CON L’OPERA NON SI BARA. LA DIGNITÀ NELL’ARTE COME NELLA VITA

Conversazione con GIAN RUGGERO MANZONI

(poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer)

 

  1. Uno dei Suoi libri a me più cari è “Il dolore” 1. Ne ho attraversato le pagine come si attraversano le grandi cattedrali vuote nel tardo pomeriggio, in punta di piedi, per non interrompere il silenzio nel quale scorrevano le Sue parole e il Suo rapporto con la figura di Suo padre. E tutto questo è arrivato a me, lettore, come qualcosa di sacro, da maneggiare con cura. Che cosa è veramente  sacro per Lei?

In primo luogo la vita. Sì, la vita è sacra e, come compimento della vita, lo è anche la FOTO IN EVIDENZAmorte. Sono convintissimo che il grado di civiltà e di elevazione di un popolo lo si deduca dal suo modo di confrontarsi con la morte, con questo passaggio. Sacra è anche la poesia, la scrittura, sacra è l’opera per se stessa. Noi siamo chiamati a santificare la nostra vita, e in questa nostra esistenza c’è il lavoro, c’è l’opera che io vivo ed ho sempre vissuto come una dimensione sacra. Questo pensiero è molto vicino ai mistici ebraici, per i quali si glorifica Dio, la divinità anche tramite il lavoro che si fa. Se tu sei un calzolaio devi essere il miglior calzolaio perché è nel tuo fare che non solo glorifichi la vita e il tuo essere, ma anche  la divinità, il tuo Creatore. Ma se si vuole evitare di parlare di divinità, il glorificare la propria vita  e rispondere alla chiamata a certe dimensioni dell’essere, è già un essere nel sacro. Ogni gesto, ogni parola ha la sua dimensione altamente liturgica, per cui la vita stessa diventa una dimensione sacrale. Questo l’ho imparato negli anni. Tutto, dai gesti della vita di ogni giorno, al lavoro che compi, all’amore per il tuo o la tua partner, fino ad arrivare addirittura al gesto amoroso, all’amplesso –  che ha una sua sacralità se è vissuto nella giusta maniera –  tutto io penso che dipenda da questo: dal senso di sacro e dal valore sacro che tu attribuisci a questa tua dimensione terrena.

  1. Sempre nel Suo libro “Il dolore”, in un verso fa riferimento al vuoto: “Con il fango si modella il vaso, e l’impiego del vaso sta nel suo vuoto”…L’impiego del vaso sta nel suo vuoto, proprio in quel vuoto che ci fa tanta paura! I Suoi versi mi hanno richiamato alla memoria Heidegger che, nel suo saggio “La cosa”, affronta lo stesso passaggio,  così come lo fa la tradizione taoista, nel testo “Tao Te Ching” in particolare. La parola vuoto poi, in un verso di “Tutto il calore del mondo” 2  Lei la cesella, tra due punti, uno all’inizio ed uno alla fine della parole, quasi a contenerlo: ”La talpa. Il vuoto. La Bestia”.  Ma al vuoto Lei non fa riferimento solo nella Sua espressione scritta, ma anche in quella pittorica, perché nelle Sue opere io riscontro un‘ alternanza di pieni costruiti con il colore  e di vuoti, se non di forme,  di spazi. Che cosa rappresenta il vuoto per Lei? Come artista, in che modo si confronta o si scontra con il vuoto,  in tutte le sue manifestazioni?

17457670_10212587748750936_622643375654266701_nPer ritornare al discorso che si faceva prima, questo vuoto va riempito. È  in questo gioco tra vuoti e pieni che si svolge la nostra vita e ne prende forma. Il vuoto non è il nulla del nichilismo, il vuoto è componente fondamentale al fine di dare una dimensione e una direttiva al nostro essere. Si nasce vuoti,  ingenui, puri, privi di qualsiasi struttura o sovrastruttura, si ha solo la dimensione genetica che ci hanno trasmesso i nostri genitori, però,  intellettualmente parlando, si è ancora vuoti, e solo in seguito apprendiamo, via via ci viene insegnato e capiamo. Io penso che il vuoto sia il percorso; il vuoto è il cammino dell’intera vita, e credo che si muoia quando il vaso è colmo, ovvero quando si è  arrivati al massimo grado di consapevolezza. Ciò potrebbe sembrare paradossale, iperbolico se riferito alla morte di un bimbo, eppure sono convintissimo che un bimbo muoia perché in quell’età aveva già raggiunto la massima pienezza. Io penso che si muoia nel momento in cui si raggiunge la massima consapevolezza della vita, che può essere racchiusa  anche in un sorriso, in un sorriso di un bambino appunto. Probabilmente quel bambino aveva capito molto più di noi che viviamo invece per 70, 80, 90 anni. Ecco, quanto ho descritto è il vuoto per me, il vuoto a cui siamo chiamati al fine di riempirlo. Infatti, nella metafora che hai citato nella mia poesia, si evidenzia come stia proprio nel vuoto il valore del vaso, perché è in quel vuoto che il vaso assume un compito come contenitore. Noi siamo dei contenitori fondamentalmente, il nostro corpo contiene, e siamo a nostra volta contenuti. Possiamo definirlo un bellissimo “gioco” tra vasi comunicanti, per cui noi assorbiamo il sapere, ma, nello stesso tempo, diamo sapere, cognizione e conoscenza di ciò che ci circonda; riempiamo e, contemporaneamente, ci riempiamo. Questo è il vuoto. È fondamentale il suo valore, perché ci consente di dare lettura alla condizione e alla dimensione in cui noi stiamo vivendo.

  1. Mi tengo ancora agganciata a quel vuoto per chiederLe prima di tutto se è stato necessario fare vuoto dentro di Sé per affrontare la traduzione dell’Esodo 3 e della Genesi dal greco antico e cosa Le ha rivelato di Gian Ruggero Manzoni la traduzione? Perché, in fondo, tradurre significa anche accettare di essere “tradotti” dal testo. In un modo del tutto inaspettato, la traduzione può diventare anche un’occasione di incontro con se stessi, a volte. È stato così anche per Lei?

