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“Anime nude” – Intervista a Michele Cipriani

L’attore Michele Cipriani è attualmente impegnato nello spettacolo teatrale “Il nullafacente” di Michele Santeramo e regia di Roberto Bacci, in scena dal 30 marzo al 2 aprile 2017 al Teatro Studio Mila Pieralli  di Scandicci (Firenze), Fondazione Teatro della Toscana.

  1. micheleciprianiPPCos’è il teatro per te? 

Il teatro per me è l’unica forma possibile di esperienza collettiva. È stato inventato per  permettere all’uomo di guardare se stesso, di confrontarsi con i suoi difetti e i suoi  limiti e di riflettere sui possibili  modi per superarli. All’inizio era un’esperienza religiosa e, in fondo,  lo è rimasta tuttora. Anzi, oggi, forse lo è ancora di più, perché  in un mondo sempre più alienato, il teatro è l’unico tipo di esperienza che ti permette di  vivere una comunione con gli altri, quindi,  per me è,  prima di tutto,  una forma di comunicazione. Soltanto pochissime  altre esperienze ti consentono di collegarti intimamente ad altre persone in un modo  così immediato e forte. Credo che il teatro rappresenti una possibilità. Gli esseri umani senza le relazioni non esistono e il teatro è uno dei luoghi in cui la gente può – e potrà anche e soprattutto  in futuro –  sfuggire all’alienazione  e alla solitudine, per vivere  un’esperienza insieme ad altri esseri umani, e forse anche  – e qui esagero,  ma solo fino ad un certo punto –  per continuare a sperimentare che cosa  significa essere umani. Proprio per questo credo che il teatro non morirà mai. Riguardo a questo io sono drammaticamente ottimista – per usare un’espressione del teologo Vito Mancuso – perché se il teatro dovesse morire significherebbe che è morto anche l’uomo, perché vorrebbe dire che l’essere umano  non ha più voglia di vedersi, di rappresentarsi.

  1. Quanto è schermato l’attore di teatro dall’invadenza di una storia rappresentata? C’è una resa alla verità del personaggio che interpreti di volta in volta o una lotta, una tensione continua?

La capacità di costruire con l’immaginazione  un’altra possibilità esistenziale è una cosa MIK2estremamente affascinante, almeno per me,  quindi io d’emblée  non pongo nessun tipo di resistenza. La costruzione a cui mi riferisco è sempre e solo intellettuale. Io non  credo agli attori che dicono di essere realmente quello che interpretano. Per me è una menzogna;  non  potrai mai essere veramente qualcun’altro. Quello che fai sono solo costruzioni intellettuali che,  se sei bravo,  risultano così credibili da coinvolgere chi ti guarda, ma non sono mai  vere, perché una cosa è la verità ed un’altra è la credibilità. Non parliamo mai di verità, ma di credibilità. Io vivo sempre un certo distacco dal personaggio che interpreto perché, in fondo,  non sono mai  veramente io. Sarebbe terrificante altrimenti. Immagina se dovessi tutti i giorni perdere l’amore della mia vita come fa Romeo o provare  rabbia per l’ingiustizia subita come Amleto! Sarebbe un’esperienza devastante, penso  che un essere umano non ne uscirebbe vivo. Allo stesso modo,  ci sono stati dei momenti della mia vita in cui un particolare tipo di personaggio ha toccato degli aspetti della mia anima che mi hanno messo in seria difficoltà,  perché costruire quel tipo di esperienza, anche solo con l’immaginazione, è stato così forte da coinvolgermi come essere umano, nonostante io provi sempre a distinguere l’attore dall’essere umano. A me è successo, per esempio, quando ho dovuto interpretare un personaggio che faceva violenza. L’ho fatto, ho costruito quel personaggio,  ma quell’esperienza  mi ha lasciato degli strascichi.  Certe volte si va a sollecitare qualcosa di troppo simile alla vita, e per questo meno facile da gestire psicologicamente.  Anche se stai giocando a costruire un’altra vita, un’altra personalità, un’altra identità,  in quel momento stai facendo un’esperienza. E anche se la fai con il dovuto distacco, può farti male.

