Intervista di Gabriella Grande
Oltre ad essere un raffinato curatore, lei è Docente all’Accademia di Belle Arti di Foggia, ma è anche un’ artista. Cosa significa per lei insegnare a partire anche da una forte identità artistica?
La mia storia è “eclettica”, come l’Associazione che ho creato nel 2003 a cui ho dato proprio il nome di “Eclettica”. Infatti, uno dei motivi per cui decisi di intitolare in questo modo l’Associazione culturale con cui ho messo in campo i miei progetti più importanti, risiede proprio in questa possibilità di esprimere l’essenza della mia esperienza, fin dalle origini della mia formazione. Ho mosso i miei primi passi in qualità di artista e mi sono diplomata nel 1989 all’Accademia di Belle Arti di Bari in pittura. Successivamente, mi sono laureata in Storia dell’Arte (Roma Tre) e poi, a seguire, ho fatto altre esperienze fondamentali, che hanno sicuramente contribuito a costruire la mia formazione a trecentosessanta gradi: un corso di computer grafica allo IED (Istituto Europeo di Design, Milano) e un corso di curatore con Ludovico Pratesi all’inizio del 2000. Mi piace ricordare un’esperienza per me molto formativa, quella con l’associazione Fonopoli di Renato Zero con cui ho iniziato, una ventina di anni fa, a muovere i miei primi passi da curatore di un concorso di arti visive.

Biennale di Venezia, 2011, con Jan Fabre
Credo sia molto importante nascere artista. Lo è tanto per “condividere” al meglio con gli artisti invitati la produzione di opere e la messa in campo di mostre, quanto per affiancare il giovane studente che si affaccia sul mondo della creatività. L’insegnamento è per me un’esperienza nuova, in cui ci si interfaccia con artisti ancora in fase formativa. In precedenza, sono stata impegnata, in qualità di tutor, in percorsi regionali quali il bando PIN, il programma BOLLENTI SPIRITI, recentemente nel progetto SPARC, in cui ho potuto trasferire la mia competenza a giovani che avevano già acquisito una formazione e che si aprivano al mondo del lavoro. Ho vinto recentemente l’insegnamento in “Organizzazione di grandi eventi” presso l’Accademia di Foggia, dove seguo un gruppo di allieve di Fashion Design, una dimensione non strettamente legata all’ Arte Contemporanea, ma comunque ad essa connessa, in virtù della multidisciplinarietà che ormai fa parte del mondo e delle industrie culturali e creative. Mi impegno a trasmettere loro la mia esperienza di artista (che è, per così dire, “passata dall’altra parte” adesso) e di organizzatore di “eventi” complessi – ad esempio quelli identitari come la Disfida di Barletta – constatando, ogni giorno di più, come si tratti di un dare e di un avere continuo, inscindibile, che emoziona, perché questo scambio chiede che la costruzione del percorso venga fatta “insieme” e perché dalle giovani allieve di Fashion Design ho la possibilità di recepire una ”visione nuova”, arricchente. Nel periodo pandemico che abbiamo attraversato, la didattica a distanza mi ha privato della possibilità di costruire un rapporto “diretto” con le mie allieve e me ne dispiace, ma questo non ha impedito a me e a loro di “toccare” i nostri differenti sguardi sul mondo e sulla realtà.
Alighiero Boetti sosteneva che “curare una mostra è come disegnare una mappa”. Partendo dal suo personale punto di vista, cosa significa per lei raccontare un progetto artistico? Lo intende come modalità di presentazione, una forma di interpretazione o di moltiplicazione del messaggio dell’artista o è esso stesso un atto performativo e creativo? E perché?
Per me è essenzialmente un atto performativo e creativo in cui mi esprimo non solo come Curatore e come Storico dell’arte, ma anche come artista. Per un certo periodo, ho lavorato con Achille Bonito Oliva che è stato consulente scientifico del progetto INTRAMOENIA EXTRART (forse, il mio progetto più ambizioso), in cui si sono avvicendati cinque anni di mostre nei castelli e palazzi storici della Puglia che hanno ospitato i più grandi artisti internazionali: pugliesi, nazionali e internazionali.