Certamente! Soprattutto quando ti parametri con il Testo Sacro per antonomasia ed, in4aggiungi particolare,  con una delle componenti del Pentateuco. Ho iniziato con la traduzione dell’ Esodo perché lo considero un libro fantastico e perché mi ha sempre affascinato la figura dell’ebreo errante. Io ho amato moltissimo nella mia vita un poeta che considero grandissimo: Edmond Jabès. Mi è sempre piaciuta la figura dell’errante che poi  errante non è. È errante su questo pianeta per conoscere, per vedere, per incontrare, ma non lo è dal punto di vista della Fede,  del sapere o della consapevolezza di sé. Nell’Esodo mi sono ritrovato in alcune figure portanti, ma non in quella di Mosè, non mi sento e non mi sono mai sentito una guida di tale spessore, di tale grandezza! Mi sono ritrovato, invece, in certi personaggi apparentemente marginali, come Aronne e Giosuè. In Giosuè ho ritrovato tante parti di me stesso! La grandezza della Bibbia, del nostro Libro Sacro è questa: l’interscambiabilità, la possibilità di mutare il rapporto con la stessa, “entrando” nei vari personaggi,  fino ad arrivare, nel Nuovo Testamento, e diventare un tutt’uno con il Cristo stesso. Passare alla traduzione della Genesi – che spero di pubblicare a breve –  dopo l’Esodo era inevitabile! O si passava alla Genesi oppure sarei dovuto saltare all’Apocalisse, e non è detto che non  lo faccia! La Genesi mi interessava non tanto per la dimensione della Creazione quanto per un momento in particolare: la costruzione della Torre di Babele 4, la mutazione nei vari esseri viventi del linguaggio, e la conseguente incapacità degli uomini di riuscire a relazionarsi quale punizione divina. È la superbia umana che ci divide! Se Dio nella Bibbia conferisce ad Abramo la capacità di dare il nome a tutto ciò che lo circonda, ovvero dà la possibilità all’uomo di chiamare il suo spazio, di chiamare il suo luogo, di chiamare gli elementi che compongono il suo stato e di chiamarsi, ecco che con la Torre di Babele tutto crolla. Prima della Torre di Babele ci si capiva tutti, dopo non ci si capiva più. Penso che nella Genesi sia interessante proprio questa contrapposizione tra la nascita e il divenire del nostro essere,  e l’incapacità di poter trasmettersi l’un l’altro questo nostro bagaglio, questa nostra testimonianza di percorso. Questo mi ha appassionato particolarmente e penso che possa e debba interessare a tutti coloro che si avvicinano alla parola. Credo sia fondamentale la conoscenza e l’approfondimento dei tanti idiomi, dialetti, vernacoli che popolano il mondo. Mi ha sempre stimolato conoscere qual è il diverso modo di chiamare le componenti fondamentali del nostro essere. Per esempio, ho riflettuto lungamente sul nostro dialetto romagnolo, che ci ha dato e sta dando dei grandissimi poeti: Raffaello Baldini, Tonino Guerra, Giuseppe Bellosi, Giovanni Nadiani scomparso di recente e Nevio Spadoni. Nel nostro dialetto romagnolo la parola “amore” ben poco viene usata,  preferendo il “ti voglio bene” al “ti amo”. La parola amore, invece, viene più adoperata per indicare il sapore, “amòr” (sapore=amòr). È  molto interessante scoprire come una parola che in italiano  esprime  il sentimento più alto, nel dialetto romagnolo non venga pronunciata per pudore (perché l’amore, per i nostri vecchi che parlavano in dialetto, era considerato un assoluto che, probabilmente, si rivolgeva esclusivamente agli assoluti appunto, e nella vita era troppo dire ti amo, e l’amore si esprimeva verbalmente con un “ti voglio bene”) e venga invece  usata per indicare il sapore. “Ha un buon amòr” ovvero “ha un buon sapore”. È bello questo! Io penso che nella Genesi la questione inerente la Torre di Babele e la mutazione del linguaggio, per quanto sia stata sconcertante, ha fatto sì che noi potessimo maggiormente indagare sulla nostra lingua, sulla lingua dei nostri padri  e, contemporaneamente, sulla lingua altrui. Per cui anche quella che sarebbe dovuta essere una punizione divina, è diventata un’occasione “misericordiosa” perché ci ha concesso poi –  per chi lo coglie ovviamente – un altro piacere. In questo, fondamentalmente, risiede il senso del tradurre sia l’Esodo che la Genesi da una lingua morta come il greco antico, così come dall’aramaico e dall’ebraico antico (diverso da quello moderno): prendere coscienza e stupirsi di vedere come una stessa immagine sia stata espressa in greco, in ebraico, in aramaico. Il grande piacere della traduzione e il suo senso profondo risiedono soprattutto nel rapporto con la lingua, con il suono, con il nostro suono, con la nostra voce;  ti viene affidato un testo e tu devi cercare di tradurlo al meglio nella tua lingua, dopo averlo compreso.

 

  1. In principio erat Verbum. In principio fu la parola, un suono credo, e la sua vibrazione di fondo. Credo che anche all’origine della creazione di un’opera d’arte ci sia una vibrazione, un suono interiore. Cedo allora alla tentazione di rivolgerLe la domanda che Jak Gambardella nel film “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino pone all’artista performer Talia Concept,  senza purtroppo ottenere risposta. Cos’è per Lei una vibrazione?

4okLa mia è la generazione delle “Good vibrations”, delle “buone vibrazioni”. Sono nato nel ’57 e in quegli anni l’espressione “buone vibrazioni” veniva usata spesso, ma era una metafora per stimolare alla ricerca del raggiungimento di un’armonia interiore e al tentativo di trasmettere e ricevere armonia dagli altri.

Ma in riferimento  al suono, entrando più propriamente nella questione della scrittura e dell’oralità,  io penso che la buona vibrazione ci venga data dalla giusta  modulazione della nostra stessa voce, dalla capacità di saper leggere e  dalla capacità di “vivere” la vibrazione. Questo è molto importante anche per il poeta! Non sono molti i poeti capaci di recitarsi, però anche questo, a mio avviso, dovrebbe far parte del loro bagaglio, perché non dimentichiamo  che il poeta è nato con una cetra in mano, cantando quello che aveva scritto e che aveva immagazzinato da altri prima di lui. Pensiamo alle canzoni di gesta, provenzali, e al rapporto diretto tra la parola orale, la parola scritta e la musicalità. La buona vibrazione è data dalla capacità di trovare in se stessi il giusto tono e, di conseguenza, anche la giusta armonia, riuscendo così a trasmetterla anche esternamente. Anche le “buone parole” sono  buone vibrazioni.

Ritornando, poi,  alla prima domanda sul sacro, quando sei  in grado di cogliere la vibrazione tu vivi  una sacralità. La vibrazione, flow, è il flusso che ti arriva dall’esterno e che tu emani di tuo verso l’esterno. La vita stessa è una questione di flussi,  e ritorniamo al discorso  del  vuoto e del pieno. Per questo motivo ho detto prima che esiste una sacralità anche nel congiungimento carnale, perché è uno scambio di flussi, di energie, di vibrazioni. La vibrazione è quel tremito, quella dimensione archetipica molto vicina all’origine che ti appartiene e che, allo stesso tempo, è parte del grande suono che è l’Universo. Ora sappiamo che non esiste silenzio nell’Universo, ma tutto ha un suono, gli stessi pianeti  che ruotano hanno un suono. Noi siamo circondati dal suono. Io penso che quando si nasca si abbia come patrimonio anche questo suono, e riconoscere il proprio suono e  il suono dell’altro è fondamentale per poter vivere in armonia. Viviamo in un mondo sempre più caotico in cui la parola viene usata molto male, spesso con grande volgarità ed urlata e, di conseguenza,  manca in essa la giusta vibrazione. Mi riallaccio al discorso sulla liturgia fatto in precedenza perché penso sia fondamentale e “ liturgico” usare la parola con la giusta intonazione e quindi con la giusta vibrazione. Quanto è importante sviluppare la grande capacità di entrare in sintonia completa con il tuo suono, cioè quello che dell’Universo hai in te! Ricordo un’azione artistica, al Beaubourg di Parigi, di un artista francese che aveva riportato esclusivamente il suono del nostro pianeta Terra, registrato da satellite. È  un suono verso la e, è un eeee  all’infinito. Quando entrai nel Beaubourg  subito pensai che in quel eeeee, in quel suono c’ero anch’io, ci siamo tutti. Siamo nel suono del nostro pianeta, ne facciamo parte, ma, contemporaneamente,  siamo anche nel suono della totalità,  perché sono convintissimo che l’uomo abbia in sé il germe totale dell’origine, sta a noi scoprirlo.

  1. Di uno dei Suoi reading poetici presenti su YouTube, dal titolo “Il lento movimento dei ghiacci”5 ho trattenuto un verso: “L’estasi non la si può rubare all’altro. Ognuno l’ha di suo, al pari della strada che l’ha generata”. La strada che genera l’estasi nell’arte, attraversa spesso la terra del dolore. Lei è stato visitato tanto dal dolore nella Sua vita (mi riferisco anche all’esperienza di guerra). In che rapporto, secondo Lei, si pongono le ferite della vita e l’esperienza dell’estasi?

Entriamo in un campo molto delicato, profondissimo, basilare, fondamentale per la 2oknostra esistenza. La nostra esistenza è spesso dolorosa, è quasi totalmente dolorosa, ma non scopro nulla di nuovo. Considero doloroso anche quando un uomo se ne sta mani in mano. Il non fare nulla, lo stare al mondo, essere vivo e non fare è, forse, il dolore più intenso che l’uomo  possa esprimere.

L’esperienza del dolore è sicuramente  un passaggio fondamentale della vita, fa sì che tu poi riesca a cogliere l’importanza di ogni attimo della tua esistenza e di  quello che veniva definito “il senso di morte” che non è il male di vivere, la depressione, non è la malinconia, ma il sapere che si nasce per morire, e che già nel momento del concepimento, siamo in viaggio verso la morte. Questo è il dolore profondo dell’uomo: sapere che, pur essendo verbo incarnato, parola, suono, vibrazione incarnata, un giorno terminerà, finirà, e il rapporto continuo con questa componente diventa estatico. Ecco, l’estasi è questa capacità, che definirei “eroica”,  di riuscire a continuare a vivere pur sapendo che comunque ci aspetterà la morte. Vivere facendo, dando senso, spessore e  dimensione fideistica a questo tratto di strada che ci vede in questa dimensione, con la consapevolezza che passeremo momenti di grande dolore e che finiremo. Questa è l’estasi.