Credo sia necessario molto autocontrollo, per non sprofondare in quelle emozioni…

Il bello di fare questo lavoro è che è un continuo interrogarsi su se stessi e su cosa significa essere umani. Ma è anche un’arma a doppio taglio, perché ci sono delle volte in cui  tutta questa continua  sollecitazione, da parte di  esperienze meno facili da gestire nel trattare alcuni personaggi, può  anche fiaccarti dentro. Ad esempio, nel mio ultimo spettacolo, “Il nullafacente” di Michele Santeramo,  si parla di una persona che non vuole fare niente e ha dei motivi profondi per non voler fare niente. I quesiti che ti pone quel disgraziato, come essere umano,  sono abbastanza ficcanti e si subisce la tentazione di dire: “Ma sì, effettivamente ha ragione lui! Affondiamo anche noi in quella disperazione, diventiamo anche noi assolutamente passivi!”.  È necessario, per questo, un certo lavoro interiore per guardare quello che ti succede, quello che vivi sulla scena e per vagliarlo, valutarlo alla luce della tua coscienza e così sublimarlo,  perché  tu non ne venga schiacciato.  Nel teatro si ricevono continuamente sollecitazioni di questo tipo e si  è molto più soggetti alla stanchezza interiore rispetto ad altri lavori, in cui devi semplicemente eseguire delle cose senza doverti preoccupare di quello che stai vivendo in quel momento.

  1. Il protagonista dello spettacolo di Michele Santeramo, “Il nullafacente”, si sottrae da tutto quello che non rientra nei suoi bisogni. Non è un personaggio che non fa nulla in assoluto, ma decide di fare solo quello che desidera profondamente; fa molto, ma per se stesso. Tu cosa credi non si debba fare per stare bene?

Il tema che affronta “Il nullafacente”  mi coinvolge profondamente e mi sono interrogato molto sul significato di questo spettacolo. Concordo pienamente con la prima fase dell’atteggiamento del nullafacente, ovvero con il suo tentativo  di liberarsi da qualcosa. Il primo passaggio che il nullafacente compie è, infatti, quello che potremmo definire  della libertà da, attraverso il quale, arriva a scegliere di vivere una specie di ecologia interiore, allontanandosi da tutte le sollecitazioni false di ciò che lo circonda.  Questo lo trovo un passaggio  corretto e lo condivido. La  seconda fase, invece, la svilupperei, personalmente, in un modo diverso dal nullafacente, compiendo il salto ad una libertà per. La libertà guadagnata si dovrebbe poi poter  spendere, e farlo in qualcosa per cui ne valga la  pena. Non è possibile non fare assolutamente niente. Lo stesso nullafacente, quando raggiunge una condizione di vuoto totale, cura il bonsai,  si dedica a qualcosa, a dimostrazione del fatto che  l’uomo non è fatto per vivere nel vuoto più totale, semmai  per riempire il vuoto, con la propria creatività ad esempio.  Secondo me, la  scelta di non fare niente del nullafacente è dettata da una profonda disperazione,  che scaturisce dalla consapevolezza  che la persona amata sta per morire. È  sicuro  al 100% che la perderà e il suo atteggiamento  è una difesa dalla sofferenza della vita. Bisognerebbe vedere che cosa succederebbe – ma non ne abbiamo la controprova – se lui,  invece,  di avere la certezza al 100% che la persona che ama sta per morire, avesse anche solo il 20% di speranza. Come  spenderebbe quel 20% ?Il personaggio del nullafacente è  molto umano, non una maschera, non una caratterizzazione di un’idea,  e,  come tutto ciò che investe la sfera dell’umano,  è molto complesso, e non lo si può interpretare solo alla luce di un discorso filosofico su come dovrebbero andare le cose e su come, invece,  non vanno.  Questa la grandezza dei testi di Michele Santeramo.

