BANSKY. REALISMO CAPITALISTA

di Gabriella Grande

L’intento dell’arte è che sia “collante tra il presente dell’opera e il futuro delle sue reazioni”, “la via possibile di una nuova coscienza civile per aprire lo sguardo e accendere la fiamma del giudizio critico 1, per questo ha sempre senso allestire una Mostra sullo street artist Bansky e, in particolar modo, ne ha quando la progettazione e l’ideazione dell’allestimento è eccellente come in questo caso.

È molto più di un benvenuto quello che troverete ad accogliervi nel lavoro Welcome, multiplo in edizione limitata proveniente da una collezione privata (uno zerbino su cui è stata cucita la scritta che dà il titolo al lavoro, utilizzando il tessuto di giubbotti di salvataggio abbandonati sulle spiagge del Mar Mediterraneo), all’ingresso della Mostra su Bansky, in esposizione a Bari, nello spazio polifunzionale del Teatro Margherita fino al 12 giugno 2022, curata magistralmente da Stefano Antonelli e Gianluca Marziani. È, piuttosto, la scelta di predisporre il fruitore ad un potente atto di comunicazione che ha inizio con un’offerta che chiama subito alla responsabilità.

Welcome apre le porte dell’universo banskyano, offrendo la singolare occasione di acquisire un collettivo giubbotto di salvataggio per attraversare la realtà e le leggi di potere che la dominano, a cui, in più ambiti, si soccombe quasi inconsapevolmente, come sembrano ricordare le cuciture che legano il giubbotto di salvataggio al tessuto di una terra che si proclama accogliente e salvifica, ma che, nel concreto, imprigiona e rischia di far annegare il pensiero critico. È quanto suggerisce, a più riprese, la scelta delle “opere” con cui è stato allestito il primo modulo della Mostra.

Ma chi è a dirci questo? Si possono avanzare solo ipotesi sull’identità di Bansky.

Antonelli e Marziani, nel pannello introduttivo, paragonano Bansky ad “un fantasma” e le sue opere a delle “tracce”.

Se si conoscesse la sua identità, si potrebbe forse arrivare anche a comprendere le motivazioni personali della sua espressione artistica. Rimanendo un’incognita, invece, le sue motivazioni più profonde restano al di fuori di tale comprensione e la sua unicità, in quanto individuo, conserva uno spazio etico non rappresentabile e quindi non violato. Probabilmente, è questo il primo messaggio che Bansky vuole esprimere con la sua scelta. Diane Perpich afferma che “il volto dell’altro è l’immagine dell’alterità assoluta e della singolarità non rappresentabile”. Bansky sceglie, quindi, di non essere rappresentabile, difendendo in modo radicale il valore della singolarità e lanciando così un primo elemento di sfida: una comprensione profonda condivisa della singolarità è possibile? Bansky non confeziona risposte, ma privilegia la domanda ed è per questo che alla sua sfida risponde con un ulteriore domanda a cui ci inchioda, lungo il percorso della Mostra, davanti a CND Soldiers (serigrafia su carta proveniente da una collezione privata, riproduzione di uno stencil realizzato da Bansky nei pressi del Parlamento britannico nel 2003 e rapidamente rimosso dalle autorità), due soldati che temono di essere scoperti mentre disegnano il simbolo della pace su un muro. Ci strappano istintivamente un sorriso che, però, presto diventa amaro nel constatare come l’apparente incompiutezza del gesto sia, in realtà, la mutilazione di un desiderio rivelatore, nella rappresentazione, del modo in cui opera il potere mediante la presentazione dei fatti in ogni contesto, senza escludere nemmeno quello familiare.  La serigrafia su carta Jack and Jill (collezione privata), in cui due bambini saltellano giocosi in una pozzanghera d’acqua, indossando giubbotti antiproiettile con la scritta “Police”), denuncia, infatti, il pericolo di considerare i figli (il futuro) un’estensione delle proprie categorie, dei propri punti di vista, dei propri bisogni, del personale modo di percepire la realtà e chiama alla responsabilità di non imprigionare l’altro fino a renderlo qualcosa di controllabile, annientandone le possibilità, come si impegnano a fare alcuni genitori “disposti a fare qualsiasi cosa per i loro figli, tranne lasciarli essere se stessi” (come sottolinea Bansky con estrema schiettezza, nel suo libro “Wall and piece”), o come ci riconosciamo a fare noi quando crediamo superficialmente di conoscere quale sia il bene per l’altro senza averne chiesto il parere. Accade nella vita privata, come nella politica e nella religione. Bansky ci chiede di muoverci oltre ciò che crediamo di conoscere e di accettare la sfida di sanare il conflitto tra etica e conoscenza che, utilizzando dei modelli, è, spesso, pericolosamente applicabile.

