema della visione compromessa dal buio in cui abitiamo e che, spesso, diventa anche non coincidente con l’altro con cui ci interfacciamo, per una vita o per pochi attimi. E la non coincidenza dello sguardo neutralizza l’esperienza dell’altro e ci conserva nella nostra fragilità, perché guardare l’altro dà la possibilità di conquistare un potere che è autenticamente umano, ovvero non il potere sull’altro, ma il potere con l’altro, che rende più umani. Per questo, il poeta suggerisce: “molto amammo. Molto non sapemmo farlo, ma adesso è tempo ancora dello sguardo”, senza temere il vuoto in cui ognuno di noi è perso, la tempesta che il singolo attraversa e in cui “inesausto batte il cuore, s’infrange sullo sterno e sul costato.” Il vuoto diventa un alleato per il poeta, perché lo rende disponibile all’evento parola, non più povera, ma presenza reale intersoggettiva, nutrimento, pane. E il pane, ci ricorda Parrini, “è un pezzo di vento impigliato dentro il grano”, verso che considero centrale della poetica parriniana.
Il grano, questo seme di nutrimento generato dall’amore che è in tutte le cose e nell’evento parola, trattiene il “vento”, ovvero la realtà e la ferocia, l’incomprensibilità di alcune sue manifestazioni e ne genera un impasto che, purificato dal dolore, diventa “pane”, possibilità di far crescere dentro di noi quello che mai si esaurisce, apertura all’esperienza dell’essere che può manifestarsi in una pacificante luce nel buio: “dov’era la notte il buio si squarcia in atomi di stelle”. L’amore, quindi, nell’alternanza tra il nulla e il ritorno, non solo stabilisce il carattere selettivo del ritorno, ma diventa lievito e predispone al miracolo: “Tu vedi ombre che inseguono il sole, eppure è già notte stanotte”. Tu, caro lettore, che attraverserai la poesia di Parrini, “fallo con dolcezza. Smorza il grido, resta come neve bianca” e, forse, come me, ti sorprenderai a ritrovarti in “La notte stellata sul Rodano” di Van Gogh6, in cui una coppia di innamorati svela il segreto della vita: “ogni uomo è amore se lascia scorrere le sere buie in un immenso oceano”.
“Tremo se penso che potremmo perderci così, senza aver stretto le mani”. “Saremo l’amore che abbiamo lasciato”.
Gabriella Grande
Dentro tutte le cose c’è amore – Paolo Parrini | puntoacapo (puntoacapo-editrice.com)
Non ci siamo persi mai,
la vita che non vivemmo è tutta qui, in queste mani segnate,
nelle rughe all’angolo della bocca
nei piedi feriti dai vetri lungo il cammino.
Non ti ho mai detto amore guardandoti negli occhi.
Paolo Parrini
1 Philip Roth, “L’animale morente”, Einaudi, 2013
2 A. de Musset. “”Fantasio” in Théâtre complet a cura di S. Jeine, Gallimard, Paris 1990, p. 109
3 Melancholia I. 1514. Incisione di Albrecht Dürer, dal trittico Meisterstiche
4 Malankoli è una serie realizzata dal pittore norvegese Edvard Munch e composta da 5 tele (1891-1896) e due xilografie (1897-1902)
5 G. Deleuze, “Nietzsche e la filosofia”, Coportage, Firenze, 1978, p. 160
6 Van Gogh, “La notte stellata sul Rodano”. 1888, Musée d’Orsay di Parigi
“Ho trovato una corda. La volevo robusta, forte, disumana.”
Scegliamo cosa cercare e troviamo quello che ci impegniamo a cercare.
Ce lo ricorda Francesco Zarzana, in questo suggestivo racconto (ProgettArte Edizioni, 2020), basato su fonti storiche e bibliche e sulle possibili dinamiche che possono essersi sviluppate laddove la storia indietreggia davanti al mistero, in cui il divino e l’umano si sfiorano senza mai riuscire a toccarsi veramente.
Zarzana rende possibile un incontro ravvicinato e un confronto con l’Iscariota, una delle figure più enigmatiche della storia dell’umanità, la cui ricerca della soddisfazione di un suo bisogno si rivelò una corda disumana, paralizzante e mortifera e cercare di capire questo aspetto della fragilità umana, fraterna (perché Giuda è un nostro fratello, anche se rifiutato e dimenticato) è una sfida difficile, ma necessaria, mentre “sembra quasi che Dio non voglia farsi più sentire e non voglia più bene ai suoi figli prediletti”. Zarzana ci accompagna, con la sua scrittura limpida, nel silenzio di Dio, permeandone l’intero tessuto dell’opera, ma non per farlo corrispondere al vuoto della parola quanto, piuttosto, ad un piano di confronto dal valore interrogativo, in cui la radice di ogni dialogo, incontro e situazione è il non ancora detto che attende solo di essere raggiunto. Da attento regista qual è, Zarzana lo inserisce come spazio di comunicazione più radicale, suggerendo che, per essere luogo rivelativo, necessita di un accesso più profondo, di intercettare la capacità di costruzione intorno al senso e non solo quella, più immediata, intorno alla “fame”, al “bisogno contingente”, in uno spazio creativo inatteso in cui la comprensione, lungi dall’avvenire solo su un piano intellettivo, si aprirà al possibile, al potenziale, in un processo di sintonizzazione emozionale necessario a raccogliere ed accogliere ciò che si disvela.
Il II capitolo si apre con la pericope di Giovanni Battista che predica nel deserto e Giuda racconta la sua partecipazione “all’interramento di Giovanni.” Considero importante la scelta dell’Autore di inserire la sepoltura di Giovanni Battista in uno dei primi capitoli, quindi nella fase di apertura al nostro incontro con l’uomo che la storia ha reso l’emblema del tradimento. L’uomo dell’attesa, Giovanni Battista, viene seppellito da Giuda che, invece, non ha saputo “attendere”, ma nel significato latino di rivolgere l’animo verso chi aveva deciso di seguire. Il Battista fonda la sua vita e la sua predicazione sulla Fede e sulla fiducia in Dio. Crede in Lui in una dinamica in cui credere precede la conoscenza. Accoglie il desiderio di Dio e desidera il desiderio di Dio, ovvero è capace di desiderare il desiderio dell’Altro, quindi di riconoscerlo, pur non conoscendolo. “Ho fede mentre cerco di capire” è il fulcro su cui si muove l’esperienza di Giovanni Battista, degli altri undici discepoli e dello stesso Autore, che esordisce scrivendo: “Mi sono proposto di cercare di capire” […] “Una bella sfida che ho accettato con me stesso” Ed ancora: “Non ho paura della morte e proprio per la mia fede.” Parole che Zarzana fa pronunciare a Giuda in quest’opera, ma che credo non possano essere riferite a lui quanto all’Autore che, in apertura del testo si affaccia a tratti, interpellandoci, chiamandoci a reagire, a non attraversare la lettura in modo passivo, ma ad accettare il rischio di lasciarci mettere in discussione, rinunciando alla tentazione del giudizio che muove sin dallo sfoglio della copertina.
“Non gli abbiamo creduto. O forse non gli abbiamo voluto credere.”
Se mettiamo a confronto le parole di Giuda con la pericope di Giovanni1: “Che cosa dobbiamo fare per operare le opere di Dio?” Rispose loro Gesù “questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”, comprendiamo quanto credere, che implica l’accogliere, sia fondamentale per poi conoscere. Il verbo credere, in quest’opera, è menzionato da Giuda solo in negativo: non lo abbiamo accolto. Forse non lo abbiamo voluto accogliere, non abbiamo voluto accogliere il suo desiderio. Ci sembra così lontano da noi Giuda, eppure quante volte non abbiamo accolto il desiderio, ovvero la tensione verso il compimento della Verità del Sé, dei nostri figli o della persona che diciamo di amare o, addirittura, il nostro desiderio? Quante volte abbiamo tradito così?
“L’ho seguito per mesi e mesi. A distanza. Era il modo più corretto per capirlo.” racconta Giuda nelle pagine del Zarzana. “Lui andava non solo ascoltato, ma anche osservato, studiato, capito”. Sono stati selezionati dall’Autore verbi che vengono declinati nell’ordine del controllo, a sottolineare la scelta di Giuda di seguire Gesù, mosso esclusivamente da una volontà (Giuda vuole un Messia politico) e da una necessità (Gesù doveva essere proclamato Re dei Giudei). Giuda segue il Maestro per capirlo, ma si tratta di un capire per valutare, piuttosto che per comprendere, fermandosi, quindi, ad un atto intellettuale che segue le leggi della logica, escludendo la riflessione dalla dimensione emotivo-spirituale, e dalla compassione, dalla capacità di decentrarsi da sé per assumere la prospettiva dell’Altro. In questo modo, Giuda si sottrae alla scoperta, alla dolorosa, ma necessaria ricerca del senso dell’agire dell’Altro. Poiché “l’altro è anche colui che a causa della sua estraneità ci indica un altrove.” 2
“Volevo proteggere il Maestro“, continua a raccontarsi Giuda e sembra non rendersi conto di voler proteggere Gesù esclusivamente in funzione del suo modo di vedere le cose, cementato da un rigido sistema culturale e da una sua circoscritta idea politica di salvezza. Di conseguenza, questa sua volontà si rivelerà un tentativo sì di proteggere Gesù, ma dal voler essere qualcosa di diverso dal suo bisogno.