Poi si arriva all’estasi dei santi, dei mistici, nei quali lo stato contemplativo non è da confondere con lo stare mani in mano, perché non si tratta assolutamente di uno stato passivo, ma di uno stato attivo, perché nella contemplazione, come nella meditazione,  c’è compenetrazione, per cui si è  in movimento, non in stasi. I mistici raggiungono le somme vette dell’estasi  – ma lì arriviamo nei massimi sistemi, lì arriviamo ai sommi – per noi invece, nella nostra semplicità, nella nostra umanità e quotidianità, l’estasi è la capacità di  riuscire a cogliere la bellezza e il senso profondo di questa esistenza  molto dolorosa, nonostante si assista sempre più spesso  a quale grado di bestialità può ridursi l’uomo nei confronti di un altro uomo.

Per tornare al nostro discorso artistico-creativo, difficilmente si riesce a trasformare l’estasi in parola scritta o in un segno. Forse in pittura si ha qualche possibilità in più che nella scrittura, anche se questo si rivela comunque molto difficile, come peraltro è impossibile fermare totalmente in arte  i sentimenti e le emozioni che si vivono. Anche questo fa soffrire, è un ulteriore dolore che ci costringe a fare i conti con il nostro limite e a tentare di trasformarlo in qualcosa di prezioso,  perché anche questo nostro limite ha in sé una componente estasiante (strettamente legata a estetico, estasi-estetico) per cui c’è il bello oltre il dolore. Il dolore ti fa cogliere il bello: questa è l’estasi. Anche in questo la figura del Cristo insegna. Nella componente massima del martirio e della macerazione della carne c’è bellezza oltre il dolore, una bellezza ed una grandezza sconcertanti. È logico che delle ferite e del dolore della vita si farebbe molto volentieri a meno, ma è fondamentale cercare di  dare un senso profondo anche al dolore.

  1. Che valore dà all’attesa? E nell’arte, quanto è importante saper aspettare per il pittore e quanto lo è da critico d’arte, invece, quando si pone in relazione con un’opera?

1okCome ho già detto prima, la vita stessa è un’attesa, siamo qui tutti in attesa dell’evento finale. I vari discorsi che stiamo affrontando sono collegati. L’attesa esiste ed è il momento in cui tu aspetti che la tua vibrazione interiore, il tuo flusso interiore, la tua energia interiore si ricongiunga con l’energia dell’intero o, per chi è credente, del divino. Quello è il momento massimo della creatività che può essere poi testimoniato su carta, su tela, a livello teatrale, cinematografico, soprattutto musicale, ma può anche non essere testimoniato. Però esiste, ed io confido che esista in tutti gli uomini, anche in quelli che non si propongono dal punto di vista creativo ed artistico. In tutti gli uomini questa attesa è l’attesa del superamento di una condizione, quella umana, per entrare in un’altra condizione quasi metafisica, metaempirica. È quella dimensione che non ha né spazio né luogo, che non ha componente entropica,  non è governata dal  caos, bensì è la dimensione dell’essere completo. L’attesa è  attendere questa dimensione.

Lo stesso accade quando tu vieni a contatto con un’opera d’arte o anche quando vieni a contatto  con un’altra persona, con un oggetto, con la tua penna stilografica, addirittura con la tua automobile. Lo sperimenti tutte le volte che entri in relazione con qualcuno o qualcosa e cogli l’essere completo di ciò che stai fruendo. Ho citato ad esempio l’ automobile. C’è chi vede un’automobile solo come un ammasso di ferro in cui c’è dentro un motore, però l’automobile è, in realtà, una proiezione dell’uomo, così come lo è il computer. Quando salgo nella mia automobile non vedo solo un ammasso di ferro, vedo un cuore che batte e che sono i pistoni, vedo  tubature che sono le vene, vedo un essere. È fondamentale saper cogliere l’essere e il fare umano in tutto ciò che ci circonda. L’attesa è quel momento in cui tu entri nella stessa lunghezza d’onda di ciò che hai davanti. E così siamo ritornati al suono, alla vibrazione, a tutto ciò che si è detto finora. Quando entro nella mia auto vedo anche l’operaio che l’ha costruita, vedo  l’operaio che,  prima di aver dato il volante a quello che l’ha assemblato, ha dato vita a questo volante, vedo il primo della filiera che ha dato filettatura alla vite. Nella capacità di ampliamento, nella visione a 360° di un’opera (quadro, scrittura, musica) o del lavoro altrui con cui entriamo in relazione, risiede il senso profondo. Mi sento romantico anche quando parlo di tecnologia  perché il romanticismo è quello struggimento che ti prende quando riesci a cogliere “il tutto” e ad entrare in rapporto anche con l’operato umano – perché anche quello fa parte di noi – diversamente dai  primi romantici il cui  rapporto era con la natura, con tutto ciò che li circondava e di cui facevano parte. L’attesa è il mettere a fuoco la conoscenza, per cui l’attesa è uno stato di coscienza, di  consapevolezza. L’attesa è il momento in cui tu sei consapevole, e l’oggetto o l’altro fuori da te, è a sua volta consapevole e ti emana, ti riflette una sua consapevolezza. Mio nonno aveva una vecchia bilancia a due piatti sorretti da due asticelle che misuravano il peso dell’uno e dell’altro piatto. Quando le due asticelle erano allineate voleva dire che su ambedue i piatti c’era lo stesso peso. Ecco,  quando le due asticelle della bilancia sono a contatto e sulla stessa lunghezza, quello è il momento in cui dall’attesa tu passi alla dimensione attiva, e l’evento si è creato.

  1. È stato chiamato alle armi ormai molti anni fa, e poi la vita Lo ha chiamato all’arte…Quanto Le costa questa chiamata all’arte come artista? E da critico d’arte, quanto si deve essere grati al fiat dell’artista?

5OKIo ho sempre detto, e continuo a sostenerlo, che la capacità di esprimersi creativamente, artisticamente è innata. Il talento o ce l’hai o non ce l’hai. Che poi si possa essere artisti o poeti di vita anche senza scrivere una poesia e che si possa essere pittori anche senza dipingere,  questo l’ho ribadito anche prima, ma la capacità di riuscire a trasformare in opera non si impara, ce l’hai di natura. Il quid famoso c’è o non c’è.  Sono convintissimo di quello che diceva Baudelaire, ovvero  che per 23 ore e 59 minuti si è tra virgolette “degli ebeti” e poi c’è quel minuto nella giornata in cui si scatena il tutto, nella persona che ha quel quid. La chiamata all’arte diventa da un lato esaltante, perché si pone tutta la propria vita al servizio di quel quid, di quella componente innata, però, nello stesso tempo, può diventare dolorosa per il motivo a cui ho accennato prima, ovvero per la nostra incapacità quali esseri umani, quali esseri imperfetti di riuscire a rendere, tramite un linguaggio,  quello che sentiamo. Io penso che la massima forma d’arte e il massimo grado di esplicazione di quello che uno sente dimori  in una carezza, in un bacio, in un palpito, in un leggero sfregamento tra essere ed essere, tra te ed un albero, tra te e il tuo cane, perché in quel caso non hai bisogno del linguaggio. Ecco perché è tanto importante il corpo!  Non rendiamola demoniaca questa materia, perché ci permette di supplire alle tantissime impossibilità del linguaggio. La nostra completezza, seppure nell’imperfezione, è proprio in questa unione anima-spirito-mente e contemporaneamente corpo. Forse è in questa unione che si riesce veramente a cogliere quel momento estatico (e ritorniamo ancora all’estasi). Il dolore, come ho detto e voglio ripeterlo, è nella consapevolezza che non si riuscirà mai ad esprimere fino in fondo ciò che veramente si sente. Lì ci viene in aiuto il corpo: gli occhi, uno sguardo, un sorriso, una lacrima. Forse lì abbiamo il compimento e il pieno di quel vuoto di cui si parlava prima. Questo è il senso profondo dell’essere in arte.