A questo punto del percorso di presa di consapevolezza a cui si è accompagnati nella Mostra, a mio parere, l’intervento dei curatori offre, in modo straordinariamente efficace eppure non invasivo, una fondamentale chiave di lettura del messaggio banskyano, scegliendo di esporre un’opera di Brad Downey dal titolo Flying Copper,  risultato della “riconfigurazione” di alcuni dei classici stencil e dei tre grandi Flying Copper sormontati dalla scritta “Every picture tells a lie” che Bansky aveva realizzato, diversi anni prima, nella stessa sala (della Mostra di Bethanien del 2003),  in cui viene affidato un progetto a  Downey che, trovando le opere ancora lì, sepolte da uno strato di pittura rossa, decide di ridurle in frammenti e riconfigurare un nuovo, gigantesco Flying Copper.

La scelta di far “incontrare” il fruitore con l’opera di Downey verso la metà del percorso della Mostra su Bansky sembra avere lo scopo di sottolineare come la sola presa di consapevolezza (necessaria per modificare certi automatismi) sia solo l’inizio di un percorso che deve condurre al cambiamento. La consapevolezza può essere bloccata, offuscata, come è accaduto alle opere di Bansky in mostra a Bethanien, seppellite sotto uno strato di pittura rossa. Il cambiamento, che parte dalla consapevolezza, richiede poi l’azione, una distruzione creatrice che comprende, quindi, un doppio gesto: un atto distruttivo, o più precisamente decostruttivo (la rottura profonda e permanente della struttura di uno schema) e poi creativo (una diversa risposta allo stimolo, nuova e ribelle).

Quanto ne siamo consapevoli? Bansky lo chiede dando voce ai topi e alle scimmie (che diventano elementi figurativi paladini “di sentimenti di purezza e di integrità morale”), che sembrano rivolgersi ad una società di “cavie” minacciata da un capitalismo assoluto e quindi disperato a cui è asservita fino ad appiattire il desiderio al godimento dell’oggetto che dissolve ogni tipo di legame, finanche con il divino (come in Sale ends today, serigrafia su carta proveniente da collezione privata con la particolarità di non essere mai stata oggetto di esposizione pubblica non commissionata, ma apparsa per la prima volta sottoforma di serigrafia) e con la verità, come in Bomb love (serigrafia su carta proveniente da collezione privata) in cui il contesto storico corrompe l’innocenza e può farlo fino ad ammalarla, mentre dovrebbe nutrirla (come nella serigrafia su carta Virgin Mary – Toxic Mary e nel murales del bimbo che gioca con la neve-cenere, realizzato nella zona di Taibach a Port Talbot nel Galles (classificata come una delle aree urbane più inquinate della nazione) e raccontato nei contenuti video con cui è stata arricchita la Mostra.

Personalmente, è proprio nella distruzione creatrice che rinvengo il fil rouge della Mostra. Aprendosi con il lavoro Welcome (la cui creazione ha partenza nella distruzione e riorganizzazione di un giubbotto di salvataggio), trova il perno nell’opera “Flying Cooper” di Downey e termina con la serigrafia “Girl with Balloon”, (la cui ispirazione sembrerebbe provenire da “Il palloncino rosso”, un cortometraggio di Albert Lamorisse del 1966 e dipinta per la prima volta con la tecnica dello stencil, in forma non commissionata, su un muro al lato di un ponte della zona di Southbank, a Londra, nel 2004). Durante l’asta di Sotheby’s a Londra, il 5 ottobre 2018, dopo essere stata venduta per una cifra superiore al milione di sterline, “Girl with Balloon” si è autodistrutta, mediante un meccanismo di tritadocumenti inserito nel telaio. Metà del quadro è stato tagliato in decine di strisce, acquisendo un valore addirittura superiore a quello dell’opera integra.

