Aspettando l’intervista integrale allo scrittore Franz Krauspenhaar, domani 31 marzo 2017, ecco qualche pillola da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.
Aspettando l’intervista integrale allo scrittore Franz Krauspenhaar, domani 31 marzo 2017, ecco qualche pillola da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.
Venerdì, 31 marzo, 2° appuntamento con la rubrica LO SPECCHIO DELLE PAROLE.
Domani, su YouTube, PILLOLE dell’intervista.
Chi incontreremo?
Scopritelo nel promo
Nel 2016 Franz Krauspenhaar (scrittore, poeta e musicista milanese) ha pubblicato il romanzo Grandi momenti (Neo edizioni) e la raccolta di poesie Capelli struggenti (Marco Saya editore). Si avvia verso le fasi conclusive il progetto di musica elettronica Nerolux, che nasce come derivazione delle esperienze musicali maturate nei due dischi realizzati precedentemente col duo Atelier Vidocq.
Me lo sono chiesto tante volte. Significa respirare con un altro polmone, con un polmone di riserva. È una boccata d’ossigeno di fronte alle piccolezze della vita, nonostante anche la scrittura abbia le sue cose minime, naturalmente, le sue cose ridicole, le sue cose negative come tutto, del resto. È soprattutto una passione che si concretizza, una passione che ho fin da bambino, ma che per un certo periodo avevo abbandonato per fare altro e che, poi, è ritornata prepotentemente a un’età, come si suole dire, già matura.
Sai, questo rapporto non è sempre lo stesso. Dipende un po’ dal momento e dal libro. Io difficilmente rileggo completamente un libro che ho scritto. Praticamente non mi succede mai. Posso rileggere qualche brano e quando mi capita di farlo con i miei romanzi, a volte, trovo delle cose che non rifarei, sinceramente. La poesia, invece, è già un libro a sé, è come se fosse già un libro piccolissimo che, insieme agli altri libri che sono le altre poesie, formano una piccola biblioteca. Questa è la mia visione. E in quel momento posso provare un’emozione, positiva o negativa, anche un po’ di tenerezza per come avevo risolto certe cose allora e come, invece, non le risolverei più in quel modo, ma magari anche peggio! Nel senso che oggi, essendo forse più avvertito su certe cose, non mi lascerei andare come allora all’errore. Anche se l’errore è sempre da mettere tra virgolette nella poesia. Non esiste un errore vero e proprio, perché non si tratta di un errore di montaggio come nel cinema, ma è qualcosa che possiamo chiamare ingenuità. Sì, ingenuità. Ecco, oggi non mi lascerei più andare ad un errore di ingenuità.
Certo. In quel libro sicuramente la tenerezza è un’arma a doppio taglio. Scrivendo, si ripensa a certe cose – cose tenere, moti d’affetto, carezze – che possono diventare abrasive proprio perché è passato del tempo. È passato, soprattutto, un momento di esistenza che non c’è più, quella persona non esiste più se non nel ricordo. Quindi, sì, la tenerezza è un’arma a doppio taglio, però è anche una delle cose più belle che ci sono state date in qualche modo, che sono a nostra disposizione, non solo nella vita comune, ma anche nell’ espressione artistica. Però bisogna saperla maneggiare con cura, perché è un qualcosa di molto vibratile, come si sposta di un centimetro cambia quasi colore, come un prisma. La tenerezza è come una specie di gioiello che abbiamo dentro di noi e che possiamo portare come dono agli altri. È delicata e forte nello stesso tempo.
È la condizione umana questa, il più delle volte; c’è poco da fare. Siamo dei falchi, non tutti naturalmente. Tra di noi ci sono dei falchi a cui hanno tolto le zampe o che si sono, per così dire, automutilati. Nello zoo, nel bestiario umano esistono anche questi esseri, costretti a non essere liberi, liberi veramente.