L’essere in arte vuol dire cogliere il tutto o tentare di cogliere il tutto, per poi riuscire, bene che vada, ad esprimerne un decimo, e questo è il dolore per ciò che senti e che non riesci ad esprimere, anche se hai tutte le parole del mondo dalla tua parte, anche se hai tutta la  capacità nella mano per tracciare un segno, un profilo, anche se hai l’orecchio assoluto se sei un musicista. L’incapacità di arrivare a definire il tutto, questo è il massimo dolore. Ma, come dicevo prima, in questa consapevolezza c’è anche la nostra massima forza! Questa consapevolezza è anche la bellezza, l’estasi di cui ho parlato prima, la dimensione estetica e, sotto tanti punti di vista, anche etica perché nella conoscenza dei nostri limiti si entra anche in una dimensione etica e si riesce a dare un valore e un senso morale al nostro essere, alla nostra vita e alla vita in generale. Lo stoicismo viveva di questo, ed io ho sempre amato gli stoici e in fondo mi sento uno stoico per questo. Penso che l’arte sia un continuo inseguimento di una perfezione che non raggiungeremo mai, ma forse questo è il senso profondo della vita e dell’uomo e non solo dell’arte, cioè sapere che non si arriverà mai alla meta e si continuerà sempre invece a ricercarla.

Tu sai benissimo che come essere umano non potrai toccare l’Assoluto e il sapere chi sei, perché sei qui e dove si andrà, potrai solo sfiorarlo. Potrai averne parvenza per un attimo, ma per un attimo impercettibile. E lo stesso accade con la Verità: sai dov’è la Verità, la senti, la cogli, però poi questa ti sfugge. È una continua ricerca per raggiungere quell’attimo. Il famoso Aleph di Borges, la visione totale. Ecco, l’artista sa questo, mette in atto il suo talento per tentare di far sì che appaia l’Aleph, che appaia la visione del tutto anche solo per un attimo, anche solo per un secondo. È quasi alchemica la cosa! Anche solo quel secondo compensa l’intera vita. Non si sfugge da questo! Quel secondo ti ripaga di tutto, della tua ricerca, del tuo studio, della tua applicazione…Ti ripaga di tutto.

  1. Vorrei concludere rivolgendoLe la domanda che Cezanne fece a Vollard pochi anni prima di morire: “Non è forse l’arte una forma di sacerdozio, che richiede al puro di cuore una consacrazione totale?”

Certo! Diventa una missione di vita, diventa un’abnegazione, un darsi totalmente. Per8C OK Ph. Matteo Bosi anni e anni,  se io passavo una giornata senza aver affrontato la tela bianca o il foglio bianco, anche solo per fermare una parola con la mia penna stilografica (io ho sempre amato scrivere con la penna stilografica! Poi mi sono dovuto adeguare alla macchina da scrivere, e adesso al computer, però la piacevolezza della penna stilografica resta sempre. Chiamatemi passatista, ma io amo ancora l’inchiostro che va a segnare, a tratteggiare, a fermare, a vergare!) stavo male, ma non perché avevo questa necessità di esprimermi, ma perché mi sentivo in colpa nei confronti di ciò che mi era stato donato. La capacità di esprimersi creativamente, artisticamente, è un dono, è un grande dono come lo è per un buon falegname riuscire a fare dei bei mobili, per un muratore riuscire a  costruire delle case e via discorrendo. Per essere sincero anche adesso, che ho 60 anni, se passo un giorno così, a pescare ad esempio, anche se sono consapevole che quel momento mi serve per accumulare  energie, sensazioni, pensieri, visioni che poi confido prenderanno forma, in seguito, o sulla carta o su tela o su altro ancora, avverto ancora quel senso di colpa! Se io dicessi che non ho mai avuto timore di affrontare il foglio bianco o la tela mi si potrebbe prendere per matto, ma è così! Io non ho mai avuto paura, anzi! Era lì che iniziava la mia vita! Era lì che io iniziavo a sentirmi al mondo e ancora adesso è lì che inizio a sentirmi al mondo, ed è per questo che quando non facevo e non ho fatto mi sono sempre sentito in colpa nei confronti della mia vita, del tempo che mi è stato dato e di quello che sarà in questa dimensione. Ecco, questo è il senso del sacerdozio. Nell’arte si è sacerdoti 24 ore al giorno. Se sei chiamato a questo non puoi rinnegarlo, è un atto blasfemo. Io ho avuto amici che purtroppo, pur con grandi talenti, hanno deciso, a un certo punto, di smettere, perché il fare arte li distruggeva. Può anche distruggere fare arte! Proietti talmente tante energie che può anche distruggerti. Bisogna stare molto attenti! Bisogna saper diluire le forze, perché hai a che fare con l’opera, col palpito… è vita, bisogna curarla e curare te stesso mentre pratichi, perché ci si può rimanere dentro, ci si può morire e tanti sono morti di arte in questo rapporto con l’espressione, con la creatività.

Sì, si è sacerdoti nell’arte. È per questo che dicevo che ogni gesto, ogni parola, ogni incontro assume poi una sacralità. È fondamentale questo. Se non ci poniamo come esempi, e il sacerdote si deve porre come tale (veste una divisa), questo mondo è in grave pericolo! Se si perde questa sacralità legata all’opera, al lavoro, allo spirito che lo anima – e non mi riferisco solo a noi che facciamo arte, ma anche agli altri, anche all’impiegato che lavora 8 ore ad una scrivania – siamo finiti, e l’Occidente sta rischiando moltissimo da questo punto di vista! C’è un involgarimento e c’è anche tanta gente che si inventa creativa senza esserlo. Ormai si è arrivati al punto che tutti vogliono stampare il loro libro, tutti vogliono fare la loro mostra di pittura e va benissimo! È giusto che la gente si esprima, ma attenzione! Da qui ad essere sacerdoti ce n’è ancora. Innanzitutto devi avere una Fede forte, mentre molti confondono la ricerca di identità o l’ego come Fede. E no! Non ci siamo! Che l’artista sia anche molto spesso un egocentrico fa parte dell’iter della creatività, ma deve essere un ego poi motivato e sostenuto dall’opera, diverso da questo debordante bisogno di protagonismo dilagante che  rivela una società che sta perdendo il senso del sacro.

In una società in cui il sacro è dominante, invece, ognuno dà il giusto valore sia a se stesso che all’altro. Per cui tu sarai bravo a fare l’idraulico ed io sarò bravo a  scrivere una poesia, ma non è che io sia migliore dell’idraulico o lui è migliore di me, però si riconoscono i ruoli. Viviamo in un mondo in cui i ruoli non esistono più e, di conseguenza, non esiste più neanche l’autorevolezza del ruolo. Il sacerdozio implica un’autorevolezza. In questo sono molto vicino a Savonarola, sono molto etico. Se ti poni in una maniera, devi essere coerente. È questo che manca in chi si improvvisa. È giusto dipingere, però non confondiamo quello che è hobby o diletto, con quello che è lavoro, con quello che è opera, cioè ricerca continua, tentativo di svelamento, tentativo di raggiungere quella perfezione che si sa mai raggiungeremo, ma che è comunque il nostro compito come esseri umani. Infatti si scoprirà probabilmente che cos’è l’Universo, cosa siamo noi in questo Universo, però probabilmente si apriranno anche porte per altri Universi. Se non si ha questa visione dell’infinitudine e degli assoluti che implica questa infinitudine –  perché in questa ricerca non si va avanti a random! – non si può essere sacerdoti! È  inconcepibile che ci siano migliaia di poeti in Italia che stampano un libro e non leggono i libri degli altri. Io dico sempre che se tutti quelli che scrivono, comprassero un libro di un altro, finirebbero i problemi editoriali, ma tutti scrivono e nessuno legge. Ma prima di scrivere bisogna leggere! È inutile che ci si inventi. Non si può scrivere, dipingere, scolpire non interessandosi  minimamente di ciò che è stato scritto o di ciò che si sta scrivendo, dipingendo o scolpendo. Ci si deve rendere conto di far parte di una catena, come lo è lo scienziato, e si deve avere il giusto rispetto nei confronti di questo, ben sapendo che dopo di noi verranno altri che tenteranno di dire l’indicibile.

Non esiste più nemmeno la critica, oggi si fa della cronaca! Si raccontano le mostre, si racconta ciò che uno ha dipinto, ma non si entra in ciò che quell’artista ha dipinto. E la stessa cosa si fa per i libri, si fa della cronaca dei libri, dei romanzi si parla della trama così come lo si fa dei film, ma non si cerca di dire qualcosa in più. Sono rimasti pochissimi i veri critici. Anche quello è un ruolo fondamentale che sta venendo a mancare. Più nessuno è in grado di fare critica, oppure i creativi stessi si pongono come critici e, tante volte, questo non è un bene, perché ci dovrebbe essere una critica neutra, una critica esterna al mondo della creatività, una critica che ti sa leggere senza coinvolgimento diretto del proprio ego. La mancanza dei ruoli genera il caos, la piena confusione: troppi mercanti dentro al Tempio! E questo è un grosso rischio se non già una spia, un segnale che, forse, la nostra civiltà, la nostra realtà di ordine culturale, civile, artistico, storico, filosofico stia per  arrivare ad un capolinea e che quello che avevamo da dire lo abbiamo già detto. Saranno poi altri in avanzata che diranno.