Quando Giuda va ad incontrare Gesù per chiedergli di diventare suo discepolo, Zarzana ci descrive un Maestro con gli occhi chiusi. Sottolinea per ben quattro volte questo particolare, che contrasta fortemente con la chiamata degli altri discepoli, che lo seguirono dopo essere stati guardati. Zarzana, con questo mancato accesso allo sguardo di Gesù da parte di Giuda, mette in risalto la loro reciproca intoccabilità, ovvero l’impossibilità di far entrare in contatto il bisogno di Giuda con il desiderio di Dio. Infatti, Zarzana fa dire a Giuda: “Non mi ero mai sentito così a disagio come in quel momento”. Il disagio è l’humus su cui si manterrà viva una sottile, ma continua diffidenza nei confronti del Maestro, della Promessa e dell’Attesa, in quanto Gesù rompe l’unità tra un inizio della storia della Salvezza (che Giuda conosceva bene) e la fine, che lui faceva coincidere con una conquista politica. Ma Gesù stravolge la logica, viene a fare nuove tutte le cose e quindi viene a decostruire quell’unità, non a distruggerla, ma a decostruirla, perché la Verità si rivela essere altro. Alla Verità si arriva attraverso l’Amore, in quanto la Verità ha a che fare sempre con l’umano e “l’umano arriva dove arriva l’amore” sosteneva Italo Calvino. L’amore, non lo scontro, diventa il legame di nuova costruzione. Per questo, quando Gesù gli dice: “Giuda resta con noi” lui si blocca. Gesù gli chiede di restare nel suo desiderio e in questa esortazione c’è una richiesta di movimento, da se stesso, dal suo bisogno, dalle sue convinzioni, verso il desiderio di Dio. Molto interessante l’utilizzo di Zarzana di un verbo di stasi per orientare il movimento, evidenziando come si tratti di una richiesta di movimento interiore. Ma Giuda cosa fa? Zarzana gli fa dire: “Mi guardai attorno […] Cominciai in maniera naturale a raccontare tutto di me…” sottolineando come alla richiesta di movimento, Giuda risponda con un più acceso focus su se stesso e sulla sua vita. Infatti, quando Giuda, presentandosi a Gesù, gli dice: “Io sono un uomo colto che vuole servirti”[…]”Sono qui sperando di servirti”, non intende il servizio nel senso della “sottomissione” al suo desiderio e alla sua volontà, ma “spero di servirti” significa spero di esserti necessario, di esserti utile per uno scopo, ma a quello in particolare che Giuda credeva giusto: farlo proclamare Re dei Giudei. In Giuda c’è un’inaccessibilità ai contenuti e alla logica di Gesù a causa di una rigidità del pensiero e di una incapacità di modificare la prospettiva da cui guardare Gesù che lo ammonisce: “La tua mente è chiusa” ,“Giuda, apri i tuoi occhi e il tuo cuore.” Ma al “venite e vedrete” del Maestro, Giuda risponde restando fermo nel suo bisogno, deluso quando capisce che al Maestro “non servono le mie idee.” Manca in Giuda la capacità di accogliere l’alterità di Gesù rispetto alle sue aspettative politiche. Il sentirsi tradito da Gesù è intimamente collegato alle illusioni in cui Giuda vive, alla realtà che lo circonda e alla sua condizione di disillusione. “I giudizi di valore degli uomini sono dettati esclusivamente dai loro desideri di felicità e sono quindi un tentativo di argomentare le loro illusioni.” 3 Giuda non si concede la possibilità di trascendersi, di elaborare significati nuovi ed è quindi tragicamente esposto al suo limite. “Ho sempre sperato che cambiasse idea”, fa dire Zarzana a Giuda. “Quando ci rivolgiamo agli altri, foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione di adeguarsi al nostro stato d’animo, di ripensare quel vero che pensammo noi […]. E se la cosa sta così, il problema del comunicare con altrui, del parlare ad altrui, non è quello di dire o non dire il vero ma di operare su altrui perché operi.” 4 Giuda non ha voluto negoziare i confini delle sue idee, perché? Non era un innamorato, questo lo suggerisce Zarzana quando gli fa dire: “Le sue parole conquistano il cuore della gente..“ Il cuore della gente, non il suo! E quindi non vi è potuto essere riconoscimento e Gesù è rimasto per Giuda uno straniero. Non si attua quella che i francesi definiscono la “reconnaissance”, parola che esprime sia l’atto del riconoscere che la riconoscenza, la gratitudine legata all’essere riconosciuti. Il riconoscimento è il nucleo fondante della stessa possibilità di conoscenza. Ma Giuda non riconosce e non si sente riconosciuto nel suo bisogno. Resta, quindi, strozzato dal suo io dal carattere monadico e non si attiva il desiderio che è movimento, è spinta e messa in discussione. Gli altri undici discepoli sono, invece, innamorati, e il desiderio generato dall’amore li muove per quello che attraverso il desiderio in essi viene evocato come potenza e possibilità d’essere. Nell’innamorato il desiderio diventa il desiderio dell’Altro e quindi, in questo caso, desiderio di Dio, mentre in Giuda prende forma solo il bisogno solitario e onnipotente che pretende di realizzare in modo immediato e diretto il proprio appagamento definitivo. Il suo bisogno deve coincidere con il desiderio dell’Altro, una sorta di mimesi in cui non c’è possibilità di rapportarsi davvero all’Altro, ma in cui si celebra l’esclusivo trionfo del sé, in un territorio di conflittualità che non lascia scampo all’esclusione dell’Altro, fino alla sua distruzione. L’ esito è sempre tragico: distruttivo e autodistruttivo. “Di questo avevo bisogno. Della necessità che qualcuno costruisse dentro di me la vera immagine di Dio“ ovvero l’immagine che lui poteva sopportare come vera, senza doversi schiodare dalle sue convinzioni. La costruzione interna è un processo che implica sempre delle scelte di inclusione e di esclusione che, quando si fondano sull’esclusivo tentativo di riconoscimento delle proprie aspettative nell’altro, risultano rigide e fallaci.
“Tutti hanno tradito. Tutti abbiamo tradito.”
Ma Giuda “ha tradito” nel significato latino del verbo “tradere”, ovvero consegnare, azione che ha in sé implicito il rifiuto del desiderio di Dio, mentre i discepoli hanno tradito ciò in cui credevano, quindi “si sono traditi” e tradirsi implica manifestare ciò che si voleva tenere nascosto: la paura e la fragilità (ovvero il volto più umano dell’uomo), per impotenza, per imperfezione, per vulnerabilità; tutti aspetti umani in perenne tensione con i loro opposti. M. Nussbaum scrive: “Una parte della particolare bellezza posseduta dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità” 5. È nel riconoscimento del proprio limite che ci si può accostare al perdono, ma soprattutto ci si può perdonare e accedere ad una sorta di processo di re-figurazione del Sé, da cui nasce nuova consapevolezza, come accade nei discepoli. In Giuda questo non succede e al tradimento consegue solo annientamento, poiché Giuda non rimodula le sue convinzioni e da questo ne consegue che la sua sofferenza è soggiogata ad una forma estrema di passività che lo fa ripiegare su di sé. Non c’è in lui alcun “reditus ad cor” (dal latino: ritorno al cuore). “Il mio pentimento è solo ed esclusivamente nei confronti del mio Maestro.” Giuda quindi non si pente del tutto, e il suo pentimento è solo relativo al suo Maestro, ovvero alla sua idea del Maestro, ma che non corrisponde alla Verità di Gesù. Infatti, quando pensa ad un’alternativa al suicidio, il Giuda di Zarzana si dice: “Penso che tornare a casa sarebbe per me una buona soluzione”, evidenziando l’incapacità di Giuda di contrapporre al bisogno il desiderio, ma una soluzione. E soluzione diventa per lui morire, forse per continuare a seguire il Maestro nell’ultima, deformante interpretazione della morte di Gesù. Giuda resta ottuso, l’anima seduta.
Dio ha creato l’uomo libero con un pensiero libero; libero di scegliere il bene e il male. Giuda non era predestinato al tradimento. Altrimenti saremmo tutti schiavi di Dio. Dio non si è servito di lui, ma sapeva, invece, cosa avrebbe fatto, sin dall’inizio dei tempi. Giuda è rimasto fermo nella sua corporeità, non elevandosi alla grandezza dello spirito. Orfano di una conoscenza superiore, a causa della sua superficialità, abbandona Gesù perché non ha risposto ai suoi bisogni. Si ribella a ciò che non capisce. C’è tanta umanità nella figura di Giuda che si perde, che non riesce a sollevare lo spirito verso il divino. Gli manca la necessità di andare oltre. La religione è, in fondo, un’espressione di coraggio. Ci vuole molto coraggio per avvicinarsi all’idea di Dio, comporta un’ attenzione sempre viva alla parte spirituale.
C’è molto mistero intorno alla morte di Giuda, probabilmente perché lui muore già quando decide di consegnare il Maestro, tradendo la parte divina di Gesù che rifiuta. È in quel momento che Giuda uccide la sua spiritualità, la sua parte nobile. Il primo atto di morte è il rifiuto della resurrezione dello spirito. Il peccato di Giuda, in fondo, forse consiste proprio nell’aver tradito la parte spirituale del proprio Sé. Il diavolo ha rinunciato allo spirito. È il tradimento più grande.
Ho terminato ormai da alcuni giorni la lettura di “Iscariota” di Francesco Zarzana, ma lo trattengo ancora sulla mia scrivania. Credo che ci resterà per molto. A ricordarmi che il bisogno può uccidere il Desiderio, inteso come tensione verso il compimento della Verità del proprio Sé, che è sempre tensione verso il Bene, ed è tensione che spinge per il nostro Bene. Cercare di capire qual è la strada per arrivarci è difficile, ma “le onde si tuffano contro le rocce e ci rimbalzano quasi respinte. Ma poi ci riprovano. Ci riprovano sempre. Eternamente.”