Quanto costa vivere così? Costa un sacco di soldi! Però possiamo anche vivere così, pur continuando a combattere per non esserlo. Non è una condizione fisica e quindi quelle zampe possono ricrescere di tanto in tanto o anche spesso. Siamo degli animali con la ricrescita facile, e anche difficile, del resto…
È una parola che non è solo una parola. Per molti è una parola e basta, da usare a seconda delle convenienze. Per me è fondamentale. Già l’atto dello scrivere è un atto di profonda libertà. È anche per questo che scrivo: per essere libero.
Sono praticamente le due facce della stessa medaglia: senza resistenza non ci può essere esistenza e, ovviamente, senza esistenza non ci può essere resistenza. Soprattutto devi resistere alla vita stessa, a come ti si pone, ai suoi colori scuri per poter poi godere anche dei suoi colori pastellati, anche se i colori pastellati non sono poi esattamente il mio tipo di colori – io amo lo scuro, amo il nero, amo il dark – ma è per spiegare che resistere ci permette di non dimenticare che la vita è fatta anche di colori più rilassanti, più vivaci, più belli insomma. Più belli? Beh, anche il concetto di bellezza, come ben sappiamo, è sempre mutevole.
Cos’è la bellezza per te?
La bellezza può essere anche qualcosa di inquietante. I racconti di Lovecraft sono bellezza, Edgar Allan Poe è bellezza. Non dobbiamo cercare la bellezza nel cosiddetto bello classico, altrimenti ne abbiamo preso soltanto una parte. Questi esteti, che ci raccontano che la bellezza per esempio è un abito firmato, non sono artefici di bellezza, ma semplicemente della loro bellezza. Anche io ho la mia bellezza naturalmente, ma non mi considero proprio un esteta, in quanto l’esteta è molto più superficiale. Io vado, invece, un po’ più a fondo, quindi diciamo che sono più bravo io, ecco!
In quel verso c’è una punta di amara ironia, perché noi non abbiamo in mano il nostro destino, come, invece, mi dicono in molti. Credo che sia una grande sciocchezza. O meglio, lo abbiamo fino ad un certo punto, perché il destino è qualcosa che va un po’ oltre le nostre capacità, può essere semplicemente il caso, alcuni lo chiamano karma. Io non credo a nulla nello specifico, quindi può andar bene tutto, per quanto mi riguarda. Non sono sicuro di nulla e, per questo, in un certo senso mi sento libero anche di fronte a particolari credenze.
Fiducia in quello che si fa. La passione richiede fiducia, è ovvio, ma può anche autoalimentarsi, perché, soprattutto all’inizio, è normale essere molto insicuri, molto indecisi e non credere veramente, fino in fondo nel proprio valore. Il valore cresce tra le nostre mani, ma solo se viviamo nell’applicazione della nostra passione, come se la passione fosse una scienza. Dobbiamo applicare la passione giorno dopo giorno nel lavoro duro. La scrittura è un fatto di lavoro, un fatto di passione e lavoro, di applicazione anche ferrea spesso. È necessario lavorare molto, anche se oggi mi sembra che questa componente essenziale stia venendo un po’ meno. Si cerca il successo semplice, con una scrittura spesso poco profonda, poco scrittura; la maggior parte delle volte è più una redazione che una scrittura.
È un progetto musicale che si avvia verso le fasi conclusive. Naturalmente quando si lavora in autoproduzione si incontrano dei problemi che nelle grandi produzioni si risolvono subito perché si dispone di tanti soldi. In autoproduzione, invece, bisogna anche arrangiarsi con l’aiuto di professionisti che per te hanno poco tempo e che quindi per te lavorano solo nei ritagli di tempo.
Questa per me è una bellissima esperienza che va oltre la letteratura, anche se, alla fine, la considero un’ espressione artistica in qualche modo anche letteraria, fa sempre parte di quel grande contenitore di vita che è l’arte nel quale un artista può variare, usando anche altri “pennelli”. È un qualcosa di nuovo a cui sono arrivato a 50 anni, ma che come idea ho avuto sempre dentro, pur non credendo mai di poterci riuscire davvero. Alla fine, invece, ci sono riuscito in qualche modo, poi naturalmente si vedrà.