Bisogna stare molto attenti! Quel sacerdozio di cui ho parlato implica una riflessione continua, un’analisi continua, un continuo “essere sul pezzo”.

Stai sul pezzo, stai lì! Non ci si può distrarre!

Anche adesso tra me e te stiamo facendo arte e non ci stiamo distraendo e il nostro dialogo diventa una creazione, è un’opera. Questa è opera, in due stiamo dicendo Messa, potremmo essere in dieci, potremmo essere in cento. È importante dare il senso profondo all’opera, altrimenti si rischia il caos. Il sacerdozio nell’arte si misura con la durata, con l’abnegazione, si misura con quello che sei riuscito a fare in vita, ma attenzione! a esprimere con le tue forze e non perché avevi dei padrini, amici o amici degli amici, perché un’altra componente fondamentale è che con l’opera non si bara! Non puoi barare! Se il bluff c’è, prima o poi viene fuori. È un assoluto. Un prete  non può  credere in Dio a corrente alternata! Potrà eventualmente porsi delle domande, ma queste domande non devono mai scalfire la Fede. Dal punto di vista artistico, non ho paura di dirlo, io sono un integralista, un fondamentalista; non si può essere diversamente e, mai come in questo momento storico, bisogna essere inflessibili, rigorosissimi anche con se stessi, partendo da se stessi.

Con l’opera non si bara e mai è consolatoria l’arte! Entriamo nella dimensione esaltante, che è il contrario. L’arte entra nell’esaltazione e l’esaltazione entra nell’estasi di cui si parlava prima. È una dimensione estatica e si sbaglia tremendamente se si pensa che l’arte sia consolatoria, che la poesia sia il lacrimatoio, ma è tutt’altro! L’arte ha in sé un grosso segnale di forza e di coraggio, e l’opera è una dimensione energetica, di grande tensione emozionale. L’opera ti chiama a questo: alla forza, al coraggio, alla tensione, allo stupore…soprattutto allo stupore!  Allo stupirsi di continuo anche di se stessi e di ciò che riescono a toccare altri meritevoli.

Mai è consolatoria l’arte! L’opera ti chiama al coraggio di affrontare il dolore a testa alta, da esseri umani. Il dolore ti può piegare, ti può far inginocchiare, ma la fronte deve rimanere sempre alta, anche in ginocchio. Ho detto prima che di opera si può anche morire però, a questo punto, meglio morire di opera piuttosto che non affrontare se stessi nell’opera e accostarsi all’opera con la lacrima o strisciando. Meglio morire! L’opera non ti vuole così! L’opera ti vuole nella tua verità, ti vuole nella tua completa  sincerità e ti vuole anche nella tua  modestia perché sei arrivato fin dove potevi, però sei degno fin lì. Dignità! Dignità! Il sacerdozio implica una grandissima dignità. Oggi,  invece,  siamo in un mare di mezze figure, per usare un termine caro a Sciascia,  di “quaquaraquà”,  e questo è deleterio per il nostro fare arte e per la nostra civiltà. Io sono convintissimo che l’unica possibilità di incontro tra diverse culture, civiltà e religioni possa avvenire solo riconoscendosi reciprocamente una dignità e la capacità di narrarsi come persone degne. Nel racconto ci può essere l’incontro, nella narrazione di ciò che per noi è sacro (ecco, ritorniamo al sacro) mentre  l’altro ci racconta  ciò che  è sacro per lui e, alla fine, scoprire che il suo sacro ed il nostro sacro collimano. Sono molto junghiano in questo, esiste un io collettivo, siamo tutti parte dello stesso formicaio, mentre  questo mondo tenta di  confondere sempre di più, ed ecco che ritorniamo alla Torre di Babele di cui ho parlato.

L’uomo sta peccando troppo di superbia, è un peccato che stiamo commettendo soprattutto noi occidentali. Tutto si fonda sulla superbia. È il primo peccato; il demonio pecca di superbia. È sempre quello il nocciolo della faccenda: mancanza di umiltà, mancanza di modestia, e mancanza di capacità di capire quando ci si deve inchinare, perché ho detto che si deve restare sempre a testa alta, ma quando c’è da onorare qualcosa o qualcuno bisogna sapersi anche inchinare, questo fa parte della dignità ed anche di  quella componente estetica fondamentale in ogni campo che consente di superare la volgarità e di entrare nella dimensione della bellezza, del buon gusto, dello stile. Viviamo in un mondo che ha perduto lo stile!

Recuperare lo stile è fondamentale, perché ci si possa far riconoscere non solo come scrittore,  come pittore, ma  come essere umano, come appartenente ad una comunità di esseri umani.

Gabriella Grande

 

1  “Il dolore” con disegni di Omar Galliani. Gian Ruggero Manzoni. Ed. All’insegna del pesce d’oro/Scheiwiller, Milano, 1991
2   “Tutto il calore del mondo” con disegni di Mimmo Paladino. Gian Ruggero Manzoni. Ed. Skira,   2013
3   “ESODO secondo Gian Ruggero Manzoni”, Raffaelli Editore, 2010
4     Genesi, 11,1-9
5    Performance poetica di Gian Ruggero Manzoni,  accompagnato da Walter Santoro – sala AxA Palladino Company, Campobasso, 27 ottobre 2012 (al link: https://www.youtube.com/watch?v=Ynvmcvrrfg0 )
 
NOTA BIOGRAFICA E PERCORSO ARTISTICO  DI GIAN RUGGERO MANZONI al link:

