GIULIO DE MITRI. “Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento” (Catalogo, Crac, 2019)

di Gabriella Grande

Sere fa, nella frenesia dei saluti e nella gioia degli sguardi, sono stata arricchita del regalo inaspettato di un libro, entrato, con emozione, poi, a far subito parte del mio giardino di nutrimento e riparo: il Catalogo del Maestro tarantino Giulio De Mitri, Presidente del CRAC Puglia di Taranto (“Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento”, Crac, 2019), che raccoglie testimonianza fotografica e bozzetti di due sue installazioni ambientali, del 2019, presentate in occasione della III edizione del MAS WEEK 2019, Festival di Architettura, Design e Arte:
“UNO SGUARDO ACCESSIBILE”, realizzata, con rigore tecnico, nel Borgo Nuovo, nelle tre vasche della Concattedrale Gran Madre di Dio e “RICONGIUNGIMENTO”, progettata, invece, nel Porto di Taranto, alle due estremità dei Moli di Sant’Eligio e di San Cataldo.

Purtroppo, non ho avuto occasione di visitare queste due installazioni nel periodo della loro fruizione pubblica ed è, quindi, necessario premettere che per poter dire di conoscere un’opera è assolutamente imprescindibile “incontrarla” nella sua materia viva, nella sua irruzione allo sguardo, in quanto esiste una distanza incolmabile tra l’opera e la sua rappresentazione, sebbene il Catalogo del Maestro De Mitri offra un’accurata e dettagliata galleria fotografica delle installazioni a cui faccio riferimento. Nonostante ciò, mi permetto di parlarne, oggi, solo concettualmente, per esprimere, nel modo che più mi rappresenta, la mia gratitudine per la condivisione della testimonianza cartacea di un atto creativo pregevole e che, ancora oggi, a tre anni di distanza, ritengo possa suggerirci un “modo di stare al mondo” che solo i Poeti come Giulio De Mitri sanno fare.


L’uso sapiente che il Maestro De Mitri, in “Uno sguardo accessibile”, ha fatto della luce monocroma blu, proiettata da 36 fari sulle tre vasche della Concattedrale, le ha permesso di diventare, infatti, materia poetica, accendendo di vitalità autonoma i 36 quadrati specchianti in pvc, di 50×50 cm, con i loro effetti cangianti e mutevoli, poggiati su basi di terracotta nelle tre vasche. Colpiti dalla luce azzurra, in dissolvenza, con le sue infinite potenziali mutazioni in successione, hanno reso possibile l’ interazione con il fruitore e le sue plurime risposte percettive ed hanno definito, nello spazio disegnato da Gio Ponti, un ulteriore spazio di animazione di comunicazione poetica, la sola a portare la forma di un’azione capace, nel medesimo tempo, di captare e mandare segnali ad altissimo contenuto sensoriale in una sequenza di riti di passaggio che sembrano testimoniare come quel che di oggettivo incontriamo, ci colpisce, individualmente, sempre in modo soggettivo e De Mitri, in questa installazione, fa di questa pluralità di attraversamenti un’identità che mi ricorda “Autoritratto” di Luigi Ghirri (Parigi, 1976).
Il messaggio essenziale, a mio parere, sia a livello di metodologia adottata che di essenza poetica, racconta che non dovremmo mai dimenticare, inoltre, che le espressioni individuali germinano da un sostrato di natura e di vissuto, come di storia e di memoria e, partendo da questo presupposto essenziale e ricalcando pienamente, a mio parere, il concetto di Arte dichiarato da Deleuze intesa come “captazione di forze”, l’installazione di De Mitri suggerisce quanto sia ancora possibile per questa Città andare incontro all’espressione della sua identità più piena se si accetta di fare esperienza della soglia non prevista. L’area dei quadrati non trattiene un limite, ma, con la sua superficie riflettente, si impone a guida del nostro sguardo in direzioni diverse da quelle che avremmo seguito spontaneamente. Rappresentano la soglia per andare verso qualcosa, la linea di passaggio verso un diverso “sguardo accessibile” sulle possibilità inespresse, ma rivelabili.
L’utilizzo della sola luce blu, questa scelta della monocromia che si offre ai quadrati specchianti, disposti come totem su cui il colore diventa forma in continuo mutamento, in giochi percettivi sempre diversi, mi rimanda a Yves Klein, il quale affermava che il colore blu fosse differente da tutti gli altri colori perché privo di dimensione, e collocabile, quindi, al di fuori del tempo e dello spazio, collocabile dunque in una diversa dimensione, forse proprio quella della possibilità, nascosta eppure suggerita da De Mitri, di un necessario e salvifico cambio di prospettiva, di un’apertura ad un diverso punto di vista sulle cose.
Le superfici specchianti che riproducono, ad ogni variazione d’angolo, immagini sfocate dell’ambiente circostante, del passaggio degli autoveicoli e dei bus e dello stesso fruitore, non solo restituiscono la complessità e l’ambiguità di quel che si vede e si vive, ma predispongono ad accogliere una gamma di risposte possibili non più lineari come quelle dell’occhio umano, facendo luce su quanto sia importante sfuocarsi, lasciare che i contorni, delle cose come delle posizioni, tremino.