  1. Cosa ha da dirci, invece, il personaggio che interpreti, ovvero “il proprietario” ? E quale tipologia di uomo smaschera?

Il proprietario è, per certi versi, lo specchio convesso del nullafacente. È molto interessante come personaggio perché lui, pur rivendicando i soldi (che il nullafacente gli deve),  non è una persona avida; lui vuole i suoi soldi, la sua unica preoccupazione è riuscire a recuperare quello che è suo, sostanzialmente per lui si tratta di recuperare se stesso, questo suo se stesso che gli sfugge e che produce in lui  una ferita da ingiustizia;  è un problema di identità. Infatti ripete spesso: “Quei soldi sono miei,  perché non dovrebbero tornare a me?” , quasi a voler significare: “Perché questa parte di me non sta con me?” Il proprietario è l’unico personaggio ad avere una spinta ideologica pari a quella del nullafacente. Ma, mente il nullafacente  è quello che Brecht definirebbe “l’uomo di carattere” e  prende le distanze dai bisogni della società,  Il personaggio del proprietario è, invece,  perfettamente integrato nella società, è una sorta di caratterizzazione simbolica dell’uomo medio attuale.

  1. Per te, che devi imparare a memoria le battute di un copione, cos’è la memoria?

La memoria è qualcosa di molto tecnico. Ci sono alcuni aspetti della nostra professione che non hanno a che fare solo ed esclusivamente con l’aspetto artistico, ovvero il pensiero, l’anima e lo spirito che ci metti, ma  che sono artigianali, puramente tecnici, e che richiedono mestiere più che anima, e la memoria, per me, è uno di questi. È uno strumento che mi consente di fare tecnicamente il mio lavoro.  Conosco attori,  anche molto bravi, che hanno dovuto smettere di lavorare perché non avevano memoria o perché non erano riusciti ad esercitarla, ad allenarla o a disciplinarla. Io ho la fortuna di avere un’ottima memoria, ma l’ho anche  allenata, per cui riesco a imparare un copione anche in 4-5 ore, ormai. Ma non c’è niente di straordinario. È lavoro, è esercizio.

  1. Cosa rappresenta, per Michele Cipriani quella linea di confine tra il palco e la prima linea di sedie della platea?

Lì c’è il motivo per cui lo faccio. La prima, la seconda, la terza,ma  anche l’ultima fila sono il motivo per cui sono sul palco di un teatro. Ci sono molte falsità e ipocrisie rispetto a questa cosa, quando si afferma che non lo si fa per il pubblico, per farsi guardare. Io sono profondamente convinto che ci sia un aspetto narcisistico  nel nostro lavoro e che sia ingiusto negarlo. Lo fai perché  c’è un  pubblico, ma,   anche e soprattutto,  perché  speri che in quella prima fila ci sia quello che io chiamo il tuo spettatore, cioè lo spettatore ideale per il quale  tu reciti. È per lui che  lo fai, perché speri e credi che questa persona,  ipotetica  o reale che sia,  capisca quello che stai facendo e il motivo per  cui tu sei lì e che stia con te, mentre  tu riesci  a dargli veramente qualcosa.  Quando succede, quando ti rendi conto che sta succedendo, si vive una delle esperienze più belle che un essere umano possa fare.

  1. Un verso di una poesia di Yves Bonnefoy (da “Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve”, Einaudi, 2001, pag. 42-43) recita:  “Ma l’acqua è sempre chiusa in fondo al pozzo, la stella vi resta sempre prigioniera”. Nello spazio chiuso del teatro,  “la stella”, ovvero la scintilla di verità che si inscena, resta prigioniera?