Castello di Brindisi
Achille Bonito Oliva mi diceva che mi si riconosceva per la mia “scrittura espositiva”. Probabilmente questa “scrittura espositiva” trova le sue radici proprio nel mio bagaglio di artista che mi orienta a pensare ad un progetto sempre nella sua completezza, m’ impegna a non trascurare o a non delegare nessuna delle sue parti, che ritengo tutte fondamentali. Perciò arricchisco della mia scrittura anche la fase d’ideazione dell’opera, relazionandomi con la visione dell’artista, con il tema della mostra, con l’identità del luogo, con il luogo stesso, con la struttura architettonica che accoglierà la mostra e l’istallazione, con la possibile percezione dei visitatori. Il percorso che seguo è, quindi, indubbiamente anche creativo. Ed è performativo, in quanto seguo l’artista in tutte le fasi. La stessa confezione del prodotto finale – che sia una mostra personale, un intervento speciale o una collettiva – risulta, alla fine, un racconto a trecentosessanta gradi di quello che io per prima voglio trasmettere al fruitore. Anche per questo, lavoro molto al fianco dei grafici, che io considero artisti alla pari degli artisti che invito nelle mie mostre. Ti porto l’esempio di un progetto di alcuni anni fa, WATERSHED (2012/13), che si è collocato al Primo Posto nel Programma Cultura della Commissione Europea (l’attuale Europa Creativa), su oltre trecento progetti candidati. Il progetto grafico di WATERSHED, quindi il logo stesso che identificava l’intervento di ogni artista, si trasformava in funzione del medium utilizzato dall’artista, rappresentato da elementi fluidi (acqua, petrolio, ecc…), e diventava esso stesso protagonista di un progetto grafico di alto livello artistico a cura di un team di creativi guidati da Carla Palladino. In quell’occasione, il gruppo dei grafici ebbe la capacità di trasmettere, attraverso il visual design, il vero senso del concept di WATERSHED, al punto da meritare una segnalazione alla Biennale del Design di Mosca.

Castello di Barletta
Lei è stata curatore esecutivo del progetto a cura di Achille Bonito Oliva DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO (2010). Questa proposta di presentazione delle opere d’arte da un diverso punto di osservazione mi sembra che racconti molto anche delle sue modalità operative: lavorare sul limite, sulla soglia per rischiare un cambio di prospettiva e presentare una diversa cucitura narrativa tra l’opera proposta e il fruitore. Quanto è importante correre “il rischio” di lavorare sulla soglia? E, concettualmente, quanto ritiene sia stato rilevante il cambio di prospettiva nel relazionarsi all’arte proposto al fruitore?
DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO è un progetto figlio dell’esperienza di INTRAMOENIA EXTRART, oltre che di altre esperienze, portato in Puglia con la direzione scientifica di Achille Bonito Oliva con cui mi ero già confrontata, nell’esperienza attraversata dal 2005 al 2010, sull’uso di questi luoghi limite e sulla proposta allo spettatore di uno sguardo da punti di vista differenti rispetto a quello tradizionale.

Castello Svevo di Bari
A questo proposito, voglio ricordare due realizzazioni in particolare nell’ambito di INTRAMOENIA EXTRART: un intervento realizzato nel 2006 a Lucera con l’artista colombiana Maria Teresa Hincapiè de Zuluaga ed un altro a Lecce con l’artista (fotografo) Oliviero Toscani. “El espacio se mueve despacio” di Maria Teresa Hincapiè de Zuluaga propose un’eccezionale proiezione di notevole forza emotiva, nel grande spazio della fortezza di Lucera, con una modalità di osservazione inusuale, ovvero dal basso verso l’alto e quindi invertita rispetto a quella proposta in DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO. Oliviero Toscani occupò lo spazio libero sulla Torre Mozza della fortezza Carlo V, con un grande manifesto prospiciente la strada, una fotografia di modelle seminude, bendate in diverse parti del corpo con cui la meraviglia della bellezza incontrava la critica alla sua degenerazione, attraverso l’allusione agli interventi spesso invasivi di chirurgia estetica. Anche in questo caso, l’osservazione è stata proposta al fruitore da un diverso punto di vista.