“Abbiamo mai davvero chiesto aiuto a Dio?”
di Gabriella Grande
1 Gv 6, 28-30
2 G. Dardes-I. Punzi, Dov’è tuo fratello?, pp. 15-16
3 S. Freud. Il disagio della civiltà (1929) in Opere, vol. 10 cit pag. 629
4 B. Croce, Etica e politica, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994, pp. 46-47
5 M. Nussbaum. La fragilità del bene, 2011
“Contro l’empatia” di Paul Bloom, Liberilibri edizioni, 2019
Recensione di Gabriella Grande
Calvino, in un intervento dedicato a Carlo Emilio Gadda dal titolo “Il mondo è un carciofo”, sostenne che: “la realtà del mondo si presenta ai nostri occhi multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti. Come un carciofo.” 1 E in questo mondo, con la bellezza della sua complessità, Bloom ci invita a considerare che l’empatia, da sola, non basta. Le nostre decisioni e le nostre azioni morali sono fortemente modellate dalla forza dell’empatia, e questo, il più delle volte, rende il mondo peggiore. Il saggio dello psicologo di Yale ci invita a considerare che i problemi che affrontiamo come individui e come società sono spesso dovuti ad un eccesso di empatia. Come ha dichiarato l’etologo olandese Frans de Waal, noi non viviamo in un’età della ragione, viviamo in un’età dell’empatia. Bloom sostiene che l’empatia ci tradisce quando la prendiamo come guida morale e che ci sono alternative preferibili.
L’empatia può essere grande fonte di piacere se riguarda l’arte, la fantasia, lo sport ed è preziosa nelle relazioni intime, in cui si desidera il rispecchiamento empatico, anche se Bloom ci porta a riflettere come, spesso, si riveli fallimentare anche nella dimensione dell’intimità. L’empatia può corrodere relazioni importanti come quella tra medico e paziente (poiché il paziente non cerca il rispecchiamento dei suoi stati d’animo e delle sue emozioni nel medico, ma sicurezza laddove è incerto e calma laddove è insicuro. Il paziente, come fa notare Bloom, vuole “guardare il medico e poter vedere l’opposto della sua paura, non la sua eco”) e può renderci peggiori come amici, genitori, mariti e mogli, in quanto Bloom ci porta a considerare come l’empatia sia faziosa e costituisca una forza miope e distorta. Una risposta empatica è un processo di simulazione diretto e inconscio, quindi preriflessivo, che realizza in modo automatico un legame diretto tra chi agisce e chi osserva agire e che determina l’adesione all’emozione provata dall’altro in risposta a stimoli espressivi manifestati da quella persona. Di conseguenza, viene a mancare la differenziazione tra l’emozione propria e quella altrui. È una risposta rapida perché spinta da considerazioni immediate ed è influenzata da ciò che pensiamo della persona con cui stiamo empatizzando e da come giudichiamo la situazione in cui si trova quella persona.
Bloom concorda con l’analisi di Batson secondo cui “la forza dell’empatia sta nella sua capacità di rendere l’esperienza degli altri osservabile e saliente, pertanto più difficile da ignorare”, ma ciò che vediamo dipende da cosa scegliamo di guardare, innescando un processo che, purtroppo, il più delle volte, diventa più forte dell’equità. Per questo motivo, Bloom paragona l’empatia ad un riflettore da palcoscenico, in quanto ha un raggio d’azione limitato che ci rende selettivi nel decidere a chi interessarci. Illumina intensamente quelli che amiamo (e questo dato di fatto circa la natura umana è inevitabile, considerata la nostra storia evolutiva) mentre diventa debole verso gli estranei (in quanto non siamo psicologicamente costituiti per sentire nei confronti di un estraneo quello che sentiamo nei confronti di chi amiamo), verso chi ci inganna, verso chi crediamo sia triste per una motivazione sciocca, verso chi ha successo all’improvviso (poiché l’invidia blocca l’empatia), verso chi si lamenta di continuo, e verso quelli che ci repellono.
Si è evidenziato che, quando abbiamo a che fare con questo tipo di persone, si attua una riduzione di attività nella corteccia prefrontale mediale (area del cervello coinvolta nel ragionamento sociale), di conseguenza interrompiamo la nostra comprensione sociale e le disumanizziamo; basti considerare il modo in cui i nazisti pensavano agli Ebrei o alla rappresentazione delle donne nella pornografia. Poiché l’empatia riflette preconcetti e propensioni e può essere modificata dalle nostre credenze, aspettative e motivazioni, è in grado di distorcere i nostri giudizi morali nello stesso modo in cui lo fa il pregiudizio.
Quando l’empatia ci fa sentire dolore, la reazione è spesso di inazione o di fuga. A questo proposito Bloom porta l’esempio di una donna che “viveva vicino ai campi di sterminio della Germania nazista e che potendo vedere facilmente le atrocità dalla sua casa […] scrisse una lettera di protesta: […] Richiedo che questi atti inumani vengano interrotti, o che vengano fatti dove nessuno possa vederli”.
Per condurci alla piena comprensione della sua tesi, nella prima parte del saggio, Bloom descrive, in maniera dettagliata, origine e caratteristiche dell’empatia e questa attenzione, sostenuta da esempi efficaci ed essenziali, rafforza la sua tesi, perché non lascia spazio a fraintendimenti e falle di conoscenza. Bloom ci accompagna finanche nella distinzione tra empatia cognitiva ed empatia emotiva, per metterne in luce i diversi processi cerebrali che le coinvolgono e per sottolineare come ci influenzano in modo differente, dal momento che, mentre nell’empatia cognitiva “comprendo che tu sei in pena senza necessariamente farne esperienza”, nell’empatia emotiva “sento ciò che tu provi e, in particolare, sento il tuo dolore”. Bloom ci spiega chiaramente il suo schieramento in particolar modo contro quest’ultimo tipo di empatia, considerandola fallace, moralmente corrosiva e in grado di distorcere le nostre decisioni morali e politiche in modi che causano sofferenza invece di alleviarla, mentre considera l’empatia cognitiva uno strumento utile, ma comunque moralmente neutro.
Bloom non trascura di analizzare il ruolo di questi due distinti tipi di empatia negli psicopatici, nei soggetti affetti da autismo o da Sindrome di Asperger e se intercorra un legame tra empatia, violenza e crudeltà. Le informazioni che ci fornisce consentono di avere un quadro più chiaro della distinzione tra i due tipi di empatia descritti e ci permettono di costruire una riflessione personale fondata su dati esaustivi. Bloom evidenzia come negli psicopatici si ipotizzi un alto grado di empatia cognitiva, ma un basso grado di empatia emotiva. Molti psicopatici hanno un’eccellente empatia cognitiva e sono quindi perfettamente in grado di comprendere la mente degli altri. Questo è ciò che li rende capaci di essere degli ottimi manipolatori ed eccellenti imbroglioni e seduttori. Sostenere che gli psicopatici mancano di empatia è corretto solo se si considera che la parte emozionale dell’empatia è assente: ovvero la sofferenza degli altri non li fa soffrire. Le persone affette da sindrome di Asperger e da autismo, invece, solitamente hanno una bassa empatia cognitiva e per questo hanno difficoltà a comprendere la mente degli altri. Si ritiene che abbiano anche una bassa empatia emotiva, sebbene esista una controversia sulla loro incapacità di provare empatia e sulla scelta di non utilizzarla, ma non rivelano alcuna propensione allo sfruttamento e alla violenza e sono, anzi, più spesso vittime che non autori di crudeltà.
Ma cosa c’è alla base di una risposta empatica? Bloom dedica un intero capitolo all’anatomia dell’empatia e alla scoperta dei “neuroni specchio” (neuroni visuo-motori attivi sia durante l’esecuzione delle azioni, sia nell’osservazione delle azioni eseguite da altri), dapprima nel cervello dei macachi (Gallese et al. 1996; Rizzolatti et al. 1996), e successivamente nel cervello umano (Gallese et al. 2004; Gallese, 2007, 2014, 2018). Bloom ci ricorda come queste importantissime scoperte abbiano rivelato non solo che i circuiti parieto-premotori con proprietà specchio consentono di controllare l’esecuzione delle proprie azioni e di comprendere le azioni degli altri, ma anche che meccanismi di mirroring sono alla base della nostra capacità di condividere le emozioni e le sensazioni provate da altri. Le strutture nervose coinvolte nell’ esperienza soggettiva di emozioni e sensazioni sono le stesse che si attivano anche quando tali emozioni e sensazioni sono riconosciute in altri. L’empatia è dunque un processo di natura affettivo-cognitiva fondato su delle proprietà “specchio”.
Poiché Bloom propone in questo saggio l’immaginazione “come strumento attraverso il quale l’empatia può essere coltivata, arginata, sviluppata ed estesa”, ritengo opportuno aggiungere l’informazione che la simulazione incarnata può anche verificarsi quando immaginiamo di percepire qualcosa o di fare qualcosa. Recenti studi hanno infatti dimostrato come i meccanismi neurobiologici che consentono la connessione al “mondo reale” si sovrappongono ampiamente ai meccanismi collegati al mondo immaginario. Quindi, la teoria della simulazione incarnata può essere impiegata per spiegare sia come percepiamo il mondo che come lo immaginiamo. Dal punto di vista delle neuroscienze, il confine che separa il mondo reale da quello immaginario sembra molto labile.
In questo capitolo Bloom sottolinea, inoltre, un aspetto importante dell’empatia, ovvero che la sofferenza empatica è diversa dalla sofferenza effettiva, non soltanto nel grado ma anche nella tipologia. Una piena e totale partecipazione empatica è irrealizzabile, poiché ci è impossibile accedere alla coscienza e al vissuto dell’altro. Questa inaccessibilità, lungi dall’essere un limite è, invece, la condizione strutturale senza la quale nessun soggetto potrebbe manifestarsi, dal momento che è proprio l’irriducibile alterità il presupposto della relazione intersoggettiva. “Siamo reciprocamente un segreto gli uni per gli altri”, come sosteneva il filosofo francese Jacques Derrida.