Io ho già fatto un paio di dischi di musica elettronica con un duo che poi si è sciolto. Sono stati due esperimenti parzialmente riusciti e adesso vediamo cosa succede con questo Nerolux.
La musica elettronica sperimentale ha un carattere ibrido, è un linguaggio che ignora o addirittura contraddice gli schemi rigidi ed il brano, spesso, si fonda su un incontro tra continuo e discontinuo. Sembra quasi che tu faccia una scelta di interagire con il caos piuttosto che controllarlo. È così?
Si, esatto. È un po’ la mia caratteristica anche in poesia, in parte anche nel romanzo. Hai inquadrato perfettamente la questione: interagire con il caos, mettere sul piatto vari elementi. Uno stile può essere caratterizzato anche dalla varietà dei sottostili che sono all’interno. Ci sono dei miei romanzi che sembrano scritti da persone diverse, perché per me è tutto una sperimentazione. Ma non una sperimentazione per la sperimentazione – quella non mi interessa e poi è stata già fatta – è una sperimentazione mia, personale, su di me come autore perché voglio toccare argomenti e stili diversi. Non mi accontento mai, ecco!
È il segreto della bellezza di quello che scrivi.
Non lo so. Può darsi.
Questo testo, come tutti i testi delle canzoni di Gaber, è molto bello e molto profondo, però per me il falso non è tutto. Non potrei dire la stessa cosa. È un testo per canzone e, in quanto tale, ha bisogno anche di dire il falso, per essere vero. Anche noi scrittori dobbiamo raccontare il falso per arrivare ad una sorta di verità, ad una verità parziale naturalmente. Verità parziale che è poi, spesso, anche la verità, perché non è nelle nostre capacità di umani parlare di verità totale. Però, attraverso la verità parziale possiamo arrivare ad una verità che possa essere grossomodo condivisa, se non da tutti, da molti. Ciò che è falso fa parte della nostra vita ed è ciò che ci osteggia, ciò che ci vuol fare del male. È un po’ la rappresentazione del diavolo, diciamo così. La falsità ci uccide giorno dopo giorno, ci impedisce di vivere, ci tronca quelle zampe se siamo dei falchi. Il falco che cerca di volare è sincero, cerca di fare il suo mestiere e invece il falso cerca di non farglielo fare e quindi è controllo, è mancanza di libertà, è ipocrisia, tutte cose contro le quali troppo poco ci battiamo.
Ci vuole una guerra vera a propria contro queste cose, ma non la combattono in tantissime persone perché è molto difficile e ci sono anche pochi strumenti per farla, anche se siamo in piena era tecnologica. Ma è proprio quest’era tecnologica a controllarci, per renderci sempre più fintamente intelligenti e più veramente stupidi.
E cosa è profondamente vero, per te, invece?
I sentimenti. I sentimenti sono veri. I sentimenti sono quanto di più vero. È attraverso il moto dei sentimenti che noi possiamo vivere davvero, possiamo resistere per esempio, possiamo mandare avanti la nostra battaglia, che è una battaglia sentimentale in prima istanza. A me danno del cinico, perché il più delle volte io mi diverto ad essere più cinico di quello che sono. Certamente sono uno che ha visto tante cose e non si fa grandi illusioni, quello no.
A me piacerebbe dire amore perché farei un figurone. Direi sentimento, ma non perché è la parola più bella del vocabolario, ci sono parole più belle secondo me, anche più forti, più passionali. Ecco, forse la parola passione, ancor di più, rappresenta quello che io vorrei non sparisse mai dal vocabolario e dalla vita. Sì, è questa la parola che tratterrei tra tutte: PASSIONE.