MIK1Il teatro è verità. Nel momento in cui lo si fa,  solo per  il fatto che delle persone, sul palco,  stanno cercando di “raccontare” una storia, e delle altre sono lì,  tra il pubblico,  a vivere quella esperienza insieme a loro, penso si stia facendo una profonda esperienza di verità –  di quella verità di cui tu parli – esperienza in cui l’essere umano illuminato, che è dentro ognuno di noi,  viene fuori. Noi viviamo la maggior parte della nostra vita nell’incoscienza. Il teatro fatto bene è una pillola di coscienza che ti è dato di  prendere. Uno spettacolo teatrale, quando funziona – come “il nullafacente” – è vita condensata se tu sei lì, in quel momento,  al 100%. Per questo faccio una grandissima fatica, mentre lavoro, ad accettare di  vedere i telefonini accesi , che siano  o meno con vibrazione o in modalità aereo, perché riconosco in questo il tentativo disperato della gente di arrampicarsi ancora al fuori. Ma io vorrei poterle dire:  “Almeno per qualche ora sparite dal mondo, state qua! State qua! Concedetevi la possibilità di essere veramente”. Sembra che la gente non ci riesca, abbiamo una potentissima attrazione per la dispersione e questo lo trovo  tristissimo. Quella stella di cui tu parli è un barlume di vita pura che rimane intrappolata lì, nello spazio del teatro,  solo quando tu vivi l’esperienza dello spettacolo pienamente, con tutto te stesso.

  1. Per te il teatro è una domanda o una risposta?

Tutte e due contemporaneamente. Il teatro è in piccolo quello che, secondo me,  ogni uomo dovrebbe fare nella vita: ovvero cercare di dare ordine al caos della vita, così piena di contraddizioni, di cose che fanno male, ma, per fortuna,  anche di tante cose che fanno bene ed è  quindi  piena di domande. Tramite il teatro si cerca  di raccontare la vita e le esperienze di altri esseri umani, di cui se ne deve avere inevitabilmente coscienza profonda (altrimenti non sarebbe possibile raccontarle), nel  tentativo di mettere ordine a questo caos. Si attua una catarsi, che è poi il motivo per cui è stato creato il teatro e che mi consente di vivere l’esperienza di un altro essere umano attraverso la quale capisco delle cose della mia  esperienza di vita. Qualche volta questo ci aiuta a trovare delle risposte, altre volte fa nascere in noi altre domande,  che prima di quella esperienza dello spettacolo non saremmo stati in grado di porci. Molte persone dopo lo  spettacolo “Il nullafacente” ci raccontano che  stanno  facendo delle riflessioni sulla loro vita mai nate prima. È questo che ci fa dire che quello spettacolo è servito.

  1. È il personaggio che si interpreta a tornare in esilio nel testo, fino alla prossima interpretazione, oppure il vero esiliato è l’attore, nel momento in cui si distacca da un grande personaggio?

Mi è capitato, di recente, di dover abbandonare un personaggio a cui sono molto affezionato, perché purtroppo per motivi di lavoro non potevo farlo più. Non c’è esilio, ma ti rimane dentro il ricordo di un amico, di un qualcuno che è stato con te per un tempo significativo della tua esistenza e che,  per certi versi, dentro di te rimane ancora. L’esilio prevede che tu possa staccarti da questa cosa, ma in realtà non è esattamente ciò che accade.  Piuttosto è come avere un album di fotografie tra le mani e ricordarti delle volte in cui siete stati insieme, e le cose che avete condiviso. Questo ovviamente non accade con tutti i personaggi, ma solo con quelli che ti hanno dato  qualcosa.

Quale personaggio ti è stato più amico?