Dopo queste lunghe ed esaustive premesse, infarcite di particolari, Bloom ci invita a sperimentare strade diverse dall’empatia, ricordandoci che “siamo esseri complessi e ci sono molte strade che conducono al giudizio e all’azione morale”. Sviluppando la tesi che alla base della moralità c’è molto altro oltre l’empatia, ci porta a considerare che ciò che conta davvero sono capacità come “autocontrollo, intelligenza ed una più diffusa compassione”. “L’autocontrollo può essere visto come la forma più pura di razionalità in quanto limita i desideri impulsivi, irrazionali, emotivi”, e la ragione è per Bloom “il luogo della vera azione”. Ma quando si è in grado di costruire un buon ragionamento? Quando ci affidiamo all’applicazione di regole e principi o ad un calcolo costi/benefici. Solo allora possiamo almeno in parte diventare giusti e imparziali. Anche se, a prescindere da come compiamo le nostre scelte morali, a volte, inevitabilmente sbaglieremo, in quanto una certa quantità di irrazionalità è inevitabile, data la nostra natura fisica. “Ogni dimostrazione della nostra irrazionalità è anche una dimostrazione della nostra intelligenza, perché senza la nostra intelligenza non saremmo in grado di capire che si tratta di una dimostrazione di irrazionalità.[…] È l’abilità di riconoscere criticamente i nostri limiti che rende possibile tutto ciò che facciamo”. La ragione e la razionalità, allora, non sono sufficienti per essere una persona buona e capace. Ma la tesi di Bloom è che esse sono necessarie, dal momento che “attraverso atti di volontà anche l’empatia può essere indirizzata e governata”.
Bloom ci porta a riflettere in modo interessante anche sulla politica, sostenendo che “spesso sembra che la politica sia a corto di razionalità […] La politica non si interessa alla verità perché per essa non è la verità ad essere in palio”. In questo modo ci esorta a considerare la necessità di una chiamata alla responsabilità. A volte, i nostri tentativi di deliberazione razionale possono essere confusi, basati su premesse errate o annebbiati dall’interesse personale. Ma qui il problema sta nel ragionare male, ci avverte Bloom, non nel ragionare in sé.
In questo saggio Bloom popone di ricorrere ad una ragione che sceglie come alleata la compassione, ovvero una ragione che scende a patti con le mancanze, con quello che sfugge al nostro controllo e la tesi di Bloom ci riporta alla mente l’ecologia dell’azione di cui parla il filosofo e sociologo francese Edgar Morin: “La nostra realtà non è altro che la nostra idea di realtà […] Il reale comprende un possibile ancora invisibile e che diventa visibile negli imprevisti, nelle incertezze, nelle situazioni complesse” 2, può diventare visibile nel ricorso alla compassione, vicina al mistero dell’uomo più della ragione.
Il sentimento della compassione che partecipa della ragione ci può consentire di riconoscere la verità etica. M. Nussbaum, in “Terapia del desiderio”, sostiene che: “esaminare la realtà senza ricorrere alle emozioni comporterebbe la mancanza di una parte di verità: sentimenti, esperienze emotive fungono, infatti, da guida verso la realtà etica” 3. La compassione alleata della ragione può quindi diventare elemento costitutivo e determinante su cui basare la vita morale, evitando il delirio di onnipotenza della ragione, perché è più vicina al mistero dell’altro e ricorda come ogni percezione della realtà comporti sempre una parte di inconoscibile. F. Abbate, in “L’occhio della compassione”, sostiene che la compassione si basa sull’atto dell’immaginazione, “per cui ha la capacità di figurarsi e di comprendere emotivamente la complessità umana, i bisogni e i desideri degli individui e le circostanze materiali in cui essi agiscono.” 4
All’immaginazione fa riferimento Bloom in questo saggio quando sostiene che attraverso di essa “l’empatia può essere coltivata, arginata, sviluppata ed estesa”e, nel suo saggio precedente, “Buoni si nasce” conclude scrivendo che: “la nostra morale […] è il risultato della compassione, dell’immaginazione e della nostra straordinaria capacità di ragionare.” 5
Perché Bloom accenna anche in questo saggio all’immaginazione, in modo conciso ma esplicativo? L’immaginazione, “regina del vero” per Baudelaire, è uno sguardo che consente di attingere ad un vero nascosto, in attesa di rivelazione e che ci chiama a non essere inerti e ad usare l’immaginazione per raggiungere la realtà che resta opaca. L’immaginazione è trasformativa, evoca possibilità, aprendo a nuove prospettive ed è valutativa. Edgar Allan Poe in “I delitti della Rue Morgue” sostiene che: “L’uomo veramente d’immaginazione non può essere che un analista.” 6
Bloom, infine, per meglio farci comprendere la scelta del ricorso alla compassione come alleata della ragione, evidenzia la distinzione (supportata da ricerche di neuroscienze) tra empatia e compassione, che è cruciale per ciò che si prefigge di dimostrare in questo saggio. La compassione non richiede il rispecchiamento nei sentimenti dell’altro, che è implicito invece nell’empatia. Il più delle volte è proprio il rispecchiamento ad impedire ai genitori, ad esempio, di infliggere ai figli sofferenze temporanee per il loro bene. Invece, questa scelta educativa è resa possibile “dall’amore, dall’intelligenza e dalla compassione”.
La compassione è un sentimento “per” gli altri (a differenza dell’empatia che è un’emozione “con” gli altri) che ci consente di aprirci all’altro, alla sua situazione, ed implica non solo la capacità di distinguere l’altro come diverso da sé, ma anche e soprattutto la capacità di decentrarsi da sé, di assumere la prospettiva dell’altro. Bloom, nel descrivere come sia stata esplorata la differenza neurologica tra empatia e compassione in una serie di studi fatti con la fMRI (risonanza magnetica funzionale), ne evidenzia la differenza neurale: mentre l’allenamento all’empatia porta ad una accresciuta attivazione dell’insula e della corteccia cingolata anteriore, l’allenamento alla compassione induce, invece, l’attivazione di altre parti del cervello, come la corteccia orbito-frontale mediale e lo striato ventrale.
Studi ulteriori hanno dimostrato come l’allenamento alla compassione aiuti a gestire meglio le situazioni di stress ed apra molte opportunità allo sviluppo mirato di emozioni e motivazioni sociali adattative, il che può essere particolarmente benefico per persone che lavorano nel settore dell’assistenza o in ambienti generalmente stressanti. Contrariamente all’empatia che, invece, può essere spesso causa di quello che viene definito “stress empatico” che, se vissuto cronicamente, comporta, di frequente, degli esiti negativi per la salute. Assorbire in maniera esagerata la sofferenza degli altri può causare burnout o portare ad una condizione descritta da Bloom e definita da V. Helgeson e H. Fritz “comunione non mitigata”, ovvero “un eccessivo interessamento verso gli altri e una tendenza a mettere i bisogni degli altri prima dei propri”. In questo tipo di relazioni asimmetriche si presta molta cura agli altri e poca a se stessi, ciò che è causa di stress empatico con effetti negativi a lungo termine e minore efficacia nell’aiutare gli altri.
Bloom fa appello ad una compassione sostenuta dalla ragione, avvicinandosi all’affermazione di M. Nussbaum, che definisce la compassione come un’emozione razionale, che include il pensiero e che, per questo motivo, può essere educata a superare i confini angusti del sé, in quanto “la compassione […] spinge i confini del sé ad espandersi ancora.” 7
La bellezza del saggio di Bloom, a mio parere, sta soprattutto nella capacità di smuoverci e di indurci alla riflessione, stimolandoci ad interrogarci fin dal titolo del saggio. “Contro l’empatia” forse non vuol dire semplicemente “sono contrario all’empatia”, ma è piuttosto una domanda nascosta, che attinge al significato latino di contrarius, ovvero che sta di fronte, quasi a chiederci: “Scegli di stare di fronte all’empatia? Ovvero scegli di lasciare che tutto sia confinato al ruolo dell’empatia – semplice presupposto della comunicazione e comprensione intersoggettiva – o scegli di superare il limite di questa visione e accogli la mia sfida al movimento e all’azione?
La compassione è movimento. Mentre l’empatia si sviluppa entro i confini del sé, facendo in modo che le emozioni dell’altro vengano sì condivise, ma nello spazio del sé (che, in caso contrario, risulterebbe impenetrabile), la compassione “espande i confini del sé”, come sostiene M. Nussbaum. La compassione, quindi, comporta un movimento da sé verso l’altro, sposta il baricentro emotivo, realizzando un decentramento in cui la propria vita si espande, incontrando e sorreggendo l’altro nella sua forma più vulnerabile ed esposta. Compassione deriva dal latino cum patior e patior non vuol dire solo patire, ma anche sostenere. Per questo ritengo che la compassione si possa considerare, in questa epoca di fragilità spirituale, quasi un incontro mistico nel dolore dell’altro perché, attraverso la compassione, è possibile sostenere insieme l’incontro del segreto costitutivo dell’altro, la vicinanza del suo mistero. In questo movimento, che contrasta la stasi dell’anima che affligge questo nostro secolo, il soggetto, ritornando a sé, si può riconoscere portatore della stessa fragilità, scoprendo un sé di cui poter avere compassione. La compassione è dunque il massimo movimento che si possa compiere, perché pensato ed orientato. Ma per essere efficace ed evitare di trasformarsi in sterile pietà, anche la compassione da sola non è sufficiente. La risposta a cui Bloom ci chiama dipende da ciò che vogliamo davvero. Bloom ci pungola: “Se vuoi il piacere del contatto umano fai pure e dai qualcosa al bambino (che muore di fame), forse per sentire una vibrazione quando le vostre mani si toccano, un calore che rimane con te mentre ritorni in hotel. Ma se vuoi fare davvero qualcosa per migliorare la vita delle persone, fai qualcosa di diverso.” Bloom ci invita ad una compassione che partecipa della ragione, accompagnandoci verso una visione cognitivo-valutativa della compassione che, in questo modo, può costituire sicuramente una risorsa e la base per la moralità. In “Teoria dei sentimenti morali” Adam Smith sottolinea che “la compassione assume il punto di vista dello spettatore, formulando il miglior giudizio che lo spettatore possa offrire su ciò che sta realmente avvenendo alla persona, anche quando esso differisce dal giudizio della persona stessa.” 8
Thích Nhất Hạnh, monaco buddista vietnamita, ritiene che la compassione sia un verbo, la compassione è allora azione. Bloom sostiene che la ragione è il luogo della vera azione, ma ammette che la ragione sia alleata della compassione, riconoscendo implicitamente azione anche al sentimento della compassione.