Gabriella Grande
Franz Krauspenhaar (Milano 1960) ha pubblicato 9 romanzi, 1 saggio narrativo e 5 libri di poesie. Ha fatto parte, per quattro anni, della redazione del blog Nazione Indiana e ha cofondato il blog La poesia e lo spirito e la webmagazine Tornogiovedì. Scrive di letteratura, arti e costume per riviste e giornali. A breve sarà nella redazione della nuova rivista letteraria Il Maradagal. Si occupa da qualche tempo anche di musica elettronica.
Aspettando l’intervista integrale all’attore di teatro Michele Cipriani, domani 27 marzo 2017, ecco qualche pillola da “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.
L’attore Michele Cipriani è attualmente impegnato nello spettacolo teatrale “Il nullafacente” di Michele Santeramo e regia di Roberto Bacci, in scena dal 30 marzo al 2 aprile 2017 al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci (Firenze), Fondazione Teatro della Toscana.
Il teatro per me è l’unica forma possibile di esperienza collettiva. È stato inventato per permettere all’uomo di guardare se stesso, di confrontarsi con i suoi difetti e i suoi limiti e di riflettere sui possibili modi per superarli. All’inizio era un’esperienza religiosa e, in fondo, lo è rimasta tuttora. Anzi, oggi, forse lo è ancora di più, perché in un mondo sempre più alienato, il teatro è l’unico tipo di esperienza che ti permette di vivere una comunione con gli altri, quindi, per me è, prima di tutto, una forma di comunicazione. Soltanto pochissime altre esperienze ti consentono di collegarti intimamente ad altre persone in un modo così immediato e forte. Credo che il teatro rappresenti una possibilità. Gli esseri umani senza le relazioni non esistono e il teatro è uno dei luoghi in cui la gente può – e potrà anche e soprattutto in futuro – sfuggire all’alienazione e alla solitudine, per vivere un’esperienza insieme ad altri esseri umani, e forse anche – e qui esagero, ma solo fino ad un certo punto – per continuare a sperimentare che cosa significa essere umani. Proprio per questo credo che il teatro non morirà mai. Riguardo a questo io sono drammaticamente ottimista – per usare un’espressione del teologo Vito Mancuso – perché se il teatro dovesse morire significherebbe che è morto anche l’uomo, perché vorrebbe dire che l’essere umano non ha più voglia di vedersi, di rappresentarsi.
La capacità di costruire con l’immaginazione un’altra possibilità esistenziale è una cosa estremamente affascinante, almeno per me, quindi io d’emblée non pongo nessun tipo di resistenza. La costruzione a cui mi riferisco è sempre e solo intellettuale. Io non credo agli attori che dicono di essere realmente quello che interpretano. Per me è una menzogna; non potrai mai essere veramente qualcun’altro. Quello che fai sono solo costruzioni intellettuali che, se sei bravo, risultano così credibili da coinvolgere chi ti guarda, ma non sono mai vere, perché una cosa è la verità ed un’altra è la credibilità. Non parliamo mai di verità, ma di credibilità. Io vivo sempre un certo distacco dal personaggio che interpreto perché, in fondo, non sono mai veramente io. Sarebbe terrificante altrimenti. Immagina se dovessi tutti i giorni perdere l’amore della mia vita come fa Romeo o provare rabbia per l’ingiustizia subita come Amleto! Sarebbe un’esperienza devastante, penso che un essere umano non ne uscirebbe vivo. Allo stesso modo, ci sono stati dei momenti della mia vita in cui un particolare tipo di personaggio ha toccato degli aspetti della mia anima che mi hanno messo in seria difficoltà, perché costruire quel tipo di esperienza, anche solo con l’immaginazione, è stato così forte da coinvolgermi come essere umano, nonostante io provi sempre a distinguere l’attore dall’essere umano. A me è successo, per esempio, quando ho dovuto interpretare un personaggio che faceva violenza. L’ho fatto, ho costruito quel personaggio, ma quell’esperienza mi ha lasciato degli strascichi. Certe volte si va a sollecitare qualcosa di troppo simile alla vita, e per questo meno facile da gestire psicologicamente. Anche se stai giocando a costruire un’altra vita, un’altra personalità, un’altra identità, in quel momento stai facendo un’esperienza. E anche se la fai con il dovuto distacco, può farti male.