Lecce, Fortezza Carlo V
Credo che, attraverso il ricordo di alcuni dei miei progetti, abbia risposto alla domanda di quanto sia importante lavorare “sulla soglia” e “correre il rischio” di proporre uno sguardo differente sulle cose. Il “limite” è un concetto chiave. Il vero artista contemporaneo si muove sul limite, e quindi è importante sollecitare il visitatore anche con punti di osservazione “al limite”: al limite dell’assurdo, al limite anche del facilmente digeribile, al limite della fiaba, al limite della provocazione anche fisica. Penso all’istallazione “Macchine celibi” dell’artista Francesco Schiavulli, macchine in legno di risulta con cui il fruitore, nel progetto DA SOPRA GIÙ NEL FOSSATO, poteva attraversare il limite del fossato del Castello Svevo di Bari. Si rese possibile l’attraversamento di quel limite naturale architettonico e quindi il “limite del proibito”, utilizzando queste macchine delle emozioni. L’Arte contemporanea è anche questo: è un oltrepassare il limite. L’artista, come dice Achille Bonito Oliva, “è un errore biologico”, per cui io credo che dal vero artista non possiamo aspettarci nulla di scontato, l’arte deve sorprendere; anche un punto di vista insolito può aiutare a “spiazzare”, emozionare. Nella proposta di un punto di osservazione differente va letto anche il progetto realizzato, nel 2010, proprio nella tua città, Taranto, con l’artista Stefano Cagol, invitato a produrre un lavoro site specific nell’ambito di INTRAMOENIA EXTRART. Con questo esempio rispondo anche alla tua seconda domanda relativa all’importanza di offrire al fruitore un cambio di prospettiva nel relazionarsi all’arte. L’intervento di Stefano Cagol ha rappresentato un’opera di coinvolgimento della città e dei cittadini, incentrata sull’osservazione della difficoltà di conciliare salute e lavoro, in un momento in cui questo tema non era sentito in maniera pubblica fortemente come lo è, invece, oggi. Un’ ape car (triciclo Piaggio) circolava nelle strade della città, con la collaborazione dell’allora giovane artista Valentina Vetturi, alla ricerca di oggetti luccicanti per creare quest’opera multidisciplinare, il cui titolo, “Scintillio e cenere”, rimandava anche alla bellezza degli Ori di Taranto e insieme alla traduzione di Ilva. Cagol installò nel fossato del Castello Aragonese di Taranto una grande bandiera rivolta verso la città e su cui vi era scritto CENERE. In questo caso, l’arte ha condotto il fruitore sulla “soglia” dell’osservazione di una realtà che di lì a poco si sarebbe palesata in tutta la sua drammaticità, in forte contrasto con la bellezza della luce e della storia millenaria della città.

Castello Aragonese, Taranto
Vorrei prendere spunto dalla scelta espositiva della mostra Silent Spring di Claudia Giannuli nelle sale del Museo MarTa di Taranto per considerare come lei proponga un modello alternativo di gestione dei beni culturali tradizionali. In questo caso si tratta dell’utilizzo dello spazio espositivo museale, in atri suoi progetti ha impegnato siti di rilevanza storico-artistica e paesaggistica. Si tratta sempre di spazi espositivi inusuali, che lei sceglie di volta in volta, già di per sé impregnati del loro personale significato e il cui senso trova nuova espansione attraverso l’arte contemporanea ed un più efficace coinvolgimento concettuale del fruitore, a mio parere. Qual è la particolarità, in ambito espositivo, della mostra Spring di Claudia Giannuli al MarTa?
Devo andare necessariamente un po’ indietro nel tempo, perché nessuno di questi progetti nasce come progetto spot, ma sono il risultato di una lunga gestazione e di un’idea ben precisa e consapevole che è quella del CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO, indubbiamente figlio, anche questo, delle esperienze precedenti, quindi di INTRAMOENIA EXTRART, che è modello di “museo temporaneo diffuso”. La particolarità di questa mostra sta nel fatto che, pur legandosi sempre alla realtà del territorio, il Museo Archeologico Nazionale MarTa ha già una sua organizzazione interna. Invece i miei progetti, generalmente, coinvolgono realtà periferiche e luoghi non convenzionali. Porto l’esempio del progetto CASA FUTURA PIETRA (2015/17): una delle mostre è stata pensata e realizzata negli Ipogei Capparelli che si trovano di fronte al Parco Archeologico di Siponto, un luogo totalmente abbandonato che abbiamo fatto gestire da realtà locali, associazioni e cooperative ingaggiate per il tempo di fruizione della mostra.