È grande il mio rammarico per aver perso la possibilità di incontrare e di interagire con questa installazione, che tuttavia riesco ad attraversare, oggi, tra le pagine del catalogo, e che sento di definire “l’ora blu”, “l’ora costante” di Ungaretti che sa accendere la notte del pensiero stagnante.

Proprio come avviene nella seconda installazione: RICONGIUNGIMENTO, realizzata al Porto di Taranto, alle due estremità dei moli di Sant’Eligio e di San Cataldo, in cui lo spazio tra cielo e mare diventa una tela su cui ciò che De Mitri disegna mi fa ripensare ai versi di Roberto Mussapi: “una fibra di luce incapace di scindersi, / la nostra origine inglobata in un abbraccio” (Roberto Mussapi,”Le poesie” Ed. Ponte alle Grazie, Milano 2014).
La geometria tracciata dalla proiezione di coni di due fasci di energia luminosa di colore blu definiscono un contorno immateriale capace di ricreare, anche qui, uno spazio nello spazio, la cui immagine si forma e si rivela nel buio, a sottolineare come ci sia una realtá ulteriore a quella visibile e percepibile. I due fasci di luce disegnano un triangolo equilatero che, nel significato simbolico che associa le figure geometriche ai 4 elementi, rappresenta la terra. In questo caso, terra in cui prende forma il punto di equilibrio tra il mondo interno e quello esterno, tra ciò che è rappresentato e ciò che, invece, è lasciato fuori dalla rappresentazione ma che, nonostante tutto, esiste. È, a mio parere, la terra del ricongiungimento delle soglie possibili, quella percepita e quella a cui si deve tendere per andare verso il cambiamento, verso quell’alternativa che De Mitri “caparbiamente rivendica: il diritto e il dovere dell’arte e della cultura di farsi testimonianza attiva per la ricerca di nuovi equilibri di cui, partendo proprio dal suo stratificato passato, il Sud può divenire l’Avamposto (Catalogo “Uno sguardo accessibile. Ricongiungimento”, Giulio De Mitri, Crac, 2019, pag.13).