Nel “Faust” di Goethe, il protagonista, ad un certo punto, si interroga sulla frase del Vangelo di San Giovanni: “In principio era la Parola” (Gv 1,1) e dice: “Non posso dare alla parola un valore così alto; forse devo intendere il senso; ma può il senso essere ciò che tutto opera e crea? Si dovrà allora dire: In principio era la Forza? Ma no, un’improvvisa illuminazione mi suggerisce la risposta: In principio era l’Azione”. Bloom sembra richiamarci a questo principio, da cui tutto ha origine. Il neuroscienziato Gazzaniga sostiene, infatti, che l’azione efficace è il fine ultimo di tutta l’elaborazione interna. Concetto che mi permetto di estendere anche alla dimensione morale. Quella di Bloom è una chiamata ad un’azione morale efficace e la dimensione morale trova la sua efficacia se si mettono in campo autocontrollo, ragione e compassione secondo la tesi di Bloom. Io sono con Bloom.
1 Saggi 1945-1985 a c. di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995
2 E. Morin, “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”, Raffaello Cortina, Milano 2001
3 M. Nussbaum, “Terapia del desiderio”, Vita e Pensiero editore, Milano 1998
4 F. Abbate, “L’occhio della compassione” Edizioni Studium Roma, 2005
5 P. Bloom, “Buoni si nasce. Le origini del bene e del male”, Codice Edizioni, 20148
6 Edgar Allan Poe, “I delitti della Rue Morgue”, Mursia editore, 2007
7 M. Nussbaum, “L’intelligenza delle emozioni”, Edizioni Il Mulino, 2009
8 A. Smith, “Teoria dei sentimenti morali”, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 1995
Prefazione di GABRIELLA GRANDE
Con il Patrocinio dell’Università di Bari
Con il patrocinio della Città di Bari
Ph: Roberto Pedron (Fotografo ufficiale della Mostra)
A cura di:
GABRIELLA GRANDE
SALONE DEGLI AFFRESCHI – PALAZZO ATENEO
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO”
LUNEDÌ 18 DICEMBRE 2017, H 11:00 – 13:00
La Mostra resterà aperta fino al 5 gennaio 2018 e visitabile dal lunedì al venerdì H 10:00-14:00
Saluti:
Dott. Silvio Maselli (Assessore alle Culture, Turismo, Partecipazione e Attuazione del Programma del Comune di Bari)
Interventi:
Prof. Clemente Francavilla (Docente di Teoria della Percezione visiva e Psicologia della Forma, Accademia di Belle Arti, Bari)
Dott. Pio Meledandri (Curatore artistico e Fotografo, già Direttore del Museo della Fotografia del Politecnico di Bari)
Dott. Alessandro Salvatore (Giornalista Professionista de “La Gazzetta del Mezzogiorno”)
Entrée fotografica:
Ph. Dott. Pio Meledandri
Fotocinereporter Dott. Roberto Pedron
IL BUFFET REALIZZATO “A TEMA” È GENTILMENTE OFFERTO DALLA PREGIATA PASTICCERIA MARTINUCCI (P.zza Mercantile n° 80, Bari)
Concept
La scelta di intitolare la mostra “La carne dell’anima” è legata alla poetica e alla visione del mondo di Bassani, che si definisce “un poeta che disegna”:
“La carne dell’anima è un album di ricordi, scene essenziali di alcune tappe del mio viaggio esperienziale alla scoperta di un corpo spirituale che ha saputo esultare e disperarsi a mia insaputa fino a farmene cosciente. Un corpo invisibile, impalpabile ma corpo, non privo di sostanza, che si è innalzato quando credevo di cadere ed è caduto quando pensavo di essere in piedi. Un corpo, una carne sottile ma non per questo impercettibile, sorprendente […]. È una carne quella dell’anima che si fa pratica d’amore e vita concreta […] La carne dell’anima chiede il coraggio della passione e la consapevolezza di essere altro.” (Andrea Bassani)
CATALOGO DELLA MOSTRA
a cura di Gabriella Grande
Introduzione: Assessore alle Culture di Bari Dott. Silvio Maselli
Lettura critica delle opere: Gabriella Grande
Elaborazione grafica delle opere: Graphic designer Dott. Emo Risaliti
Foto di Andrea Bassani: Ph: Daniele Ferroni
Edito da: Terra d’Ulivi Edizioni, 2017
Conversazione con GIAN RUGGERO MANZONI
(poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer)
In primo luogo la vita. Sì, la vita è sacra e, come compimento della vita, lo è anche la morte. Sono convintissimo che il grado di civiltà e di elevazione di un popolo lo si deduca dal suo modo di confrontarsi con la morte, con questo passaggio. Sacra è anche la poesia, la scrittura, sacra è l’opera per se stessa. Noi siamo chiamati a santificare la nostra vita, e in questa nostra esistenza c’è il lavoro, c’è l’opera che io vivo ed ho sempre vissuto come una dimensione sacra. Questo pensiero è molto vicino ai mistici ebraici, per i quali si glorifica Dio, la divinità anche tramite il lavoro che si fa. Se tu sei un calzolaio devi essere il miglior calzolaio perché è nel tuo fare che non solo glorifichi la vita e il tuo essere, ma anche la divinità, il tuo Creatore. Ma se si vuole evitare di parlare di divinità, il glorificare la propria vita e rispondere alla chiamata a certe dimensioni dell’essere, è già un essere nel sacro. Ogni gesto, ogni parola ha la sua dimensione altamente liturgica, per cui la vita stessa diventa una dimensione sacrale. Questo l’ho imparato negli anni. Tutto, dai gesti della vita di ogni giorno, al lavoro che compi, all’amore per il tuo o la tua partner, fino ad arrivare addirittura al gesto amoroso, all’amplesso – che ha una sua sacralità se è vissuto nella giusta maniera – tutto io penso che dipenda da questo: dal senso di sacro e dal valore sacro che tu attribuisci a questa tua dimensione terrena.
Per ritornare al discorso che si faceva prima, questo vuoto va riempito. È in questo gioco tra vuoti e pieni che si svolge la nostra vita e ne prende forma. Il vuoto non è il nulla del nichilismo, il vuoto è componente fondamentale al fine di dare una dimensione e una direttiva al nostro essere. Si nasce vuoti, ingenui, puri, privi di qualsiasi struttura o sovrastruttura, si ha solo la dimensione genetica che ci hanno trasmesso i nostri genitori, però, intellettualmente parlando, si è ancora vuoti, e solo in seguito apprendiamo, via via ci viene insegnato e capiamo. Io penso che il vuoto sia il percorso; il vuoto è il cammino dell’intera vita, e credo che si muoia quando il vaso è colmo, ovvero quando si è arrivati al massimo grado di consapevolezza. Ciò potrebbe sembrare paradossale, iperbolico se riferito alla morte di un bimbo, eppure sono convintissimo che un bimbo muoia perché in quell’età aveva già raggiunto la massima pienezza. Io penso che si muoia nel momento in cui si raggiunge la massima consapevolezza della vita, che può essere racchiusa anche in un sorriso, in un sorriso di un bambino appunto. Probabilmente quel bambino aveva capito molto più di noi che viviamo invece per 70, 80, 90 anni. Ecco, quanto ho descritto è il vuoto per me, il vuoto a cui siamo chiamati al fine di riempirlo. Infatti, nella metafora che hai citato nella mia poesia, si evidenzia come stia proprio nel vuoto il valore del vaso, perché è in quel vuoto che il vaso assume un compito come contenitore. Noi siamo dei contenitori fondamentalmente, il nostro corpo contiene, e siamo a nostra volta contenuti. Possiamo definirlo un bellissimo “gioco” tra vasi comunicanti, per cui noi assorbiamo il sapere, ma, nello stesso tempo, diamo sapere, cognizione e conoscenza di ciò che ci circonda; riempiamo e, contemporaneamente, ci riempiamo. Questo è il vuoto. È fondamentale il suo valore, perché ci consente di dare lettura alla condizione e alla dimensione in cui noi stiamo vivendo.