http://www.gianruggeromanzoni.it/

BIBLIOGRAFIA DI GIAN RUGGERO MANZONI
Poesia
  • Il mercante di allodole, con serigrafie dell’autore. Ed. Mazzotti, Bagnacavallo, 1981.
  • Filokalia, con disegni di Sergio Monari. Ed. Cervo Volante, Roma, 1983.
  • Le tavole dei reziari, con opere di Sergio Monari. Ed. I Telai del Bernini, Modena, 1983.
  • L’ orizzonte dei baratti, con disegni di Tommaso Cascella. Ed. Cervo Volante, Roma, 1984.
  • La religione del suono, con disegni di Tommaso Cascella. Ed. Le parole gelate, Roma, 1985.
  • Il sicario della Tiade, con disegni di Garouste, Barni, Monari, Bonechi, Galliani. Ed. Cleto Polcina, Roma, 1985.
  • Seth. Ed. Walberti, Lugo di Romagna, 1986.
  • Discorsi Latini. Ed. Premio di Poesia Savignano, Savignano sul Rubicone , 1986.
  • Il tredicesimo mese/Il tempo abbandonato, con disegni di Tommaso Cascella. Ed. Ellequadro, Genova, 1990.
  • Il codice. Ed. Origini/La Scaletta, San Polo d’Enza, 1991.
  • Il dolore, con disegni di Omar Galliani. Ed. All’Insegna del Pesce d’Oro/Scheiwiller, Milano, 1991.
  • Le battane di bronzo, con disegni di Bruno Ceccobelli. Ed. La Stamperia dell’Arancio, Grottammare, 1994.
  • L’ evento. Ed. Moby Dick, Faenza, 1997.
  • Nell’ abbraccio dell’ io, con acquarelli di Luigi Ontani. Ed. Enrico Astuni, Fano, 1998.
  • Il digiuno imposto, con opere di Mimmo Paladino. Ed. Matthes & Seitz Verlag, Monaco di Baviera, 2000, e Ed. Emede, Buenos Aires, 2002.
  • Deserti di quiete, con disegni di Aldo Mondino. Ed. I Quaderni del Circolo degli Artisti, Faenza, 2001.
  • Gli addii. Ed. Moretti & Vitali, Bergamo/Milano, 2003.
  • Resistere fino all’ultimo uomo, con opere di Iller Incerti. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2004.
  • Scritture scelte Volume I e II. Ed. del Bradipo, Lugo di Romagna, 2006.
  • Elogio alla diversità, con opere dell’autore. Ed. Arte Com, Avellino, 2008.
  • Tutto il calore del mondo, con opere di Mimmo Paladino. Ed. Skirà/Rizzoli, 2013.
  • Nel vortice della acque superiori, con opere di Omar Galliani. Ed. Raffaelli, 2015.
Narrativa
  • Gotthold Nysa. Edizioni del Bradipo, Lugo di Romagna, 1989, poi Ed. Feltrinelli, Milano, 1996.
  • L’impresa, con serigrafie di Enzo Cucchi. Ed. Essegi, Ravenna, 1991.
  • Caneserpente. Ed. Il Saggiatore, Milano, 1993.
  • Il Francese. Edizioni del Girasole, Ravenna, 1995.
  • Autoritratti, con opere dell’autore. Ed. Essegi, Ravenna, 1998.
  • Gli sfidanti metafisici, con disegni di Lucio Del Pezzo. Ed. Corraini, Mantova, 1999.
  • Tango Croato, con disegni dell’autore. Ed. Campanotto, Pasian di Prato, 2001.
  • Il Morbo. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2002.
  • La Banda della Croce. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2005.
  • L’albero di Maehwa. Ed. Gruppo Albatros (nella collana da lui diretta), Roma, 2008.
  • Una macchia nel sole. Edizioni del Girasole, Ravenna, 2009.
  • I teatranti perduti. Ed. Gruppo Albatros (nella collana da lui diretta), Roma, 2013.
  • Acufeni. Ed. Guaraldi, Rimini, 2014.
  • La voce. Ed. Carteggi Letterari, Messina, 2016.
Teatro
  • Penteo. Ed. Altri Termini, Napoli, 1987.
  • Cutman (con Raffaele Rago). Ed. Walberti, Lugo di Romagna, 1987.
  • Il sonno di Macbeth (con Nicola Macolino). Edizioni del Bradipo, Lugo di Romagna, 2009.
  • Per colui che è, con disegni dell’autore. Ed. Il Vicolo, Cesena, 2016.
Varie
  • Pesta duro e vai trànquilo/Dizionario del linguaggio giovanile (con Emilio Dalmonte). Ed. Feltrinelli, Milano, 1980.
  • Pelàsgi/I poeti romagnoli in lingua (con Davide Argnani). Ed. Maggioli, Rimini, 1986
  • I manifesti/Gli scritti di un sicario. Ed. Walberti, Lugo di Romagna, 1989.
  • La guerra dei poeti, con opere di Marco Pellizzola. Ed. Essegi, Ravenna, 1992.
  • Peso vero sclero/Dizionario del linguaggio giovanile di fine millennio. Ed. Il Saggiatore, Milano, 1997
  • Piloti, aviatori, cosmonauti, motociclisti, con opere pittoriche dell’autore. Ed. Essegi, Ravenna, 1999.
  • Guerrieri, con opere pittoriche dell’autore. Ed. Essegi, Ravenna, 2000.
  • Teatri per la memoria (con Giosetta Fioroni). Ed. Essegi, Ravenna, 2000.
  • Il giardino dei giusti, un dialogo con Giacinto Cerone. Ed. Essegi, Ravenna, 2001.
  • Oltre il tempo/11 poeti per una Metavanguardia. Ed. Diabasis, Reggio Emilia, 2004.
  • Esodo (biblico, traduzione e cura). Ed. Raffaelli, Rimini, 2010.
  • Magie Barbare. Ed. Palladino, Campobasso, 2012.
  • Nuova Vandea (con Adernò, Zanin, Baj). Ed. Officine Ultranovecento, Pordenone, 2013.
  • Briganti, Saracca & Archibugio. Ed. Il Ponte Vecchio, Cesena, 2015.
  • La torre. Ed. Il Ponte Vecchio, Cesena, 2016.
  • Lunga vita al Genius Loci. Ed. I Libri da Bruciare, Modena, 2016.
  • Francesca Alinovi, in suo ricordo (con Antonella Colaninno). Ed. Di Felice, Teramo, 2017.
Mostre pittoriche (le più rappresentative)
  • Del visceralismo. Prov. di Ravenna e Compr. Lughese, mostra itinerante, 1981.
  • Ribelli nella tradizione (con Enrico Calderoni). Sala R. Verde, Faenza, 1982.
  • Dooks (collettiva). Vecchia Dogana del Porto, Marsiglia, 1983.
  • Mito e furia (collettiva). Palazzo del Senato, Milano, 1983.
  • Science verb total et classicisme continuè (collettiva). Gall. Picop e Comunità Europea, Parigi e Bruxelles, 1984.
  • XLI Biennale di Venezia 1984.
  • Faust. Teatro G. Freytag e Case Occupate di Fasanenstrasse. Monaco di Baviera e Berlino, 1985.
  • Apocalisse Identitaria (collettiva). Gall. Cleto Polcina, Roma, 1986.
  • XLII Biennale di Venezia 1986.
  • Waffe. Magazzini del Porto, Amburgo, 1987.
  • Il Principio della libertà (collettiva). Presso le sedi della Fondazione Hirtsch, Boston, New York, Chicago, 1988.
  • GRM – espressione/tradizione/trasgressione. Gall. Gian Ferrari, Milano, 1990.
  • L’Impresa (con Enzo Cucchi). Gall. Modidarte, Ferrara, 1992.
  • Risk ad Atene (collettiva). Rostand Art Center, Atene, 1993.
  • Racconti popolari. Gall. Sumithra, Ravenna, 1993.
  • Bomber. Gall. Michael Werner, Colonia, 1994.
  • Malattia mentale. Saletta Comunale d’Esposizione, Castel San Pietro Terme, 1994.
  • Gian Ruggero Manzoni, opere recenti. Gall. Riposati, Roma,1995.
  • L’evento. Gall. Enrico Astuni, Fano, 1997.
  • Percorsi barbari. Antiche Pescherie, Lugo di Romagna, 1998.
  • Omaggio a GRM. Arte Fiera, Forlì, 1998.
  • Paesaggi Italiani. Gall. Enrico Astuni, Fano, e Tropico del Cancro, Bari, 1999.
  • GRM. Gall. Michael Werner, Colonia, 1999.
  • Guerrieri. Gall. 360°, Montecchio Emilia, 2000.
  • Piloti, aviatori, cosmonauti, motociclisti. Gall. Enrico Astuni, Fano, 2000.
  • Santo manganello-santa falce e martello (con Iller Incerti). Exsalumificio/Gall. Artipici, Modena, 2000.
  • Il patriota esteta. Italian Veterans Association, New York, 2001.
  • Il Giardino dei Semplici. Gall. Gasparelli, Fano, 2001.
  • Il digiuno imposto (con Mimmo Paladino). Museo Nazionale di Buenos Aires, Buenos Aires, 2002.
  • Carte recenti. Emeroteca del Museo del Louvre, Parigi, 2004.
  • Resistere fino all’ultimo uomo (con Iller Incerti). Museo del Senio, Alfonsine, 2005.
  • La capitale dell’Impero (con Roberto Cornacchia). Atelier R. Cornacchia, Lugo di Romagna, 2005.
  • La rabbia dei Santi 1. Spazio 9 Artecontemporanea, Faenza, 2006.
  • La rabbia dei Santi 2. Galleria Exhibition Art, Fano, 2006.
  • Gian Ruggero Manzoni. Zentralbibliothek, Zurigo, 2007.
  • Ciao favole, ciao natura. Palazzo dei Congressi, Jesi, 2007.
  • Miracoli. Palazzo del Commercio-Sale Lino Longhi, Lugo di Romagna. 2008.
  • Elogio alla diversità. Gall. Portfolio, Senigallia, 2008.
  • La sindrome di Icaro (collettiva). Borgo Storico Seghetti Panichi, Castel di Lama, 2008.
  • Appartenere (collettiva). Dimore e Chiese Storiche delle città di Imola, Faenza e Lugo di Romagna, 2008.
  • Io divinità – Opere su carta. Bookshop Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Praga, 2008.
  • Selvatico (collettiva). Palazzo Sforza, Cotignola, 2008.
  • L’ombra della parola. Fondazione Tito Balestra, Longiano, 2008.
  • Di ritorno dalla Bosnia. Galleria Exhibition Art, Fano, 2009.
  • Fango Rumori Zanzare Cookies e Rock in Road. Station Gallery, Tortoreto, 2010.
  • L’Arca di Noè fa il diavolo a quattro (collettiva). Pharmacy Industry Art Venice, Mestre, 2010.
  • Twenty Pounds of Therica. Ex Convento SS.Cosma e Damiano, Venezia, 2011.
  • Fine corso (collettiva). Espace Polychrome. Namur, Belgio, 2011.
  • UBU sotto tutti gli aspetti, Lato & Figurato (collettiva). Palazzina Azzurra. S.Benedetto del Tronto, 2012.
  • Apokalips (collettiva). Grattacielo Pirelli – Palazzo della Region Milano, 2012.
  • Magie Barbare. A x A Palladino Company. Campobasso, 2012.
  • Opere sacre di sabotaggio. Pescherie della Rocca. Lugo di Romagna, 2013.
  • Corrispondenze (collettiva). Loggetta del Trentanove. Faenza, 2014.
  • PescaraArt (collettiva). Loft Box&Office. Pescara, 2014.
  • Pagine ad arte. Biblioteca “Maria Goia”. Cervia, 2014.
  • Gian Ruggero Manzoni. Museo d’Arte Moderna “Vittorio Colonna”. Pescara, 2015.
  • V International Forum – Creative Life (collettiva). Bolognano di Pescara, 2015.
  • Propositum Artis (collettiva itinerante). Ancona, Ascoli Piceno, Gubbio, Macerata, L’Aquila. 2016.
  • Le mutevoli forme. Bottega Gollini Arte Contemporanea, Imola, 2016.
  • Artisti in permanenza (collettiva). Gall. Il Melograno, Livorno, 2016.
  • Artistes Italiens Sur l’Affichage (collettiva). Chambre de Commerce Italianne pour la France, Marsiglia, 2016.
  • Eroi barbari. Galleria Il Vicolo, Cesena, 2016.
  • II Biennale d’Arte della Croazia. Museo Città di Labin, 2016.
  • L’equilibrio del guerriero. Fortezza di Radicofani – Siena, 2016.