BIOGRAFIA di GIULIO DE MITRI

Giulio De Mitri è nato a Taranto. Presidente del CRAC Puglia di Taranto (Centro Ricerca Arte Contemporanea). Ha compiuto studi umanistici ed artistici (Accademia di Belle Arti e Università). È professore ordinario di prima fascia in Tecniche e tecnologie delle arti visive contemporanee all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Impegnato da anni in una ricerca sulla storia e sull’immaginario della cultura mediterranea, protagonista italiano nella creazione di installazioni luminose. Ha sempre lavorato su progetti in grado di generare estremo coinvolgimento emotivo e spirituale nel fruitore, manifestando una sensibilità e una leggerezza che spesso l’arte contemporanea ignora. Ha esposto in mostre personali, collettive e di gruppo ed è stato invitato a numerose rassegne in Italia e all’estero, tra le più recenti si segnala: Mediterranean dream, Pinacoteca Provinciale, Salerno; La seduzione del monocromo, Museo Civico dei Bretti e degli Enotri, Cosenza; Esperidi, Studio d’arte contemporanea “Pino Casagrande”, Roma; Biennali di Venezia LIV e LII per gli eventi: Sguardo contemporaneo, Palazzo Bianchi Michiel del Brusà e Padiglione Italia; J. Beuys. 
Difesa della natura, Thetis, Arsenale Novissimo; XV Quadriennale, Roma; 20 artisti per i 150° dell’Unità d’Italia, Palazzo Reale, Torino; Intramoenia Extra Art (a cura di A. Bonito Oliva e G. Caroppo), Castelli di Puglia; La luce come corpo, Galleria Peccolo, Livorno; XV e XIV Biennale d’Arte Sacra Contemporanea, Museo Stauros d’Arte Sacra Contemporanea, San Gabriele, Isola del Gran Sasso (Teramo); Videoart Yearbook 2007 e 2006, Bologna; Environmental Art Festival Lakonia: arthumanature topos 2007, Sparta, Sellasia e Geraki (Grecia). Dell’ampia bibliografia si segnalano le pubblicazioni più recenti: P. Aita, Accanto al meno, un ipotesi nell’arte contemporanea, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ), 2013; G. Gellini, Temporary Installations /Light Art in Italy 2012, Maggioli Editore, 2013; G. DeMitri / Oltre nella luce, (con testi di P. Aita, R. Barilli, G. Bonomi, V. Dehò, A. Iori C. Spadoni), Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2012; Giulio De Mitri / Il grandemare, Libro d’artista, Edizioni Peccolo, Livorno, 2012; B. Corà, Giulio De Mitri / La luce come corpo (con testi di R. Branà, L. Canova, B. Corà, L. P. Finizio, B. Tosi), Edizioni Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; T. Coltellaro, Fatti d’Arte, un percorso nel contemporaneo tra arte, società e territorio, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2010. 

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NOSTALGIA (2022) Regia di Mario Martone

di Gabriella Grande©

“’[…] Come l’esistenza/ che non matura – resta sempre acerba,/ di splendido giorno in splendido giorno – io non posso che restare fedele/ alla stupenda monotonia del mistero./ […] Pari, sempre pari con l’inespresso/all’origine di quello che io sono” (Pier Paolo Pasolini).

Ed è il tentativo di recupero dell’origine e l’attraversamento della sua ferita a trattenere, in una Napoli evanescente e contraddittoria, Felice Lasco, il protagonista del travolgente lungometraggio presentato in concorso al Festival del Cinema di Cannes, anche dopo la morte della madre che aveva sempre rifiutato di raggiungerlo all’estero e a cui si è potuto riunire, per assisterla, solo negli ultimi momenti della sua vita.
Il tempo e lo spazio, che separano ció che lui è ed ha nel presente (una avviata carriera da imprenditore, una moglie, interpretata dalla raffinata Sofia Essaïdi, innamorata e rispettosa dei suoi spazi e dei suoi tempi interiori ed un futuro medio-orientale luminoso), dall’adolescente che era stato, sottratto alla dissolutezza, si aggrumano e la nostalgia si contrappone alle attese, alle aspettative sul futuro ed emerge, fondamentale, a tentare di rendere decifrabile la storia identitaria di Felice, mutilata dalla perdita forzata dell’adolescenza che ha fatto seguito ad un evento violento e drammatico condiviso con l’amico fraterno Oreste Spasiano (interpretato da un convincente e ombroso Tommaso Ragno).
Di nostalgia si può vivere, ma si può anche morire, quando porta il protagonista del film a trattenere una certa distanza dalla realtà e a farlo restare fermo in un giorno assoluto in cui si orienta l’unico “tempo vero”, un “ventre materno”, una sorta di madre “ambiente” che – Felice ne è certo – sarà in grado di accoglierlo con un amore incondizionato, rispondendo alla sua esigenza di riparazione della frammentazione subita, e da cui poter essere anche attaccato, ma senza esserne distrutto. Un “tempo vero” che Felice si illude di poter riattraversare con una vecchia Gilera 125, alla ricerca di una ripetizione impossibile, ma che resta, invece, tempo parallelo al suo, non più abitabile, perché definitivamente perduto, come la madre.
La potente opera di Mario Martone (adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Ermanno Rea, Edizioni Feltrinelli, 2016), si apre con una citazione di Pier Paolo Pasolini tratta da “Poesie in forma di rosa”: “La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso, non possiede”. E, come l’Edipo pasoliniano, Felice sembra credere che la vita debba continuare e finire dove comincia, in un grembo-luogo di identificazione.