Certamente! Soprattutto quando ti parametri con il Testo Sacro per antonomasia ed, in particolare, con una delle componenti del Pentateuco. Ho iniziato con la traduzione dell’ Esodo perché lo considero un libro fantastico e perché mi ha sempre affascinato la figura dell’ebreo errante. Io ho amato moltissimo nella mia vita un poeta che considero grandissimo: Edmond Jabès. Mi è sempre piaciuta la figura dell’errante che poi errante non è. È errante su questo pianeta per conoscere, per vedere, per incontrare, ma non lo è dal punto di vista della Fede, del sapere o della consapevolezza di sé. Nell’Esodo mi sono ritrovato in alcune figure portanti, ma non in quella di Mosè, non mi sento e non mi sono mai sentito una guida di tale spessore, di tale grandezza! Mi sono ritrovato, invece, in certi personaggi apparentemente marginali, come Aronne e Giosuè. In Giosuè ho ritrovato tante parti di me stesso! La grandezza della Bibbia, del nostro Libro Sacro è questa: l’interscambiabilità, la possibilità di mutare il rapporto con la stessa, “entrando” nei vari personaggi, fino ad arrivare, nel Nuovo Testamento, e diventare un tutt’uno con il Cristo stesso. Passare alla traduzione della Genesi – che spero di pubblicare a breve – dopo l’Esodo era inevitabile! O si passava alla Genesi oppure sarei dovuto saltare all’Apocalisse, e non è detto che non lo faccia! La Genesi mi interessava non tanto per la dimensione della Creazione quanto per un momento in particolare: la costruzione della Torre di Babele 4, la mutazione nei vari esseri viventi del linguaggio, e la conseguente incapacità degli uomini di riuscire a relazionarsi quale punizione divina. È la superbia umana che ci divide! Se Dio nella Bibbia conferisce ad Abramo la capacità di dare il nome a tutto ciò che lo circonda, ovvero dà la possibilità all’uomo di chiamare il suo spazio, di chiamare il suo luogo, di chiamare gli elementi che compongono il suo stato e di chiamarsi, ecco che con la Torre di Babele tutto crolla. Prima della Torre di Babele ci si capiva tutti, dopo non ci si capiva più. Penso che nella Genesi sia interessante proprio questa contrapposizione tra la nascita e il divenire del nostro essere, e l’incapacità di poter trasmettersi l’un l’altro questo nostro bagaglio, questa nostra testimonianza di percorso. Questo mi ha appassionato particolarmente e penso che possa e debba interessare a tutti coloro che si avvicinano alla parola. Credo sia fondamentale la conoscenza e l’approfondimento dei tanti idiomi, dialetti, vernacoli che popolano il mondo. Mi ha sempre stimolato conoscere qual è il diverso modo di chiamare le componenti fondamentali del nostro essere. Per esempio, ho riflettuto lungamente sul nostro dialetto romagnolo, che ci ha dato e sta dando dei grandissimi poeti: Raffaello Baldini, Tonino Guerra, Giuseppe Bellosi, Giovanni Nadiani scomparso di recente e Nevio Spadoni. Nel nostro dialetto romagnolo la parola “amore” ben poco viene usata, preferendo il “ti voglio bene” al “ti amo”. La parola amore, invece, viene più adoperata per indicare il sapore, “amòr” (sapore=amòr). È molto interessante scoprire come una parola che in italiano esprime il sentimento più alto, nel dialetto romagnolo non venga pronunciata per pudore (perché l’amore, per i nostri vecchi che parlavano in dialetto, era considerato un assoluto che, probabilmente, si rivolgeva esclusivamente agli assoluti appunto, e nella vita era troppo dire ti amo, e l’amore si esprimeva verbalmente con un “ti voglio bene”) e venga invece usata per indicare il sapore. “Ha un buon amòr” ovvero “ha un buon sapore”. È bello questo! Io penso che nella Genesi la questione inerente la Torre di Babele e la mutazione del linguaggio, per quanto sia stata sconcertante, ha fatto sì che noi potessimo maggiormente indagare sulla nostra lingua, sulla lingua dei nostri padri e, contemporaneamente, sulla lingua altrui. Per cui anche quella che sarebbe dovuta essere una punizione divina, è diventata un’occasione “misericordiosa” perché ci ha concesso poi – per chi lo coglie ovviamente – un altro piacere. In questo, fondamentalmente, risiede il senso del tradurre sia l’Esodo che la Genesi da una lingua morta come il greco antico, così come dall’aramaico e dall’ebraico antico (diverso da quello moderno): prendere coscienza e stupirsi di vedere come una stessa immagine sia stata espressa in greco, in ebraico, in aramaico. Il grande piacere della traduzione e il suo senso profondo risiedono soprattutto nel rapporto con la lingua, con il suono, con il nostro suono, con la nostra voce; ti viene affidato un testo e tu devi cercare di tradurlo al meglio nella tua lingua, dopo averlo compreso.
La mia è la generazione delle “Good vibrations”, delle “buone vibrazioni”. Sono nato nel ’57 e in quegli anni l’espressione “buone vibrazioni” veniva usata spesso, ma era una metafora per stimolare alla ricerca del raggiungimento di un’armonia interiore e al tentativo di trasmettere e ricevere armonia dagli altri.
Ma in riferimento al suono, entrando più propriamente nella questione della scrittura e dell’oralità, io penso che la buona vibrazione ci venga data dalla giusta modulazione della nostra stessa voce, dalla capacità di saper leggere e dalla capacità di “vivere” la vibrazione. Questo è molto importante anche per il poeta! Non sono molti i poeti capaci di recitarsi, però anche questo, a mio avviso, dovrebbe far parte del loro bagaglio, perché non dimentichiamo che il poeta è nato con una cetra in mano, cantando quello che aveva scritto e che aveva immagazzinato da altri prima di lui. Pensiamo alle canzoni di gesta, provenzali, e al rapporto diretto tra la parola orale, la parola scritta e la musicalità. La buona vibrazione è data dalla capacità di trovare in se stessi il giusto tono e, di conseguenza, anche la giusta armonia, riuscendo così a trasmetterla anche esternamente. Anche le “buone parole” sono buone vibrazioni.
Ritornando, poi, alla prima domanda sul sacro, quando sei in grado di cogliere la vibrazione tu vivi una sacralità. La vibrazione, flow, è il flusso che ti arriva dall’esterno e che tu emani di tuo verso l’esterno. La vita stessa è una questione di flussi, e ritorniamo al discorso del vuoto e del pieno. Per questo motivo ho detto prima che esiste una sacralità anche nel congiungimento carnale, perché è uno scambio di flussi, di energie, di vibrazioni. La vibrazione è quel tremito, quella dimensione archetipica molto vicina all’origine che ti appartiene e che, allo stesso tempo, è parte del grande suono che è l’Universo. Ora sappiamo che non esiste silenzio nell’Universo, ma tutto ha un suono, gli stessi pianeti che ruotano hanno un suono. Noi siamo circondati dal suono. Io penso che quando si nasca si abbia come patrimonio anche questo suono, e riconoscere il proprio suono e il suono dell’altro è fondamentale per poter vivere in armonia. Viviamo in un mondo sempre più caotico in cui la parola viene usata molto male, spesso con grande volgarità ed urlata e, di conseguenza, manca in essa la giusta vibrazione. Mi riallaccio al discorso sulla liturgia fatto in precedenza perché penso sia fondamentale e “ liturgico” usare la parola con la giusta intonazione e quindi con la giusta vibrazione. Quanto è importante sviluppare la grande capacità di entrare in sintonia completa con il tuo suono, cioè quello che dell’Universo hai in te! Ricordo un’azione artistica, al Beaubourg di Parigi, di un artista francese che aveva riportato esclusivamente il suono del nostro pianeta Terra, registrato da satellite. È un suono verso la e, è un eeee all’infinito. Quando entrai nel Beaubourg subito pensai che in quel eeeee, in quel suono c’ero anch’io, ci siamo tutti. Siamo nel suono del nostro pianeta, ne facciamo parte, ma, contemporaneamente, siamo anche nel suono della totalità, perché sono convintissimo che l’uomo abbia in sé il germe totale dell’origine, sta a noi scoprirlo.
Entriamo in un campo molto delicato, profondissimo, basilare, fondamentale per la nostra esistenza. La nostra esistenza è spesso dolorosa, è quasi totalmente dolorosa, ma non scopro nulla di nuovo. Considero doloroso anche quando un uomo se ne sta mani in mano. Il non fare nulla, lo stare al mondo, essere vivo e non fare è, forse, il dolore più intenso che l’uomo possa esprimere.
L’esperienza del dolore è sicuramente un passaggio fondamentale della vita, fa sì che tu poi riesca a cogliere l’importanza di ogni attimo della tua esistenza e di quello che veniva definito “il senso di morte” che non è il male di vivere, la depressione, non è la malinconia, ma il sapere che si nasce per morire, e che già nel momento del concepimento, siamo in viaggio verso la morte. Questo è il dolore profondo dell’uomo: sapere che, pur essendo verbo incarnato, parola, suono, vibrazione incarnata, un giorno terminerà, finirà, e il rapporto continuo con questa componente diventa estatico. Ecco, l’estasi è questa capacità, che definirei “eroica”, di riuscire a continuare a vivere pur sapendo che comunque ci aspetterà la morte. Vivere facendo, dando senso, spessore e dimensione fideistica a questo tratto di strada che ci vede in questa dimensione, con la consapevolezza che passeremo momenti di grande dolore e che finiremo. Questa è l’estasi.
Poi si arriva all’estasi dei santi, dei mistici, nei quali lo stato contemplativo non è da confondere con lo stare mani in mano, perché non si tratta assolutamente di uno stato passivo, ma di uno stato attivo, perché nella contemplazione, come nella meditazione, c’è compenetrazione, per cui si è in movimento, non in stasi. I mistici raggiungono le somme vette dell’estasi – ma lì arriviamo nei massimi sistemi, lì arriviamo ai sommi – per noi invece, nella nostra semplicità, nella nostra umanità e quotidianità, l’estasi è la capacità di riuscire a cogliere la bellezza e il senso profondo di questa esistenza molto dolorosa, nonostante si assista sempre più spesso a quale grado di bestialità può ridursi l’uomo nei confronti di un altro uomo.
Per tornare al nostro discorso artistico-creativo, difficilmente si riesce a trasformare l’estasi in parola scritta o in un segno. Forse in pittura si ha qualche possibilità in più che nella scrittura, anche se questo si rivela comunque molto difficile, come peraltro è impossibile fermare totalmente in arte i sentimenti e le emozioni che si vivono. Anche questo fa soffrire, è un ulteriore dolore che ci costringe a fare i conti con il nostro limite e a tentare di trasformarlo in qualcosa di prezioso, perché anche questo nostro limite ha in sé una componente estasiante (strettamente legata a estetico, estasi-estetico) per cui c’è il bello oltre il dolore. Il dolore ti fa cogliere il bello: questa è l’estasi. Anche in questo la figura del Cristo insegna. Nella componente massima del martirio e della macerazione della carne c’è bellezza oltre il dolore, una bellezza ed una grandezza sconcertanti. È logico che delle ferite e del dolore della vita si farebbe molto volentieri a meno, ma è fondamentale cercare di dare un senso profondo anche al dolore.
