PRIMA DELLA VOCE di Paolo Parrini (Samuele editore, 2021)

Non so voi, ma quando io ho un libro di poesia tra le mani e il cuore, trattengo negli occhi il titolo per tutta la durata della prima lettura del testo, per cercare di agganciare con ago e filo invisibili le maglie della “rete” che tiene insieme tutte le parole e il senso, e quel filo diventa poi per me, nelle letture successive, l’impalcatura su cui lascio asciugare le parole che, in poesia, trasudano sempre mentre si “compiono”.

Ma, questa volta, il Poeta spiazza e il titolo diventa veicolo che trasporta il lettore verso una direzione che comprenderà solo alla fine di questo viaggio poetico che si compie in una “terra” tesa tra il titolo dell’opera e l’ultima poesia che, collocata strategicamente tra l’indice e il colophon (che chiude l’opera in ultima pagina), svela dove il cammino poetico approda temporaneamente, proprio dove ha avuto inizio, dove ha sempre inizio: prima della voce.

Il titolo trattiene l’essenza dell’opera e ne svela l’origine, aprendo al lettore una porta sulla “stanza segreta” dove tutto prende forma, su quel “non luogo” pre-verbale dal suono pieno, che non passa attraverso un contenuto semantico, ma attraverso un aspetto sensoriale che anticipa la nascita della parola poetica che è, di fatto, quell’esitazione prolungata tra suono e senso secondo la definizione a me tanto cara di Paul Valery.

Il poeta Parrini accompagna con grande maestria in un percorso circolare che ha approdo nel punto di inizio dove “l’emozione sale a cercare il fiore incolto” che sboccia dai semi di una percezione ancora informe, nuova o sovrapposta. E ricorda al lettore che, in poesia, si parte sempre “per tornare a casa”, facendo riecheggiare, in questa esperienza di circolarità del percorso poetico, nel ripetersi del ritorno dalla forma pre-verbale (punto di partenza della poesia) al linguaggio poietico, le parole di T.S. Elliott: “e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il luogo per la prima volta […] dove l’ultima terra da conoscere sia quella che era il principio”.

Parrini introduce il lettore ai suoi versi con la complicità della fotografia di Michela Goretti (che lavora sul piano dell’articolazione inconscia della realtà), dialogando con lo scatto dell’artista non solo in copertina, ma ritornando a intercettare la sua proposta di “luoghi dell’inconscio” anche nella seconda e nella terza di copertina, in cui si “compie” il senso dei primi versi parriniani che il lettore incontrerà in questo viaggio e con cui traduce le tappe del percorso trasformativo reso possibile dalla poesia.

Dal punto di vista simbolico-figurativo, lo specchio trattenuto tra le mani che, in copertina, riflette “la pace degli alberi” (raccontata dal primo verso a pag. 13) pur nel loro intricarsi, colloca il soggetto nel luogo della creatività, rappresentato dalle radici tanto vicine al corpo. La donna dallo sguardo ingabbiato nella seconda di copertina racconta “La terra (ovvero il somatico) che aspetta dietro un cancello stretto (rimandando all’impossibilità di rappresentare, all’incapacità di comprendere alcune sensazioni)” (p.13). La mente è imprigionata mentre la memoria del corpo è libera di sentire e di registrare il vissuto. La poesia ha il potere di liberare il sé corporeo (la mente più arcaica); ha il potere di liberare dalla gabbia della non rappresentabilità. Infine, l’immagine della donna che copre il volto con un mazzo di fiori trattenuto tra le mani in terza di copertina sussurra il verso: “sulla via camminata in mille ore/ il sunto d’un dolore/ poi il mandorlo fiorito là” (p.13). Da un punto di vista simbolico, i fiori (che sembrano avere radici nel corpo, nella memoria ancestrale del soggetto fotografato come del poeta) rappresentano il lavoro trasformativo della poesia proprio su quella “terra che aspetta”.

L’attesa, che ritorna più volte nella poesia del Parrini ha bisogno di essere nominata e riconosciuta, mentre “tutto si addormenta per poi svegliarsi ancora” (p.26) e racconta la “La resurrezione di ogni giorno” che non rappresenta solo un chiaro riferimento alla vita, ma alla poesia stessa intesa come processo trasformativo e di resurrezione che ri-conduce a sé, alla propria voce e all’incontro con l’altro attraverso la parola poetica, nella sua capacità di far risuonare nel presente le parole “e dire l’amore, prima del vento/ prima della sera.” (p.22)

Il codice condiviso della poesia e della fotografia nell’opera di Parrini traduce, nelle forme armoniose di voci polisemiche, il codice nascosto della parola poietica, ovvero di una parola capace non solo di dire, ma soprattutto di agire, su chi la riceve, ad un livello più profondo, perché la parola poetica è parola del risveglio della possibilità. Parola quindi che richiede, questa volta in maniera esplicita, un ascolto polisensoriale e, di conseguenza, un’efficace messa in comunicazione con l’altro che il Poeta non identifica solo come lettore passivo, ma come interlocutore necessario, come presenza cooperante.

Lo specchio trattenuto tra le mani ha bisogno di un’immagine da riflettere per dar senso alla funzione per cui esiste, la gabbia ha bisogno che un altro la apra perché se ne possa liberare il contenuto e i fiori hanno bisogno che ci sia qualcuno o qualcosa che se ne prenda cura per non appassire. I luoghi dell’inconscio raccontati da Michela Goretti hanno bisogno dell’altro, fondamentale per il compiersi, e per il dare forma a quanto esiste prima della voce. Quell’altro che Parrini chiama alla condivisione: “Alla mia sera aggiungi la tua/ al mio dolore il tuo.” (p.16) e che considera importante al punto da riproporre lo stesso verso in un’altra poesia, quattro pagine più avanti (p.20): “Alla mia sera aggiungi la tua”. ”Non siamo fatti di certezze” e, per questo, abbiamo bisogno di non perderci mentre “si scompone la sera” (p.20).

Se scuoti la tovaglia le briciole/ di pane ti indicano il cielo” (p.14) e il verso, tronco a metà pagina, diventa trampolino per le emozioni che (ci ricorda il Poeta), se liberate, nutrono lo spirito del tempo ed è questo nutrimento ad indicare il cielo inteso come crescita personale del poeta e del lettore, ovvero ad annullare il tetto della rimozione, lasciandoci sempre scoperti fino a “farsi raggio o crepa.”(p.52)

Sia benedetto questo spazio fatto altrove” (p.52) che è la poesia, il luogo della trasformazione, della possibilità, l’autunno lucido di pioggia che canta il Parrini nel verso che porto con me in questa vita che “ha troppi incagli e mura senza appigli.” (p.26):

Tra tutti i miei anni scelgo/ quest’autunno lucido di pioggia/ perché posso cambiarlo ancora,/ prima del buio.” (p.41)

Tutto è ancora possibile, prima del buio, prima della voce.

di Gabriella Grande

https://www.samueleeditore.it/prima-della-voce-paolo-parrini/

La mia ombra è fatta di pietre
scalcinate, il mio cielo
si perde stretto fra i tetti e le grondaie.
non ho il senso della pianta
alla finestra, m’hanno rubato
il sole appena nato.
E so il sale e il tempo
maturo dell’estate
scritto sui muri e le pareti antiche.
tra tutti i miei anni scelgo
quest’autunno lucido di pioggia
perché posso cambiarlo ancora,
prima del buio.

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