Questo ulteriore incremento del valore dell’opera a seguito della sua parziale “distruzione”, credo avvalori, inoltre, nel suo aspetto performativo, anche la forza e il potere del processo di distruzione creatrice proprio dei sistemi capitalistici, di cui fu pioniere l’economista J. A. Schumpeter, che costituisce un meccanismo di rinnovamento interno al sistema economico. Mi permetto di ritenere che,  al di là della spiegazione del gesto fornita dallo stesso Artista in un video, Bansky abbia voluto dimostrare quanto si è sudditi del potere capitalista e dei suoi processi e, per farlo, ha scelto un’opera (la stessa con cui i curatori hanno pensato di chiudere il percorso della Mostra), che racconta (in contraddizione con il testo che accompagna l’immagine “C’è sempre una speranza”),  “una vitalità disperata”, per dirla con il titolo di una poesia di Pasolini, che rimane senza la sponda di un sogno (il palloncino strappato alla bimba dal vento) quando comprende che  “la morte non è/ nel non poter comunicare/ma nel non poter più essere compresi2 dall’uomo che sfrutta l’uomo.

“Non possiamo fare nulla per cambiare il mondo finché il capitalismo non crolla”

È il muro delle parole dello street artist con cui ci si scontra, scostate le tende blu del Teatro Margherita all’uscita, per poi perdersi nella sua stessa contraddizione che è, prima di tutto quella della nostra società, sempre più liquida:

“Nel frattempo ,dovremmo andare tutti a fare acquisti per consolarci”n

È il PARADOSSO quello con cui l’Artista ci congeda, ma per fermarci dall’istintiva fuga dalla consapevolezza che si è accesa nel percorso, perché “nessuna fuga ci darà il futuro”.3

Bansky!

Note bibliografiche:

1 tratto dal Catalogo della Mostra: Bansky. L’artista che si è fatto fantasma. Edizione illustrata. G. Marziani, S. Antonelli, 2022

2 “Una disperata vitalità” tratta da “Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, 1964

3 F. Scarabicchi, “La figlia che non piange“, Giulio Einaudi Editore, 2021

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IL GESTO FOTOGRAFICO DI CARMINE LA FRATTA, TESTIMONE DI UNA VOLONTÀ CHE CHIEDE DI RESISTERE

La fotografia è guerriera quando attraversa il nostro tempo senza giustificarlo, diventando testimonianza di un cambiamento profondamente umano, raccontato nella poetica della forma.

A distanza di alcuni giorni dai festeggiamenti del Santo Patrono della città di Taranto, si vestono di ulteriore potenza espressiva gli scatti del fotografo tarantino Carmine La Fratta che raccontano come la volontà abbia subìto un contagio collettivo e la dimensione dello spirituale stia cedendo lo spazio interiore sacro, da difendere saldamente, ad un intervallo sempre più precario, in rapida evaporazione cosciente.

Ph Carmine La Fratta

Il primo scatto condensa il volto di una città che le difficoltà e i sacrifici hanno mortificato e complessificato. La luce calda dei lampioni, allineata con cura con la fila delle candele, prima accese, poi spente e infine di nuovo accese, in un’alternanza che rimanda a quella della luce semaforica, in quello snodo di Corso Vittorio Emanuele II in cui il segnale stradale pedonale raffigura un uomo con il volto coperto da un adesivo, è la sintesi di uno stato d’animo che si manifesta in questo istante di collettiva “distrazione”. Nessuno sguardo verso il Santo, nessuna ferma volontà di accogliere il momento nella sua potenza emotiva ed anche il selfie lo si preferisce da un’angolazione che difficilmente catturerà il Patrono e il senso di quello che si sta vivendo. Dritta e fiera davanti al passaggio di un’icona, che dovrebbe costruire un anello tra il trascendente e il reale, c’è solo una palma perché la Natura quell’atto di volontà di far “resistere” la Bellezza lo compie ogni giorno, in silenzio.

Ph Carmine La Fratta

Anche il suo secondo scatto sembra raccontare la stessa ricerca dell’uomo di un tangibile che riesca a scuotere una volontà troppo minata dall’insoddisfazione, da un reale che celebra un rito che pare non essere sempre in grado di dare risposte. Zaccheo salì sull’albero per vedere il passaggio di Gesù nella città di Gerico (come ci racconta Luca nel suo Vangelo). L’uomo che La Fratta ha immortalato nel suo scatto è il contemporaneo Zaccheo che, nella spettacolarizzazione del gesto, esprime l’estremo tentativo del desiderio di restare vivo. Desiderio significa letteralmente “mancanza di stelle”. L’opera fotografica di La Fratta sembra ricordarci che dobbiamo riscoprire il modo di “trovare le stelle”, perché una società che si allontana dalla legge del suo desiderio, si ammala e uccide la volontà.