Credo sia necessario molto autocontrollo, per non sprofondare in quelle emozioni…
Il bello di fare questo lavoro è che è un continuo interrogarsi su se stessi e su cosa significa essere umani. Ma è anche un’arma a doppio taglio, perché ci sono delle volte in cui tutta questa continua sollecitazione, da parte di esperienze meno facili da gestire nel trattare alcuni personaggi, può anche fiaccarti dentro. Ad esempio, nel mio ultimo spettacolo, “Il nullafacente” di Michele Santeramo, si parla di una persona che non vuole fare niente e ha dei motivi profondi per non voler fare niente. I quesiti che ti pone quel disgraziato, come essere umano, sono abbastanza ficcanti e si subisce la tentazione di dire: “Ma sì, effettivamente ha ragione lui! Affondiamo anche noi in quella disperazione, diventiamo anche noi assolutamente passivi!”. È necessario, per questo, un certo lavoro interiore per guardare quello che ti succede, quello che vivi sulla scena e per vagliarlo, valutarlo alla luce della tua coscienza e così sublimarlo, perché tu non ne venga schiacciato. Nel teatro si ricevono continuamente sollecitazioni di questo tipo e si è molto più soggetti alla stanchezza interiore rispetto ad altri lavori, in cui devi semplicemente eseguire delle cose senza doverti preoccupare di quello che stai vivendo in quel momento.
Il tema che affronta “Il nullafacente” mi coinvolge profondamente e mi sono interrogato molto sul significato di questo spettacolo. Concordo pienamente con la prima fase dell’atteggiamento del nullafacente, ovvero con il suo tentativo di liberarsi da qualcosa. Il primo passaggio che il nullafacente compie è, infatti, quello che potremmo definire della libertà da, attraverso il quale, arriva a scegliere di vivere una specie di ecologia interiore, allontanandosi da tutte le sollecitazioni false di ciò che lo circonda. Questo lo trovo un passaggio corretto e lo condivido. La seconda fase, invece, la svilupperei, personalmente, in un modo diverso dal nullafacente, compiendo il salto ad una libertà per. La libertà guadagnata si dovrebbe poi poter spendere, e farlo in qualcosa per cui ne valga la pena. Non è possibile non fare assolutamente niente. Lo stesso nullafacente, quando raggiunge una condizione di vuoto totale, cura il bonsai, si dedica a qualcosa, a dimostrazione del fatto che l’uomo non è fatto per vivere nel vuoto più totale, semmai per riempire il vuoto, con la propria creatività ad esempio. Secondo me, la scelta di non fare niente del nullafacente è dettata da una profonda disperazione, che scaturisce dalla consapevolezza che la persona amata sta per morire. È sicuro al 100% che la perderà e il suo atteggiamento è una difesa dalla sofferenza della vita. Bisognerebbe vedere che cosa succederebbe – ma non ne abbiamo la controprova – se lui, invece, di avere la certezza al 100% che la persona che ama sta per morire, avesse anche solo il 20% di speranza. Come spenderebbe quel 20% ?Il personaggio del nullafacente è molto umano, non una maschera, non una caratterizzazione di un’idea, e, come tutto ciò che investe la sfera dell’umano, è molto complesso, e non lo si può interpretare solo alla luce di un discorso filosofico su come dovrebbero andare le cose e su come, invece, non vanno. Questa la grandezza dei testi di Michele Santeramo.