Così come luogo di identificazione e non solo mezzo di comunicazione diventa il linguaggio per il protagonista. Vissuto quarant’anni all’estero, catapultato, a quindici anni, in una realtà in cui non conosceva la lingua del Paese e la sua lingua Madre (l’italiano) non era più sufficiente per farsi comprendere, è stato segnato dall’essere un emigrato, e non solo a livello linguistico. Massimo Vedovelli (filosofo e linguista) traccia molto chiaramente questa condizione dell’emigrato, in cui ”tutto gli sembra parziale; tutto gli appare come segnato da linee di confine che invece di indicargli i territori nella loro identità, confondono e mescolano, nascondendo al migrante la ricerca della propria identità”.
L’italiano di Felice, al suo arrivo a Napoli, è stentato e ricco di interferenze linguistiche e le sue abitudini fortemente legate alla religione musulmana (non beve alcool e fa precedere la preghiera dall’abluzione purificatoria).

Man mano che costruisce il suo progetto di restare nella sua città d’origine, ritrova la propria identità e si riappropria della lingua Madre e finanche del suo idioma musicale. Solo allora, vediamo uno straordinario Favino (vincitore del meritatissimo Nastro d’Argento*) liberarsi in una coinvolgente danza orientale condivisa con i “ragazzi” di don Luigi Rega nel cortile della Chiesa di Santa Maria della Sanità, che diventa espressione di un sé ritornato integro e, per questo, dinamico.
Il desiderio di rivedere l’amico Oreste (nonostante la consapevolezza chiara di ciò che è diventato: ‘O Malommo, boss spietato, capo di bande criminali, di ricetattori e di prostitute) è, in realtà, desiderio orientato verso ciò che resta a testimoniare la perdita, perché è possibile elaborare ciò che è perduto, solo se quel che si è perso non è parte della nostra forma identitaria. La nostalgia di Felice è un desiderio di vedersi tornare in un “luogo” che resta dove tutto è stato perso e che, nonostante tutto, continua a parlargli.
Per questo, sono accoglienti e consolatorie le presenze di don Luigi Rega (il parroco della Chiesa Santa Maria della Sanità che recupera e sostiene i giovani a rischio), di Adele (la giovane storica dell’Arte che lo accompagna nell’attraversamento della Napoli sotterranea, tra catacombe e ipogei) e di Domenico, vecchio amico e innamorato della madre di Felice con cui, in diversi momenti del film, delimita e attraversa il non-luogo dell’assenza del padre.