SILENT SPRING di Claudia Giannuli, proposta nel MarTa, non ha presentato questa necessità, perché il Museo dispone già di un personale predisposto alla sorveglianza degli spazi e dei reperti che il Museo, generosamente messo a disposizione della mostra, grazie alla piena collaborazione della direttrice Eva Degl’Innocenti. Nonostante tutto, ho voluto comunque fortemente il coinvolgimento di Cristina Principale, professionista e storica dell’arte che si occupa di comunicazione e la cui competenza è nutrita anche dell’espressione del territorio tarantino. Ritengo che sia fondamentale garantire sempre la presenza di un professionista che conosca bene il territorio, per poter assicurare il miglior approccio possibile in funzione delle specificità di forza e di debolezza dell’ente pubblico locale e dei fruitori locali con cui ci si interfaccia, in relazione anche alla floridità culturale, più o meno vivace, dei diversi territori in cui si va ad operare.
La mostra SILENT SPRING è stata organizzata con l’Associazione culturale ECLETTICA – Cultura dell’Arte, di cui oggi è presidente lo scultore Stefano Faccini, ed è stata prodotta grazie al finanziamento ottenuto partecipando al bando regionale “Custodiamo la Cultura in Puglia” e da aziende sensibili come 2STAR/MOFRA e EUMAKERS. Ma senza il lavoro che ha visto coinvolti la Direttrice del MarTa, Eva Degl’Innocenti e lo staff del Museo, di cui fa parte il prezioso funzionario archeologo Lorenzo Mancini, nulla si sarebbe potuto realizzare. E non è facile confrontarsi con un’Istituzione complessa come un Museo Nazionale; l’affermazione della Direttrice, nel giorno dell’inaugurazione, “qui si entra solo per meritocrazia”, pertanto, è stata molto appagante!

Museo Archeologico di Taranto MarTa
In esposizione fino al 25 luglio 2021
Il CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO di cui fa parte la mostra SILENT SPRING è uno straordinario progetto pluriennale di fruizione di arte contemporanea di cui mi ha molto colpito il capillare lavoro collettivo che fa di ogni mostra non una dimensione limitata nel tempo, ma tasselli che si combinano in un percorso che si costruisce insieme, come risultato di una collaborazione sinergica. Quanto ritiene importante o necessaria la possibilità di un lavoro collettivo in ambito artistico? E perché?
Il lavoro collettivo è fondamentale ed il problema cardine sta nel fatto che il lavoro collettivo ha un costo. Mi dispiace enormemente che a tuttt’oggi non sia stato ancora recepito che il CIRCUITO DEL CONTEMPORANEO non è un mero calendario di eventi ma molto di più che ha al centro “il lavoro” in ambito culturale: è un sistema tra professionisti del settore il cui lavoro creativo ha indubbiamente e appropriatamente un costo che oggi, purtroppo, non è coperto. Al lavoro di produzione di una mostra, allo studio dei testi, allo studio della grafica, al concept generale, alle traduzioni, al piano e ai prodotti per l’accessibilità, anche al lavoro svolto dall’artista nella progettazione di un’opera, nonché alla produzione artistica o artigianale dell’opera (come è stato necessario nel caso delle opere di Claudia Giannuli, di produzione artigianale) si deve aggiungere necessariamente il LAVORO DI IDEAZIONE che ha esso stesso un costo che non rientra nel budget della produzione fisica dell’oggetto o del service che monta audio e video (quando sono necessari) e del mero allestimento della mostra. Oggi è possibile sperare nella copertura solo dei costi vivi di produzione di una mostra, mentre si pone in un immeritato piano secondario il valore effettivo del costo della ideazione del progetto, svilendo l’importanza di quello che dovrebbe, invece, essere considerato un passaggio “perno” su cui ruota e si sviluppa tutto il progetto che si vuole proporre, di volta in volta. È assolutamente necessario un cambio di prospettiva. Vorrei poter creare e dirigere un board di curatori pugliesi, senza escludere il confronto sempre necessario e anzi auspicabile con curatori di altre regioni italiane o internazionali, a cui poter trasferire la mia esperienza, maturata negli anni, e con cui poter lavorare ad una progettazione biennale o triennale, per costruire insieme progetti che possano offrire giusta visibilità ad artisti del territorio, ma che, nel territorio sono purtroppo poco conosciuti, mentre hanno già raccolto stima e risultati in altre realtà di respiro internazionale. Porto ad esempio gli artisti Rossella Biscotti (originaria di Molfetta), Francesco Arena (nato a Torre Santa Susanna, in provincia di Brindisi) o Sarah Ciracì e Giulio De Mitri (di Taranto), solo per citarne alcuni.