Il personaggio che a me ha dato di più come essere umano si chiama Vincenzo ed è il protagonista dello spettacolo teatrale “La rivincita” di Michele Santeramo,  da cui poi è stato tratto il romanzo. Vincenzo è  un puro che,  per una serie di circostanze,  ne passa di tutti i colori nella vita, ma riesce a mantenere una sua dignità  ed una sua forma di resilienza che gli permette di andare avanti. Ricordo, in particolar modo, un momento bellissimo durante l’incontro con il pubblico, subito dopo una replica,  al Teatro Tatà, a Taranto. Parte dei problemi di questo personaggio derivavano dell’avvelenamento che aveva subito a causa dei pesticidi, perché faceva il contadino. I temi dello spettacolo toccavano  tematiche contingenti alla questione dell’Ilva – peraltro il  Tatà è un teatro che sorge proprio sotto le ciminiere dell’Ilva – e nel confronto con il pubblico abbiamo affrontato anche i problemi della città e della gente che vive lì. È  stato un momento molto significativo per me,  perché si è ricollegato molto alla mia storia personale. Mia nonna abitava in via Grazia Deledda,  quindi proprio di fronte all’Italsider,  ed ho avuto la percezione  netta che il personaggio di  Vincenzo  fossi io   ed  anche quello che  vorrei essere,  il riscatto che vorrei raggiungere, riuscendo a fare lo stesso tipo di lavoro interiore e lo stesso tipo di percorso psicologico. Credo che quello sia il personaggio che mi è rimasto più amico.

  1. Quindi nel teatro si è attori o anime nude?

L’attore è un’anima nuda. L’attore, diceva Artaud, è un atleta del cuore. È un cuore cheMIK3 si muove, che si tende al massimo, che non può avere barriere, difese, esposto ad una continua sollecitazione emotiva. È necessaria una grande forza d’animo perché, spesso e volentieri, le cose che fai ti provocano dolore oppure, banalmente,  non riesci a farle. Non sempre riesci a fare quello che gli altri ti chiedono e credono che tu possa fare e questo significa essere esposti sempre alla possibilità di un fallimento. In realtà non riesci mai a raggiungere la pienezza neanche durante una replica, perché dentro di te hai delle idee più grandi di quello che potresti fare rispetto a quello che concretamente fai.

  1. Se interpretassi te stesso sul palco, voltandoti verso la platea, cosa diresti? Cosa direbbe Michele Cipriani se interpretasse se stesso?

Non so quanto potrebbe essere interessante questo personaggio, ma delle cose da dire le avrebbe. Però, quando ti concentri troppo e pensi di dover dire delle cose interessanti, probabilmente finisci anche per essere banale. Forse proverei semplicemente a raccontare la mia storia, cercando  di coinvolgere il pubblico senza preoccuparmi troppo di quello che potrei dire. Penso che sia giusto così e che tutti i grandi personaggi ragionavano in questo modo. Voglio pensare che Amleto,  quando si chiede se convenga  essere o non essere,  lo faccia per una sua riflessione personale e tutta la discussione  che si crea intorno a questo dilemma,  poi,  sia sorta solo perché lo spettatore che guarda, si  sente interrogato da quel dubbio. Sarebbe interessante chiedersi se Amleto quella  domanda se la fa per sollecitare degli interrogativi in qualcuno o se la fa semplicemente perché se la fa. In effetti, se ci pensi, credo che sia molto più probabile che sia così.  C’è lui in quella  stanza che si chiede, come tutti: “Ma io che cosa campo a fare?” E tutto quello che ne consegue deriva semplicemente dal fatto che quella questione è così umana! Lo pensiamo tutti! Ed è dirompente proprio per questo:  perché lo proviamo tutti. È un’esperienza dell’anima. Ecco, se interpretassi me stesso sul palco direi:

“Guardatemi così come sono. Così come sono”.

                                                                                            Gabriella Grande

Michele Cipriani si è diplomato alla Civica Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano nel 2000.Tra gli spettacoli in cui ha lavorato ricordiamo: Hedda Gabler (Teatrino Clandestino. Regia di Pietro Babina), La Bottega del caffè (Teatro Filodrammatici. Regia di Paolo Giorgio), La Rivincita (Teatro Minimo. Regia di Leo Muscato), Alla Luce (Pontedera Teatro.Regia di Roberto Bacci), Lear (Pontedera Teatro. Regia di Roberto Bacci). Dal 2009 collabora con il Teatro Kismet di Bari con cui ha messo in scena gli spettacoli: Il Malato Immaginario, Il Paradosso del Poliziotto, Vite Spezzate. È cofondatore, insieme all’attrice Arianna Gambaccini, della compagnia KilkoaTeatro.

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