Il proprietario è, per certi versi, lo specchio convesso del nullafacente. È molto interessante come personaggio perché lui, pur rivendicando i soldi (che il nullafacente gli deve), non è una persona avida; lui vuole i suoi soldi, la sua unica preoccupazione è riuscire a recuperare quello che è suo, sostanzialmente per lui si tratta di recuperare se stesso, questo suo se stesso che gli sfugge e che produce in lui una ferita da ingiustizia; è un problema di identità. Infatti ripete spesso: “Quei soldi sono miei, perché non dovrebbero tornare a me?” , quasi a voler significare: “Perché questa parte di me non sta con me?” Il proprietario è l’unico personaggio ad avere una spinta ideologica pari a quella del nullafacente. Ma, mente il nullafacente è quello che Brecht definirebbe “l’uomo di carattere” e prende le distanze dai bisogni della società, Il personaggio del proprietario è, invece, perfettamente integrato nella società, è una sorta di caratterizzazione simbolica dell’uomo medio attuale.
La memoria è qualcosa di molto tecnico. Ci sono alcuni aspetti della nostra professione che non hanno a che fare solo ed esclusivamente con l’aspetto artistico, ovvero il pensiero, l’anima e lo spirito che ci metti, ma che sono artigianali, puramente tecnici, e che richiedono mestiere più che anima, e la memoria, per me, è uno di questi. È uno strumento che mi consente di fare tecnicamente il mio lavoro. Conosco attori, anche molto bravi, che hanno dovuto smettere di lavorare perché non avevano memoria o perché non erano riusciti ad esercitarla, ad allenarla o a disciplinarla. Io ho la fortuna di avere un’ottima memoria, ma l’ho anche allenata, per cui riesco a imparare un copione anche in 4-5 ore, ormai. Ma non c’è niente di straordinario. È lavoro, è esercizio.
Lì c’è il motivo per cui lo faccio. La prima, la seconda, la terza,ma anche l’ultima fila sono il motivo per cui sono sul palco di un teatro. Ci sono molte falsità e ipocrisie rispetto a questa cosa, quando si afferma che non lo si fa per il pubblico, per farsi guardare. Io sono profondamente convinto che ci sia un aspetto narcisistico nel nostro lavoro e che sia ingiusto negarlo. Lo fai perché c’è un pubblico, ma, anche e soprattutto, perché speri che in quella prima fila ci sia quello che io chiamo il tuo spettatore, cioè lo spettatore ideale per il quale tu reciti. È per lui che lo fai, perché speri e credi che questa persona, ipotetica o reale che sia, capisca quello che stai facendo e il motivo per cui tu sei lì e che stia con te, mentre tu riesci a dargli veramente qualcosa. Quando succede, quando ti rendi conto che sta succedendo, si vive una delle esperienze più belle che un essere umano possa fare.
Il teatro è verità. Nel momento in cui lo si fa, solo per il fatto che delle persone, sul palco, stanno cercando di “raccontare” una storia, e delle altre sono lì, tra il pubblico, a vivere quella esperienza insieme a loro, penso si stia facendo una profonda esperienza di verità – di quella verità di cui tu parli – esperienza in cui l’essere umano illuminato, che è dentro ognuno di noi, viene fuori. Noi viviamo la maggior parte della nostra vita nell’incoscienza. Il teatro fatto bene è una pillola di coscienza che ti è dato di prendere. Uno spettacolo teatrale, quando funziona – come “il nullafacente” – è vita condensata se tu sei lì, in quel momento, al 100%. Per questo faccio una grandissima fatica, mentre lavoro, ad accettare di vedere i telefonini accesi , che siano o meno con vibrazione o in modalità aereo, perché riconosco in questo il tentativo disperato della gente di arrampicarsi ancora al fuori. Ma io vorrei poterle dire: “Almeno per qualche ora sparite dal mondo, state qua! State qua! Concedetevi la possibilità di essere veramente”. Sembra che la gente non ci riesca, abbiamo una potentissima attrazione per la dispersione e questo lo trovo tristissimo. Quella stella di cui tu parli è un barlume di vita pura che rimane intrappolata lì, nello spazio del teatro, solo quando tu vivi l’esperienza dello spettacolo pienamente, con tutto te stesso.