 

 

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PILLOLE DELL’INTERVISTA A GIAN RUGGERO MANZONI

Aspettando l’intervista integrale a GIAN RUGGERO MANZONI (poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer)  domani 29 settembre 2017, ecco qualche pillola  da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.

L’emozione ineffabile dell’ascolto della voce di un Autore “necessario”.

 

GIORGIA ZECCA: L’ARTISTA CHE DIPINGE CON LA LUCE

La fotografa e pittrice Giorgia Zecca (Taranto, 1995), nel giugno 2017 ha  partecipato all’O­pen Tour presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, esponendo il trittico “Il borgo/Il mare/La luce” (recensito su questo blog)  e con lo stesso lavoro ha partecipato alla mostra MediterrArte curata dal professore Bruno Benuzzi e Enrico Ace­ti, presso la Galleria ArtForum Contempo­rary e successivamente a Beirut, in Libano.

 

  1. Stai per laurearti all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Cosa significa per te scegliere l’arte non solo come passione, ma come percorso di vita?a1

Io ho iniziato in maniera molto ingenua l’Accademia di Belle Arti, perché a Taranto non sono mai riuscita a respirare molta arte come avrei desiderato, come invece ne sentivo la necessità,  e guardavo all’Accademia di Belle Arti di Bologna come ad  un sogno. Poi, però,  già  dopo il primo anno a Bologna, ho capito che  è  la fotografia il mezzo con cui mi esprimo con maggiore verità, mentre la  pittura  – che è il corso che ho scelto di seguire in Accademia – non è esattamente la mia strada. Quindi posso dire  che ho scelto l’arte come percorso di vita, come professione,  perché mi piacerebbe tanto lavorare sempre nel mondo dell’arte, però ciò che mi appassiona davvero moltissimo è la fotografia. Infatti questi  tre lavori sul Mediterraneo (*)  scaturiscono  proprio da questa passione per la fotografia e per la mia terra.

  1. Mi hanno molto colpita le tue foto sul Mediterraneo (*). La luce è la grande protagonista. Quando decidi lo scatto, quello che insegui è la bellezza che la luce conferisce alla forma delle cose, alla loro relazione o lo stato d’animo, l’emozione che smuove in te quello che la luce è stata in grado di rivelarti in quel momento? Ovvero, è  la luce che ti svela qualcosa o sei tu che interpreti la luce?1

La luce è una cosa che sento molto dentro, proprio come uno stato d’animo. Io  vivo la luce in maniera molto emotiva da sempre,  da quando ero piccola.  Quando vado a fotografare, per me la luce è fondamentale, perché mi piace modificare le foto il meno possibile e quindi se riesco a trovare, nel posto in cui sono, la luce “perfetta”, sia per come mi sento io in quel momento sia per come valorizza l’architettura del luogo o il paesaggio, allora quello è proprio il momento ideale per scattare una foto. In generale,  quando torno a casa dopo aver visitato un luogo, sento  a pelle di aver fatto delle belle foto se c’era una bella luce, se c’era la luce “esatta”, ovvero la luce che rispecchiava il mio stato d’animo. Spesso, invece, mi capita di sentirmi delusa  proprio in base alla luce.  Magari quel giorno c’era un temporale o una giornata meno luminosa ed io,  invece,  ero molto luminosa “dentro” e quando poi andavo a scattare, non riuscivo a cogliere niente di interessante e tornavo a casa delusa. Questo mi è successo un sacco di volte. Quindi,  indubbiamente,  la luce è uno dei motivi centrali della mia vita in generale, ma anche della fotografia e del mio stile.

  1. Sempre parlando delle tue foto (*), la bellezza di quegli scogli, del modo in cui sono stati scolpiti dal Mediterraneo sta anche nel loro essere indifesi, nella loro assoluta mancanza di protezione.  L’artista, secondo te, è indifeso come quegli scogli quando lo investe l’intuizione di quello che creerà?5

Sì, siamo tutti indifesi. Un po’ in generale tutti gli artisti lo sono. L’ho potuto notare anche in Accademia. Noi artisti siamo presi dal momento,  dall’ispirazione,   ma poi quando a lavoro finito lo guardiamo insieme ai Professori, ad altri artisti o nel contesto di una mostra, siamo tutti fragili, siamo tutti  impauriti, siamo tutti spaventati. L’artista in generale tende ad essere facilmente un bersaglio. È  un concetto soggettivo l’arte, per questo   è “soggetta”  (scusa il gioco di parole!) proprio ad essere colpita anche dai pareri più brutali o a non essere capita proprio per niente. E a me è successo tante volte, anche in questi anni, di avere in mente un’ idea ben precisa e poi, quando  invece mostravo la mia opera,  veniva capito tutt’altro e mi sentivo colpita, mi sentivo ferita nel profondo, proprio perché non veniva colto il senso che volevo dare all’opera. È un continuo lavoro su me stessa, anche perché  da quelle critiche sono derivati gli spunti di riflessione per capire meglio  come mai il mio lavoro avesse dato quell’impressione e non quella che mi ero programmata di dare.

 

  1. Nel saggio “Della regola del gusto” il filosofo Hume scrive che “la bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla, e ogni mente percepisce una diversa bellezza.” Cos’è bello per te?

    3 ph violetta petrelli
    Ph: Violetta Petrelli

Per me è bello sicuramente tutto ciò che ha un fascino.  Io faccio sempre distinzione tra bellezza e fascino, perché vengo più affascinata  che colpita da qualcosa di bello e basta. Quindi se guardo qualcosa,  per essere bella per me,  deve affascinarmi, deve darmi  delle suggestioni, deve essere qualcosa che mi spinge a dei sapori, a degli odori, che mi coinvolge sotto tutti i punti di vista sensoriali. Devo essere affascinata anche sinestesicamente. Per me è bello tutto ciò che ha una luce particolare  o un aspetto che rimanda a qualcos’altro, un segno del tempo che mi fa riflettere sul passato. Infatti mi piace tantissimo tutto ciò  che è usato:  abiti usati, vecchi orologi, vecchie scatole, tutto ciò che ha i segni del vissuto.

 

  1. Il mondo non è solo come lo vediamo, è anche come lo dipingiamo per chi è in grado di farlo, come te. Quando dipingi o quando fotografi, a lavoro finito, c’è stato una volta (o più volte) in cui ciò che avevi creato aveva un messaggio anche per te, ti ha aperto alla comprensione di qualcosa di te a cui non avevi pensato prima di quel momento?
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Ph: Sara Palmiotti

Sì, è successo molte volte. Anche il lavoro sul Mediterraneo mi ha fatto scoprire il mio profondo legame alla mia terra. Nonostante  quel lavoro sia sul Mediterraneo in generale,  è inevitabile notare che comunque c’è un forte richiamo alla Puglia, alla mia terra. Nei miei lavori si percepisce questa mia mediterraneità, anche in quelli pittorici,  che comunque non vedo molto “miei”, parlano meno di me,  sono molto più forzati.