Ma questi 3 personaggi, nonostante siano animati, nei confronti del protagonista, da un profondo desiderio di accoglimento e di recupero ad un metro dal baratro, riescono ad intercettare solo la dimensione visiva e cinestesica di Felice; i suoi luoghi interiori ne vengono solo sfiorati, come i vicoli di Napoli, percorsi sempre troppo in fretta.
La lezione dello psichiatra e umanista Starobinsky, forse, avrebbe aiutato a non consentire alla nostalgia di infliggere la ferita mortale, se si fosse interrogato lo snodo cruciale del passato per illuminare il presente e per cercare un punto di coerenza interna, perché, in fondo, anche questi 3 personaggi positivi non fanno che ripetere lo stesso errore commesso, a fin di bene, dallo zio di Felice, che, quarant’anni prima, nel tentativo di salvarlo, lo aveva costretto alla fuga in Libano e ad un forzato reset, senza alcuna elaborazione dell’accaduto, per rimanere poi a lavorare tra Cairo e Africa fino al suo ritorno a Napoli per assistere la madre morente.
Don Luigi, Adele, Domenico e finanche Oreste, ‘O Malommo, gli chiedono di andare via per sempre da Napoli, di “scomparire”, di operare ancora una volta una frammentazione, un nuovo reset rispetto al passato, rispetto a quell’evento drammatico dopo il quale, per un lungo periodo, Felice racconta di non aver più parlato, di non essersi più fatto ascoltare e di non essersi più ascoltato, di non essersi più “sentito”. Gli si chiede di nuovo e ancora di non “sentirsi”, di non “ascoltarsi”.
Il filosofo Agamben sostiene:” Diffidate tanto nella vita privata quanto nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro […] Solo un’indagine archeologica sul passato può permetterci di accedere al presente”.
Il nostro presente, come il nostro futuro, devono poter trovare un legame con la nostra storia interiore, altrimenti la nostalgia rapirà l’anima indietro, ma per divorarla, non per “ristorarla alla fonte”, come, invece, sostiene il filosofo Galimberti, consentendole l’elaborazione che è alla base della scelta di guardare avanti.
Felice, invece, sceglie di abitare il tempo delle corse sulla moto Gilera 125, delle ubriacature, dei tuffi nel Mare di Napoli, sceglie di acquistare una vecchia casa da abitare con la moglie, dopo averla restaurata come crede di poter fare con il tempo, fermo ad una fase arcaica sempre giovane e senza giorni, acquisendone come “religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta” (Pier Paolo Pasolini).
Ma il passato, come il grembo materno, ha un tempo di accoglimento vitale, superato il quale diventa pericoloso cercare ancora, nostalgicamente, nutrimento nelle sue buie viscere e il futuro deve voler trovare altri luoghi da abitare come uteri generanti o come qualcosa che gli assomigli.

*Nastro d’ Argento per migliore attore protagonista, migliori attori non protagonisti, migliore regia, migliore sceneggiatura

AURELIO AMENDOLA. “Un’antologia. Michelangelo, Burri, Warhol e gli altri”

Celebra 60 anni di carriera del Maestro della fotografia Aurelio Amendola, la Mostra antologica a cura di Paola Goretti e Marco Meneguzzi, visitabile nelle sale del Castello Svevo di Bari fino al 25 giugno 2022.

Un allestimento che si attraversa in punta di piedi, raccolti in se stessi come in poche Cattedrali in cui la Bellezza è più forte della voce dello stupore.

Potrei anticiparvi che incontrerete straordinari ritratti d’artista, immersive foto di architettura e della più grande opera di Land Art esistente al mondo (il Grande Cretto di Ghibellina di Alberto Burri), originali punti di vista di sculture del Rinascimento italiano (che Amendola disegna con la luce come Van Gogh racconta, in una lettera al fratello Theo, di fare con i tronchi dei salici: lavorandoci “finché non c’è dentro un po’ di vita”), incursioni nell’Arte Contemporanea e nel bianco e nero del Maestro Amendola che si traduce in un vero e proprio atto creativo.

Potrei preannunciarvi i suoi happenings e la potenza con cui, tra gli altri, documentano Alberto Burri che, nel suo studio di Città di Castello, attraversa l’obiettivo con la ferita della combustione, Claudio Parmiggiani che crea e si sottomette alla scheggia e ai frantumi del suo labirinto di cristallo, Mario Ceroli (che Achille Bonito Oliva chiama “l’archi-scultore”), le cui grandi ali di farfalla, intagliate in legno in un’alternanza di pieni e di vuoti, sembrano legare, con un respiro, empirico e trascendente.

Potrei… Ma non racconterei comunque nulla dell’esperienza che farete davanti ad ogni singola fotografia, che diventa essa stessa “corpo”, ridefinendo il significato comune della fotografia.

È alterità radicale che supera il margine tra simbolico e reale che fa, generalmente, da scudo tra l’osservatore e l’oggetto o il soggetto rappresentato. Ad ogni scatto, ritroverete amiche le parole che Lacan scrisse nel Seminario VII: “Mi è estraneo, eppure al centro di me”.

Gabriella Grande