Tutte e due contemporaneamente. Il teatro è in piccolo quello che, secondo me, ogni uomo dovrebbe fare nella vita: ovvero cercare di dare ordine al caos della vita, così piena di contraddizioni, di cose che fanno male, ma, per fortuna, anche di tante cose che fanno bene ed è quindi piena di domande. Tramite il teatro si cerca di raccontare la vita e le esperienze di altri esseri umani, di cui se ne deve avere inevitabilmente coscienza profonda (altrimenti non sarebbe possibile raccontarle), nel tentativo di mettere ordine a questo caos. Si attua una catarsi, che è poi il motivo per cui è stato creato il teatro e che mi consente di vivere l’esperienza di un altro essere umano attraverso la quale capisco delle cose della mia esperienza di vita. Qualche volta questo ci aiuta a trovare delle risposte, altre volte fa nascere in noi altre domande, che prima di quella esperienza dello spettacolo non saremmo stati in grado di porci. Molte persone dopo lo spettacolo “Il nullafacente” ci raccontano che stanno facendo delle riflessioni sulla loro vita mai nate prima. È questo che ci fa dire che quello spettacolo è servito.
Mi è capitato, di recente, di dover abbandonare un personaggio a cui sono molto affezionato, perché purtroppo per motivi di lavoro non potevo farlo più. Non c’è esilio, ma ti rimane dentro il ricordo di un amico, di un qualcuno che è stato con te per un tempo significativo della tua esistenza e che, per certi versi, dentro di te rimane ancora. L’esilio prevede che tu possa staccarti da questa cosa, ma in realtà non è esattamente ciò che accade. Piuttosto è come avere un album di fotografie tra le mani e ricordarti delle volte in cui siete stati insieme, e le cose che avete condiviso. Questo ovviamente non accade con tutti i personaggi, ma solo con quelli che ti hanno dato qualcosa.
Quale personaggio ti è stato più amico?
Il personaggio che a me ha dato di più come essere umano si chiama Vincenzo ed è il protagonista dello spettacolo teatrale “La rivincita” di Michele Santeramo, da cui poi è stato tratto il romanzo. Vincenzo è un puro che, per una serie di circostanze, ne passa di tutti i colori nella vita, ma riesce a mantenere una sua dignità ed una sua forma di resilienza che gli permette di andare avanti. Ricordo, in particolar modo, un momento bellissimo durante l’incontro con il pubblico, subito dopo una replica, al Teatro Tatà, a Taranto. Parte dei problemi di questo personaggio derivavano dell’avvelenamento che aveva subito a causa dei pesticidi, perché faceva il contadino. I temi dello spettacolo toccavano tematiche contingenti alla questione dell’Ilva – peraltro il Tatà è un teatro che sorge proprio sotto le ciminiere dell’Ilva – e nel confronto con il pubblico abbiamo affrontato anche i problemi della città e della gente che vive lì. È stato un momento molto significativo per me, perché si è ricollegato molto alla mia storia personale. Mia nonna abitava in via Grazia Deledda, quindi proprio di fronte all’Italsider, ed ho avuto la percezione netta che il personaggio di Vincenzo fossi io ed anche quello che vorrei essere, il riscatto che vorrei raggiungere, riuscendo a fare lo stesso tipo di lavoro interiore e lo stesso tipo di percorso psicologico. Credo che quello sia il personaggio che mi è rimasto più amico.