Sono pienamente d’accordo con lei. Mettere in secondo piano la valorizzazione concreta di artisti di talento del territorio per dare spazio, piuttosto, a progetti spot che garantiscano un esclusivo momentaneo ritorno di favore in ambito turistico, rischia di intercettare sempre più spesso un pubblico poco interessato al messaggio artistico, svilendo il valore dell’arte e la funzione fondamentale del curatore. È necessario che venga presa seriamente in considerazione la prospettiva auspicabile di valorizzazione del ruolo e dell’identità del curatore, che non può e non deve essere ridotto ad un “organizzatore” che riempie di contenuti un contenitore-luogo di esposizione, ma deve essere riconosciuto nel suo indispensabile ruolo di regista e creatore, impegnato nella traduzione, nella scrittura e nella tessitura della trama di un progetto artistico. Un atto dovuto all’Arte, io credo, sia porre le basi e le condizioni da parte degli enti pubblici di mettersi al servizio dell’Arte, affinché la cultura sia la radice su cui far crescere la pianta florida del turismo e non piuttosto servirsi dell’Arte stessa per muovere un turismo che trovi basi solo sull’inconsapevolezza del tesoro a cui si sta accedendo.
Sì, è così. Una simile visione dell’arte che non riconosce il valore dell’ideazione non potrà mai portare a grandi risultati. Ne sono molto dispiaciuta. Ribadisco quanto sia assolutamente necessario un cambio di prospettiva da parte degli enti pubblici.
Lei ha preso parte al progetto CARNAVAL VISUAL ART 2017 che ha visto coinvolti artisti di fama internazionale sul tema identità e maschera. Uno spunto di riflessione molto interessante che mi porta a chiederle: quanto crede che l’arte possa contribuire a “rileggere” la realtà in modo più autentico?
Consentire la rilettura della realtà in modo più autentico è forse la mission fondamentale dell’arte. L’arte può e deve smascherare la realtà. L’artista ha la grandezza della “visione”, la capacità di guardare oltre, di prevedere anche il futuro, di precorrere i tempi con il suo sguardo smaliziato sulla realtà, la cui lettura non è mai una sola. L’artista ha una mission sociale, smaschera quello che non va della società oppure lo traveste di bellezza. Io sono un curatore molto attento alla veste estetica dell’opera d’arte che non significa “bello” ma cura, equilibrio. Perché siamo attratti dall’arte del passato? Perché è un’arte estetizzante. Tra gli artisti che ho ospitato nelle mie mostre, vi è Jan Fabre (belga) che molti faticano a considerare un artista contemporaneo perché definito molto “leccato”, così accade anche per artisti squisiti come Matteo Basilè o Andres Serrano.

INHUMAN a cura di Giusy Caroppo
Castello di Barletta
Ph Maurizio Abbate
Sono artisti che cercano nella fotografia, nell’installazione una veste impeccabile, assolutamente perfetta, facendo ricorso anche all’uso di materiali pregiati o soluzioni ricercate. Jan Fabre spazia dall’impiego del vetro di Murano, al marmo di Carrara, al carapace dello scarabeo. L’arte contemporanea è, invece, spesso associata al brutto, all’antiestetico, nell’immaginario della gente e c’è una sorta di repulsione della critica per l’opera ben confezionata. Ma l’arte, anche quella attuale, deve avere il coraggio della bellezza, perché questo può aiutarci a vivere meglio. La pandemia che abbiamo attraversato ha, inoltre, potenziato la comprensione della capacità consolatoria dell’Arte. L’arte, la vera arte quindi non solo smaschera, ma consola.
Gabriella Grande
Link per approfondimenti:
Giusy Caroppo – Storico dell’Arte e Curatore Indipendente