Anche nella scelta dei colori, negli accostamenti fatti in maniera del tutto inconsapevole, senza una volontà precisa, c’è sempre qualcosa di Mediterraneo:  l’accostamento del blu all’arancione e  all’oro, per esempio, e c’è anche  sempre qualcosa che rimanda alla Magna Grecia:  i colori caldi, la luce. È quanto  è accaduto con il lavoro sul Mediterraneo in cui, nell’assemblare tutte quelle foto diverse in modo da creare una profondità e  nuovi  paesaggi, il risultato finale parlava di me.  Chi le guarderà potrà, in un certo senso, “entrarmi dentro”, perché quelle foto è come se fossero me, una parte di me.

 

  1. Se potessi dipingere adesso, in questo momento, o scattare una fotografia partendo da un colore, quale useresti? E perché?9

Sceglierei l’azzurro. I colori che “mi perseguitano” da sempre sono l’azzurro e il verde. Però, in particolar modo in questo periodo, è l’azzurro  il colore che cerco e che preferisco, soprattutto in contrasto con il bianco. Mi piace anche indossarlo perché,  in questo momento,  potrebbe  rispecchiare meglio di qualunque altro colore, il mio stato d’animo. L’azzurro  è un colore molto profondo, emotivo, “lunatico” quasi, ed io sono un po’ così in questo periodo: lunatica. Quindi, indubbiamente, l’azzurro è il colore che, in questo momento, mi rispecchia maggiormente  e che sicuramente mi affascinerebbe tanto  se adesso dovessi scattare una foto.

  1. Quale messaggio vorresti trasmettere con la tua arte? Quando dipinge, quando fotografa, cosa ci sta dicendo Giorgia Zecca?4

Io vorrei infondere serenità, equilibrio. È  quello che ho sempre cercato di fare anche con i dipinti, non ho mai pensato di esprimere sofferenza, dolore, castrazione o tutti questi sentimenti che spesso invece caratterizzano l’arte contemporanea. Spesso mi è capitato, durante  questi tre anni di Accademia, di  discutere con i miei compagni e con i Professori  proprio di quanto, secondo me, sia ingiusto questo stereotipo dell’artista “maledetto” che soffre e che deve necessariamente esprimere la propria sofferenza nelle sue opere. Io ho sempre voluto esprimere la serenità, l’equilibrio.

Vorrei che la gente guardando i miei lavori si sentisse rilassata… come se stesse prendendo una boccata d’aria.

Gabriella Grande

 

Giorgia Zecca (Taranto, 6 dicembre 1995) Diplomata nel 2014 al Liceo Linguistico Internazionale Aristosse­no di Taranto, ha iniziato a frequentare il corso di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bolo­gna nell’ottobre dello stesso anno.

Nel giugno del 2016 ha partecipato alla mostra “Get out” presso la Galleria Più, curata dal pro­fessore Lelio Aiello.

Nello stesso periodo ha esposto un trittico di fo­tografie in occasione dell’Open Tour presso l’Ac­cademia di Belle Arti di Bologna.

A giugno del 2017 ha di nuovo partecipato all’O­pen Tour presso l’Accademia di Belle Arti espo­nendo il trittico “Il borgo/Il mare/La luce” e con lo stesso lavoro ha partecipato alla mostra MediterrArte curata dal professore Bruno Benuzzi e Enrico Ace­ti, prima presso la Galleria ArtForum Contempo­rary e successivamente a Beirut, in Libano.

(*) Trittico e recensione:

https://gabriellagrandeblog.wordpress.com/2017/09/11/lanima-della-luce-nel-trittico-il-borgoil-marela-luce-dellartista-giorgia-zecca/

 

L’anima della luce nel trittico “Il borgo/Il mare/La luce” dell’artista Giorgia Zecca

Giorgia Zecca (Taranto, 1995) dipinge con la luce, non la fotografa soltanto. Gli scatti della reflex come colpi di pennello, i tagli delle foto e le sovrapposizioni come si modella un blocco con lo scalpello, e la luce è il solo vero colore, tutti gli altri ne risultano diluiti, sciolti  in quella radiazione luminosa  riflessa nell’iride verde degli occhi di questa artista di soli 22 anni, che mentre mi descrive la finalità della sua composizione sul Mediterraneo “Il borgo/Il mare/La luce” è seria, attenta, concentrata su quelle foto, ferma nella sua postura eretta, come stesse ancora catturando altro di quella luce. Un diaframma i suoi occhi mentre mi parla e poi sorride con tutta l’innocenza dei suoi anni e la verità dell’arte  si  palesa  per un istante: l’artista ferma, seria, concentrata è qualcosa di più grande dell’uomo eppure è nell’uomo ed è un mistero che si manifesta  quando l’occhio dell’artista si impasta con la materia dell’arte e le dà forma.

“Il borgo/Il mare/La luce é un trittico che nasce dall’esigenza di mettere in luce la mia perce­zione dei luoghi bagnati dal Mediterraneo che ho visitato nel corso della mia vita. Attraverso la sovrapposizione di più immagini, ho creato dei paesaggi ideali, uno per ognuna delle tre dimensioni comuni in tutti quei luo­ghi: il tipico borgo di pescatori con arcate e vicoletti, gli scogli e le rocce che portano il se­gno della presenza del mare e le caratteristiche case bianche che riflettono l’accecante luce del sole.” (Giorgia Zecca)

La sovrapposizione delle foto che Giorgia realizza cerca l’incastro perfetto della luce. La combinazione fotografica salda i frammenti, le zone di confine perdono la loro delimitazione creando una capsula temporale che amplifica il potere dell’immagine nella sua possibilità di espansione  e il raggio che si disperde nei margini di una foto è nell’altra che si rigenera e si rafforza. C’è un luogo in cui si dipinge, passa attraverso gli occhi e nel trittico dell’artista Zecca  trovano nuove conferme le parole dello scrittore e filosofo tedesco Ernst Jünger: “L’ottica esteriore dipende da quella interiore e non viceversa”.

Nell’osservare il trittico di Giorgia Zecca il nostro sguardo non si ferma sull’immagine, ma la attraversa perché l’artista utilizza il plexiglass come supporto fotografico, la cui trasparenza rappresenta un’artificiale “mente vergine vuota” che  ci consente di guardare oltre, ponendo il soggetto artistico quasi sull’orlo del vuoto, orfano di un supporto, fragile, sospeso. Il Mediterraneo diventa per Giorgia un luogo mentale, uno spazio di ricerca, mare che vediamo solo  e ancora “attraverso”…attraverso la traccia che ha lasciato nel tempo su quegli scogli in cui immoto e movimento sono irrimediabilmente uniti come lo sono nelle camere dell’anima. Fotografa l’anima degli spazi Giorgia, per questo i volti sono inaccessibili, esistono solo a distanza. La foto, “liberata” dalla carta, lascia che ne affiori la profondità del mistero a cui veniva impedita l’emersione in  superficie, generando un’emozione, la più accesa di tutte: la nostalgia di un invisibile di cui quella luce ci dà percezione. La luce, nelle foto di Giorgia Zecca, è un’esperienza.

Così diceva Cézanne (“Cézanne. Dialogo di un’amicizia” di Joachim Gasquet, Edizioni Mimesis, 2010):

Chiuda gli occhi, attenda, non pensi a niente. Li apra […] che dice? Non si vede che un immenso ondeggiare colorato, no? Un’iridescenza, dei colori, una ricchezza di colori. Questo deve darci il quadro in primo luogo […]un abisso dove l’occhio sprofonda, una sorda germinazione. Uno stato di grazia colorato. Tutti questi toni vi penetrano nel sangue, vero? Ci si sente rianimati. […] si diventa se stessi, si diventa pittura.” …

…Si diventa fotografia.

Dall’Accademia di Belle Arti di  Bologna, un’artista da tenere d’occhio assolutamente:  Giorgia Zecca, che dipinge con la luce.

Gabriella Grande

giorgia zecca 2
“Il borgo” (2017), Foto stampata su plexiglass, 50×125 cm
giorgia zecca 3
“Il mare” (2017), Foto stampata su plexiglass, 50×125 cm
giorgia zecca 1
“La luce” (2017), Foto stampata su plexiglass, 50×125 cm