L’attore è un’anima nuda. L’attore, diceva Artaud, è un atleta del cuore. È un cuore che si muove, che si tende al massimo, che non può avere barriere, difese, esposto ad una continua sollecitazione emotiva. È necessaria una grande forza d’animo perché, spesso e volentieri, le cose che fai ti provocano dolore oppure, banalmente, non riesci a farle. Non sempre riesci a fare quello che gli altri ti chiedono e credono che tu possa fare e questo significa essere esposti sempre alla possibilità di un fallimento. In realtà non riesci mai a raggiungere la pienezza neanche durante una replica, perché dentro di te hai delle idee più grandi di quello che potresti fare rispetto a quello che concretamente fai.
Non so quanto potrebbe essere interessante questo personaggio, ma delle cose da dire le avrebbe. Però, quando ti concentri troppo e pensi di dover dire delle cose interessanti, probabilmente finisci anche per essere banale. Forse proverei semplicemente a raccontare la mia storia, cercando di coinvolgere il pubblico senza preoccuparmi troppo di quello che potrei dire. Penso che sia giusto così e che tutti i grandi personaggi ragionavano in questo modo. Voglio pensare che Amleto, quando si chiede se convenga essere o non essere, lo faccia per una sua riflessione personale e tutta la discussione che si crea intorno a questo dilemma, poi, sia sorta solo perché lo spettatore che guarda, si sente interrogato da quel dubbio. Sarebbe interessante chiedersi se Amleto quella domanda se la fa per sollecitare degli interrogativi in qualcuno o se la fa semplicemente perché se la fa. In effetti, se ci pensi, credo che sia molto più probabile che sia così. C’è lui in quella stanza che si chiede, come tutti: “Ma io che cosa campo a fare?” E tutto quello che ne consegue deriva semplicemente dal fatto che quella questione è così umana! Lo pensiamo tutti! Ed è dirompente proprio per questo: perché lo proviamo tutti. È un’esperienza dell’anima. Ecco, se interpretassi me stesso sul palco direi:
“Guardatemi così come sono. Così come sono”.
Gabriella Grande
Michele Cipriani si è diplomato alla Civica Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano nel 2000.Tra gli spettacoli in cui ha lavorato ricordiamo: Hedda Gabler (Teatrino Clandestino. Regia di Pietro Babina), La Bottega del caffè (Teatro Filodrammatici. Regia di Paolo Giorgio), La Rivincita (Teatro Minimo. Regia di Leo Muscato), Alla Luce (Pontedera Teatro.Regia di Roberto Bacci), Lear (Pontedera Teatro. Regia di Roberto Bacci). Dal 2009 collabora con il Teatro Kismet di Bari con cui ha messo in scena gli spettacoli: Il Malato Immaginario, Il Paradosso del Poliziotto, Vite Spezzate. È cofondatore, insieme all’attrice Arianna Gambaccini, della compagnia KilkoaTeatro.
Lunedì, 27 marzo, URAGABRY EFFECT inaugura la sezione di interviste: “LO SPECCHIO DELLE PAROLE”.
Ospiterò attori, scrittori, poeti, giornalisti, cantanti, e quanti hanno fatto della loro passione una ragione di vita.
Lunedì incontreremo un attore di teatro – date un’occhiata al promo per scoprire chi è 😉 – perché credo che il teatro, più di qualunque altra forma d’arte, rappresenti una domanda, inesauribile; uno spazio sempre vergine in cui l’incontro tra attore e spettatore è una genesi di possibilità, di “spiragli”, di tutto quello che dobbiamo difendere e salvare: la nostra umanità, la nostra verità.
Continuate a seguirmi 😉
Gabriella Grande
Come ci si salva da questo orrore?
È tua la ragione da quella sera:
amare senza innamorarsi,
riempirsi
senza occupare il vuoto
che ci tiene alta la testa.
Ci si tinge fino a perdersi
nel fango
e la traiettoria è sempre uguale.
Scompariremo in un orgasmo
colpevoli di essere scampati
al suicidio perfetto
dell’amore.
Gabriella Grande©, 2016 Riproduzione riservata
(Antologia “Amori liquidi – Sogni, sentimenti e fragilità delle donne”, edit@, 2017)