Come ho già detto prima, la vita stessa è un’attesa, siamo qui tutti in attesa dell’evento finale. I vari discorsi che stiamo affrontando sono collegati. L’attesa esiste ed è il momento in cui tu aspetti che la tua vibrazione interiore, il tuo flusso interiore, la tua energia interiore si ricongiunga con l’energia dell’intero o, per chi è credente, del divino. Quello è il momento massimo della creatività che può essere poi testimoniato su carta, su tela, a livello teatrale, cinematografico, soprattutto musicale, ma può anche non essere testimoniato. Però esiste, ed io confido che esista in tutti gli uomini, anche in quelli che non si propongono dal punto di vista creativo ed artistico. In tutti gli uomini questa attesa è l’attesa del superamento di una condizione, quella umana, per entrare in un’altra condizione quasi metafisica, metaempirica. È quella dimensione che non ha né spazio né luogo, che non ha componente entropica, non è governata dal caos, bensì è la dimensione dell’essere completo. L’attesa è attendere questa dimensione.
Lo stesso accade quando tu vieni a contatto con un’opera d’arte o anche quando vieni a contatto con un’altra persona, con un oggetto, con la tua penna stilografica, addirittura con la tua automobile. Lo sperimenti tutte le volte che entri in relazione con qualcuno o qualcosa e cogli l’essere completo di ciò che stai fruendo. Ho citato ad esempio l’ automobile. C’è chi vede un’automobile solo come un ammasso di ferro in cui c’è dentro un motore, però l’automobile è, in realtà, una proiezione dell’uomo, così come lo è il computer. Quando salgo nella mia automobile non vedo solo un ammasso di ferro, vedo un cuore che batte e che sono i pistoni, vedo tubature che sono le vene, vedo un essere. È fondamentale saper cogliere l’essere e il fare umano in tutto ciò che ci circonda. L’attesa è quel momento in cui tu entri nella stessa lunghezza d’onda di ciò che hai davanti. E così siamo ritornati al suono, alla vibrazione, a tutto ciò che si è detto finora. Quando entro nella mia auto vedo anche l’operaio che l’ha costruita, vedo l’operaio che, prima di aver dato il volante a quello che l’ha assemblato, ha dato vita a questo volante, vedo il primo della filiera che ha dato filettatura alla vite. Nella capacità di ampliamento, nella visione a 360° di un’opera (quadro, scrittura, musica) o del lavoro altrui con cui entriamo in relazione, risiede il senso profondo. Mi sento romantico anche quando parlo di tecnologia perché il romanticismo è quello struggimento che ti prende quando riesci a cogliere “il tutto” e ad entrare in rapporto anche con l’operato umano – perché anche quello fa parte di noi – diversamente dai primi romantici il cui rapporto era con la natura, con tutto ciò che li circondava e di cui facevano parte. L’attesa è il mettere a fuoco la conoscenza, per cui l’attesa è uno stato di coscienza, di consapevolezza. L’attesa è il momento in cui tu sei consapevole, e l’oggetto o l’altro fuori da te, è a sua volta consapevole e ti emana, ti riflette una sua consapevolezza. Mio nonno aveva una vecchia bilancia a due piatti sorretti da due asticelle che misuravano il peso dell’uno e dell’altro piatto. Quando le due asticelle erano allineate voleva dire che su ambedue i piatti c’era lo stesso peso. Ecco, quando le due asticelle della bilancia sono a contatto e sulla stessa lunghezza, quello è il momento in cui dall’attesa tu passi alla dimensione attiva, e l’evento si è creato.
Io ho sempre detto, e continuo a sostenerlo, che la capacità di esprimersi creativamente, artisticamente è innata. Il talento o ce l’hai o non ce l’hai. Che poi si possa essere artisti o poeti di vita anche senza scrivere una poesia e che si possa essere pittori anche senza dipingere, questo l’ho ribadito anche prima, ma la capacità di riuscire a trasformare in opera non si impara, ce l’hai di natura. Il quid famoso c’è o non c’è. Sono convintissimo di quello che diceva Baudelaire, ovvero che per 23 ore e 59 minuti si è tra virgolette “degli ebeti” e poi c’è quel minuto nella giornata in cui si scatena il tutto, nella persona che ha quel quid. La chiamata all’arte diventa da un lato esaltante, perché si pone tutta la propria vita al servizio di quel quid, di quella componente innata, però, nello stesso tempo, può diventare dolorosa per il motivo a cui ho accennato prima, ovvero per la nostra incapacità quali esseri umani, quali esseri imperfetti di riuscire a rendere, tramite un linguaggio, quello che sentiamo. Io penso che la massima forma d’arte e il massimo grado di esplicazione di quello che uno sente dimori in una carezza, in un bacio, in un palpito, in un leggero sfregamento tra essere ed essere, tra te ed un albero, tra te e il tuo cane, perché in quel caso non hai bisogno del linguaggio. Ecco perché è tanto importante il corpo! Non rendiamola demoniaca questa materia, perché ci permette di supplire alle tantissime impossibilità del linguaggio. La nostra completezza, seppure nell’imperfezione, è proprio in questa unione anima-spirito-mente e contemporaneamente corpo. Forse è in questa unione che si riesce veramente a cogliere quel momento estatico (e ritorniamo ancora all’estasi). Il dolore, come ho detto e voglio ripeterlo, è nella consapevolezza che non si riuscirà mai ad esprimere fino in fondo ciò che veramente si sente. Lì ci viene in aiuto il corpo: gli occhi, uno sguardo, un sorriso, una lacrima. Forse lì abbiamo il compimento e il pieno di quel vuoto di cui si parlava prima. Questo è il senso profondo dell’essere in arte.
L’essere in arte vuol dire cogliere il tutto o tentare di cogliere il tutto, per poi riuscire, bene che vada, ad esprimerne un decimo, e questo è il dolore per ciò che senti e che non riesci ad esprimere, anche se hai tutte le parole del mondo dalla tua parte, anche se hai tutta la capacità nella mano per tracciare un segno, un profilo, anche se hai l’orecchio assoluto se sei un musicista. L’incapacità di arrivare a definire il tutto, questo è il massimo dolore. Ma, come dicevo prima, in questa consapevolezza c’è anche la nostra massima forza! Questa consapevolezza è anche la bellezza, l’estasi di cui ho parlato prima, la dimensione estetica e, sotto tanti punti di vista, anche etica perché nella conoscenza dei nostri limiti si entra anche in una dimensione etica e si riesce a dare un valore e un senso morale al nostro essere, alla nostra vita e alla vita in generale. Lo stoicismo viveva di questo, ed io ho sempre amato gli stoici e in fondo mi sento uno stoico per questo. Penso che l’arte sia un continuo inseguimento di una perfezione che non raggiungeremo mai, ma forse questo è il senso profondo della vita e dell’uomo e non solo dell’arte, cioè sapere che non si arriverà mai alla meta e si continuerà sempre invece a ricercarla.
Tu sai benissimo che come essere umano non potrai toccare l’Assoluto e il sapere chi sei, perché sei qui e dove si andrà, potrai solo sfiorarlo. Potrai averne parvenza per un attimo, ma per un attimo impercettibile. E lo stesso accade con la Verità: sai dov’è la Verità, la senti, la cogli, però poi questa ti sfugge. È una continua ricerca per raggiungere quell’attimo. Il famoso Aleph di Borges, la visione totale. Ecco, l’artista sa questo, mette in atto il suo talento per tentare di far sì che appaia l’Aleph, che appaia la visione del tutto anche solo per un attimo, anche solo per un secondo. È quasi alchemica la cosa! Anche solo quel secondo compensa l’intera vita. Non si sfugge da questo! Quel secondo ti ripaga di tutto, della tua ricerca, del tuo studio, della tua applicazione…Ti ripaga di tutto.
Certo! Diventa una missione di vita, diventa un’abnegazione, un darsi totalmente. Per anni e anni, se io passavo una giornata senza aver affrontato la tela bianca o il foglio bianco, anche solo per fermare una parola con la mia penna stilografica (io ho sempre amato scrivere con la penna stilografica! Poi mi sono dovuto adeguare alla macchina da scrivere, e adesso al computer, però la piacevolezza della penna stilografica resta sempre. Chiamatemi passatista, ma io amo ancora l’inchiostro che va a segnare, a tratteggiare, a fermare, a vergare!) stavo male, ma non perché avevo questa necessità di esprimermi, ma perché mi sentivo in colpa nei confronti di ciò che mi era stato donato. La capacità di esprimersi creativamente, artisticamente, è un dono, è un grande dono come lo è per un buon falegname riuscire a fare dei bei mobili, per un muratore riuscire a costruire delle case e via discorrendo. Per essere sincero anche adesso, che ho 60 anni, se passo un giorno così, a pescare ad esempio, anche se sono consapevole che quel momento mi serve per accumulare energie, sensazioni, pensieri, visioni che poi confido prenderanno forma, in seguito, o sulla carta o su tela o su altro ancora, avverto ancora quel senso di colpa! Se io dicessi che non ho mai avuto timore di affrontare il foglio bianco o la tela mi si potrebbe prendere per matto, ma è così! Io non ho mai avuto paura, anzi! Era lì che iniziava la mia vita! Era lì che io iniziavo a sentirmi al mondo e ancora adesso è lì che inizio a sentirmi al mondo, ed è per questo che quando non facevo e non ho fatto mi sono sempre sentito in colpa nei confronti della mia vita, del tempo che mi è stato dato e di quello che sarà in questa dimensione. Ecco, questo è il senso del sacerdozio. Nell’arte si è sacerdoti 24 ore al giorno. Se sei chiamato a questo non puoi rinnegarlo, è un atto blasfemo. Io ho avuto amici che purtroppo, pur con grandi talenti, hanno deciso, a un certo punto, di smettere, perché il fare arte li distruggeva. Può anche distruggere fare arte! Proietti talmente tante energie che può anche distruggerti. Bisogna stare molto attenti! Bisogna saper diluire le forze, perché hai a che fare con l’opera, col palpito… è vita, bisogna curarla e curare te stesso mentre pratichi, perché ci si può rimanere dentro, ci si può morire e tanti sono morti di arte in questo rapporto con l’espressione, con la creatività.