Ph Carmine La Fratta

L’ultimo scatto ci incaglia come pesci nella rete dell’obiettivo, tra desiderio di trascendenza, che spinge incessantemente avanti, e la necessità a cui sottopone “l’animale che ci portiamo dentro” e che assoggetta il desiderio alle necessità del capitalismo. Il vicolo stretto e angusto della Città vecchia, che La Fratta ha scelto come cornice di questo racconto fotografico, è uno dei tanti rami in cui l’Imperatore bizantino Niceforo Foca fece organizzare la struttura urbanistica della città di Taranto, dopo la distruzione del 927 per mano dei Saraceni, per proteggere la città dagli attacchi di nuovi invasori, rallentando il passaggio nei vicoli che consentono, ancora oggi, l’attraversamento di una sola persona alla volta. Un vicolo che racconta, quindi, la volontà di resistere di un passato la cui eco ci “co-stringe” a non cedere alla renitenza alla leva della Volontà, e invita a diventare dei nuovi Philippe Petit (il funambolo delle Torri gemelle del World Trade Center di New York) in equilibrio sul quel filo della luce che, nell’opera fotografica di La Fratta, segna il confine tra conflitto e desiderio, e trasmette l’eredità del gesto dell’Arte che restituisce il senso della volontà di presenza attiva, perché niente cambia finché non ci lasciamo interrogare dal mistero delle cose a cui l’Arte sa dare forma e rappresentabilità.

Gabriella Grande

Carmine La Fratta vive a Taranto, punto di partenza della professione fotografica. Appassionatosi al teatro, collabora con compagnie e testate giornalistiche locali nel documentare il lavoro di preparazione degli spettacoli e foto di scena. Fin dai primi anni di lavoro, le sue immagini sono diventate un importante risorsa di archivio e testimonianze attraverso gli anni con mostre, pubblicazioni, copertine, manifesti. Nel periodo 1978/1981, lavora collaborando con l’ufficio pubbliche relazioni come fotografo industriale in seno alla Italsider di Taranto, documentando varie fasi di lavoro, produzione utili per pubblicazioni e divulgazioni tecniche, sempre per l’Italsider ha seguito eventi culturali collaborando con importanti artisti e scrittori, fra tutti Domenico PORZIO. Collabora con vari enti, tra cui l’ente Provincia di Taranto che gli consente di entrare in relazione con realtà legate al territorio. Segue il premio “Ori di Taranto”. Documenta a Tellaro (Liguria) momenti di vita dello scrittore e regista Mario SOLDATI. Vincitore del concorso “Vougue sposa” e del Premio colore di ClicCiak per le fotografie di scena del film “Il miracolo” del regista Edoardo Winspeare. Fotografo di scena per i film “Scilla non deve sapere” del regista Bruno Oliviero con Blasco. Direttore della fotografia del film “Marpiccolo” del regista Alessandro di Robilant. Delle sue foto sono state scelte dalla Puglia Commision Film per la mostra del Cinema di Venezia 2010. Fotografo nel pool ravvicinato della sala stampa della Santa Sede, ha seguito la visita a Taranto di Giovanni Paolo II. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive a carattere nazionale. Le sue foto sono presenti in istituzioni e collezioni pubbliche e private. Le recensioni sui suoi lavori sono presenti in varie pubblicazioni.
Pubblicazioni:
“Iconografia dei santi a Taranto” (Regione Puglia)
“Iconografia sacra a Taranto” (Regione Puglia)
“Iconografia dei santi a Manduria” (Regione Puglia)
“Ventuno anni dopo” (A&B editori)
“Passione Tarantina” (Edizione Archita Taranto)
“Giuseppe Rossetti Pittore” a cura di Silvano D’Uggento (edito da Banca Antonveneta)
“28 e 29 ottobre 1989…ho fotografato un santo” Pubblicazione con il patrocinio della Ambasciata Polacca in Vaticano (Caforio Editore)
“Settimana santa a Taranto “ (Edit@ Casa Editrice)