Sì, si è sacerdoti nell’arte. È per questo che dicevo che ogni gesto, ogni parola, ogni incontro assume poi una sacralità. È fondamentale questo. Se non ci poniamo come esempi, e il sacerdote si deve porre come tale (veste una divisa), questo mondo è in grave pericolo! Se si perde questa sacralità legata all’opera, al lavoro, allo spirito che lo anima – e non mi riferisco solo a noi che facciamo arte, ma anche agli altri, anche all’impiegato che lavora 8 ore ad una scrivania – siamo finiti, e l’Occidente sta rischiando moltissimo da questo punto di vista! C’è un involgarimento e c’è anche tanta gente che si inventa creativa senza esserlo. Ormai si è arrivati al punto che tutti vogliono stampare il loro libro, tutti vogliono fare la loro mostra di pittura e va benissimo! È giusto che la gente si esprima, ma attenzione! Da qui ad essere sacerdoti ce n’è ancora. Innanzitutto devi avere una Fede forte, mentre molti confondono la ricerca di identità o l’ego come Fede. E no! Non ci siamo! Che l’artista sia anche molto spesso un egocentrico fa parte dell’iter della creatività, ma deve essere un ego poi motivato e sostenuto dall’opera, diverso da questo debordante bisogno di protagonismo dilagante che rivela una società che sta perdendo il senso del sacro.
In una società in cui il sacro è dominante, invece, ognuno dà il giusto valore sia a se stesso che all’altro. Per cui tu sarai bravo a fare l’idraulico ed io sarò bravo a scrivere una poesia, ma non è che io sia migliore dell’idraulico o lui è migliore di me, però si riconoscono i ruoli. Viviamo in un mondo in cui i ruoli non esistono più e, di conseguenza, non esiste più neanche l’autorevolezza del ruolo. Il sacerdozio implica un’autorevolezza. In questo sono molto vicino a Savonarola, sono molto etico. Se ti poni in una maniera, devi essere coerente. È questo che manca in chi si improvvisa. È giusto dipingere, però non confondiamo quello che è hobby o diletto, con quello che è lavoro, con quello che è opera, cioè ricerca continua, tentativo di svelamento, tentativo di raggiungere quella perfezione che si sa mai raggiungeremo, ma che è comunque il nostro compito come esseri umani. Infatti si scoprirà probabilmente che cos’è l’Universo, cosa siamo noi in questo Universo, però probabilmente si apriranno anche porte per altri Universi. Se non si ha questa visione dell’infinitudine e degli assoluti che implica questa infinitudine – perché in questa ricerca non si va avanti a random! – non si può essere sacerdoti! È inconcepibile che ci siano migliaia di poeti in Italia che stampano un libro e non leggono i libri degli altri. Io dico sempre che se tutti quelli che scrivono, comprassero un libro di un altro, finirebbero i problemi editoriali, ma tutti scrivono e nessuno legge. Ma prima di scrivere bisogna leggere! È inutile che ci si inventi. Non si può scrivere, dipingere, scolpire non interessandosi minimamente di ciò che è stato scritto o di ciò che si sta scrivendo, dipingendo o scolpendo. Ci si deve rendere conto di far parte di una catena, come lo è lo scienziato, e si deve avere il giusto rispetto nei confronti di questo, ben sapendo che dopo di noi verranno altri che tenteranno di dire l’indicibile.
Non esiste più nemmeno la critica, oggi si fa della cronaca! Si raccontano le mostre, si racconta ciò che uno ha dipinto, ma non si entra in ciò che quell’artista ha dipinto. E la stessa cosa si fa per i libri, si fa della cronaca dei libri, dei romanzi si parla della trama così come lo si fa dei film, ma non si cerca di dire qualcosa in più. Sono rimasti pochissimi i veri critici. Anche quello è un ruolo fondamentale che sta venendo a mancare. Più nessuno è in grado di fare critica, oppure i creativi stessi si pongono come critici e, tante volte, questo non è un bene, perché ci dovrebbe essere una critica neutra, una critica esterna al mondo della creatività, una critica che ti sa leggere senza coinvolgimento diretto del proprio ego. La mancanza dei ruoli genera il caos, la piena confusione: troppi mercanti dentro al Tempio! E questo è un grosso rischio se non già una spia, un segnale che, forse, la nostra civiltà, la nostra realtà di ordine culturale, civile, artistico, storico, filosofico stia per arrivare ad un capolinea e che quello che avevamo da dire lo abbiamo già detto. Saranno poi altri in avanzata che diranno.
Bisogna stare molto attenti! Quel sacerdozio di cui ho parlato implica una riflessione continua, un’analisi continua, un continuo “essere sul pezzo”.
Stai sul pezzo, stai lì! Non ci si può distrarre!
Anche adesso tra me e te stiamo facendo arte e non ci stiamo distraendo e il nostro dialogo diventa una creazione, è un’opera. Questa è opera, in due stiamo dicendo Messa, potremmo essere in dieci, potremmo essere in cento. È importante dare il senso profondo all’opera, altrimenti si rischia il caos. Il sacerdozio nell’arte si misura con la durata, con l’abnegazione, si misura con quello che sei riuscito a fare in vita, ma attenzione! a esprimere con le tue forze e non perché avevi dei padrini, amici o amici degli amici, perché un’altra componente fondamentale è che con l’opera non si bara! Non puoi barare! Se il bluff c’è, prima o poi viene fuori. È un assoluto. Un prete non può credere in Dio a corrente alternata! Potrà eventualmente porsi delle domande, ma queste domande non devono mai scalfire la Fede. Dal punto di vista artistico, non ho paura di dirlo, io sono un integralista, un fondamentalista; non si può essere diversamente e, mai come in questo momento storico, bisogna essere inflessibili, rigorosissimi anche con se stessi, partendo da se stessi.
Con l’opera non si bara e mai è consolatoria l’arte! Entriamo nella dimensione esaltante, che è il contrario. L’arte entra nell’esaltazione e l’esaltazione entra nell’estasi di cui si parlava prima. È una dimensione estatica e si sbaglia tremendamente se si pensa che l’arte sia consolatoria, che la poesia sia il lacrimatoio, ma è tutt’altro! L’arte ha in sé un grosso segnale di forza e di coraggio, e l’opera è una dimensione energetica, di grande tensione emozionale. L’opera ti chiama a questo: alla forza, al coraggio, alla tensione, allo stupore…soprattutto allo stupore! Allo stupirsi di continuo anche di se stessi e di ciò che riescono a toccare altri meritevoli.
Mai è consolatoria l’arte! L’opera ti chiama al coraggio di affrontare il dolore a testa alta, da esseri umani. Il dolore ti può piegare, ti può far inginocchiare, ma la fronte deve rimanere sempre alta, anche in ginocchio. Ho detto prima che di opera si può anche morire però, a questo punto, meglio morire di opera piuttosto che non affrontare se stessi nell’opera e accostarsi all’opera con la lacrima o strisciando. Meglio morire! L’opera non ti vuole così! L’opera ti vuole nella tua verità, ti vuole nella tua completa sincerità e ti vuole anche nella tua modestia perché sei arrivato fin dove potevi, però sei degno fin lì. Dignità! Dignità! Il sacerdozio implica una grandissima dignità. Oggi, invece, siamo in un mare di mezze figure, per usare un termine caro a Sciascia, di “quaquaraquà”, e questo è deleterio per il nostro fare arte e per la nostra civiltà. Io sono convintissimo che l’unica possibilità di incontro tra diverse culture, civiltà e religioni possa avvenire solo riconoscendosi reciprocamente una dignità e la capacità di narrarsi come persone degne. Nel racconto ci può essere l’incontro, nella narrazione di ciò che per noi è sacro (ecco, ritorniamo al sacro) mentre l’altro ci racconta ciò che è sacro per lui e, alla fine, scoprire che il suo sacro ed il nostro sacro collimano. Sono molto junghiano in questo, esiste un io collettivo, siamo tutti parte dello stesso formicaio, mentre questo mondo tenta di confondere sempre di più, ed ecco che ritorniamo alla Torre di Babele di cui ho parlato.
L’uomo sta peccando troppo di superbia, è un peccato che stiamo commettendo soprattutto noi occidentali. Tutto si fonda sulla superbia. È il primo peccato; il demonio pecca di superbia. È sempre quello il nocciolo della faccenda: mancanza di umiltà, mancanza di modestia, e mancanza di capacità di capire quando ci si deve inchinare, perché ho detto che si deve restare sempre a testa alta, ma quando c’è da onorare qualcosa o qualcuno bisogna sapersi anche inchinare, questo fa parte della dignità ed anche di quella componente estetica fondamentale in ogni campo che consente di superare la volgarità e di entrare nella dimensione della bellezza, del buon gusto, dello stile. Viviamo in un mondo che ha perduto lo stile!
Recuperare lo stile è fondamentale, perché ci si possa far riconoscere non solo come scrittore, come pittore, ma come essere umano, come appartenente ad una comunità di esseri umani.
Gabriella Grande
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