Rivista “UT”, n°56, 2016, 10° anno

Chi sono io?

Non riesco a vedermi senza di te.

Non che tu mi vedessi bene,

ma nella tua immagine deformata di me,

così poco chiara,

io potevo riconoscere

i contorni non veramente miei.

Per difetto della tua visione

si acuiva la mia

che ora, invece, si oscura

come questa scatola.

Ma è la mia mano che fa ombra.

Se ci fossero i tuoi occhi

ci sarebbe luce

in questo quadrato di cartone.

Non illumineresti il contenuto,

ma il visibile per te,

che mi rassicura

perché mi fa dire se quel che vedi

si offre anche a me uguale o contrario.

Se incontro i tuoi occhi

vedo ciò che esiste davvero, o per me.

Siamo ciechi soli.

Ad occhi spalancati

bruciamo il mondo

come una fotografia

scattata di fronte a troppo sole.

La luce deve abitare le spalle

per poterla vedere riflessa nei tuoi occhi

quando mi stai di fronte.

Ma se non ci sei il raggio si perde

e cosa vedo quando vedo io?

Solo nuvole.

Gabriella Grande©“Siamo ciechi soli”, (UT, “Le nuvole”, n°56, 2016, 10° anno) Riproduzione riservata

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“GRANDI MOMENTI” di Franz Krauspenhaar

Avrete voglia di rileggerlo, perché quando sarete arrivati al punto dell’ultimo rigo dell’ultima pagina vi mancherete. Sì, vi mancherete, perché “Grandi momenti” di Franz Krauspenhaar ci ricorda che ci siamo persi, cedendo il diritto di vivere alla paura, alla delusione, alla rabbia.  La sua scrittura brucia come una ferita segreta, che è poi ferita di tutti anche se, a volte, ne siamo a malapena consapevoli, e attraversa il vuoto in una solitudine proverbiale, imprimendo sulla pagina bianca la verità delle colpe del mondo che sembrano saltare addosso “come una muta di cani”, che apre le fauci per ricordarci che

“siamo tutti vittime di questa vita. Agnelli sacrificali di una pasqua che, a ogni insorgere, ci trova soli, incapaci di renderci felici.”

Materia narrativa incandescente frutto dell’inquietudine e della consapevolezza del poco tempo che ci rimane a disposizione, per vivere e non solo sopravvivere. Ad una lettura superficiale questo romanzo racconta  la storia di Franco Scelsit, uno scrittore cinquantenne, appassionato di macchine anni ’60, che vive con la madre ed il fratello  e la cui esistenza  viene stravolta da un infarto che lo costringe a ripensare alla sua vita e a condividerla,  per qualche tempo, con un gruppo di persone che hanno dovuto affrontare la stessa brusca frenata del cuore. È uno “scrittore vero, scrittore dentro”  che, pur credendo nel suo talento, vede arrivare il riconoscimento economico  solo quando, svalutandosi “ai suoi occhi”,  accetterà di pubblicare per un editore da autogrill, sotto pseudonimo, thriller  senza nessuna avventura del cuore, perché “il mondo della cultura è strano. Si dibatte nel nonsenso, nella incongruenza si frulla e impazzisce come maionese acida”.

Ma “Grandi Momenti” non è solo questo…è molto di più! È un infarto dell’anima, di un uomo che ama la vita disperatamente, ma che resta intrappolato nella rete della disillusione;  è  un urlo interiore fasciato da una forza ostinata e da una volontà percossa ma che sa e vuole resistere, ferma davanti ad un “senso di fine” che scava, come le parole che Krauspenhaar sceglie con cura, con precisione chirurgica e con la bellezza con cui solo la poesia,  di cui Krauspenhaar  è capace,  può cucirle. È “l’urlo della nostra disperazione, del dolore che ci invade anche solo come idea”, mentre fuori e interiormente  “è quasi freddo” e “il tempo è evaporato” a smaltire la vita in una realtà stretta, chiusa, impenetrabile in cui “tutto vive e tutto muore in quel momento” e in cui il nulla è in agguato come un predatore. Franco Scelsit è un reduce della guerra che è la vita, soldato che combatte da solo una guerra che per molti è  finita già da un pezzo. È  un manifesto vivo  del furore murato in una mente lucida, tagliente e vigile  di un combattente  che si è imposto di rinunciare  a tutto pur  avendo  ancora “sete” di “desiderare di desiderare” in un mondo in cui  “ottieni e non desideri, o fai finta di desiderare.” Franco Scelsit  vive come un equilibrista,  in bilico tra due vite “una dentro e una fuori”, accucciandosi poi, per proteggersi, nel guscio della sua famiglia. Una madre apprensiva, ma dalla grande forza interiore, un fratello che ha fatto della sua creatività una bolla da cui osservare il mondo con la saggezza di chi ne ha operato un distacco volontario e Franco Scelsit : marinai,  soli nel loro corpo,  su una zattera  di familiare sicurezza e che, stretti nell’ amore sincero che nutrono l’uno per l’altro,  azzerano, anche se solo per poco,  il rumore del grido delle loro ferite, per le quali non c’è balsamo. La verità della sua essenza Franco Scelsit  la trattiene chiusa dentro di sé, comprimendo  l’immensità del suo essere nello spazio del suo corpo di cui ne ha fatto un bozzolo: “io sono qui, dentro di me” , mentre all’esterno cede solo il suo riflesso deformato dagli specchi frammentati dell’editoria e della cultura, di “un mondo ormai  infossato senza emozioni, senza vere dannazioni” in cui si può finire  per pensare di non desiderare altro “che prolungare” se stessi “dentro un burrone”. Ed è la fine desiderata per sé quella a cui condannerà, invece,  la sua Jaguar di cui parla come di se stesso quando si legge: “una belva così non può carcerarsi” per poi inabissarla in un burrone. Krauspenhaar ci lascerà oscillare nello spazio sospeso  tra la sua ironia reattiva e una rabbia carica d’amore di un cuore che “è una belva fuggitiva” (come recita un verso di una poesia di Krauspenhaar) in esilio dalla realtà per  recuperare la verità e il senso delle cose, per stanarla come una preda, la più difficile da catturare nei miraggi del deserto di una vita che attraversa, stando sempre “dietro a se stesso e ai suoi fantasmi”, ustionato dal distruttivo bozzolo di un  passato da cui si lascia risucchiare e che innesca cortocircuiti di vertigini interrogative. Il rumore del passato soffoca il futuro e falcia il coraggio di andargli incontro. Il  pensiero conflagra più volte nelle fiamme della visione di una lepre in cui riconosce la figura del padre, la cui morte ha segnato la fine della sua giovinezza. In queste visioni recide e riallaccia all’infinito il suo rapporto con la figura paterna, la cui presenza non si sfila dalla sua mente, indebolendola progressivamente. La scrittura insegue una mancanza e non cura il dolore di questo distacco, non restituisce  quella testimonianza etica  all’agire del padre, che sarebbe invece necessaria al figlio per poter finalmente assumere i suoi valori senza sentirsi in colpa e per riuscire ad interiorizzare la figura paterna come uno scudo e non come una “lepre” sfuggente, la cui immagine si associa all’angoscia di vederla scomparire da un momento all’altro. Franco Scelsit  è un Orfeo che si volge indietro e non per guardare il bel volto di Euridice ma per chiedere al passato la via più giusta, una nuova possibilità, invece di restituire l’ assenza al suo posto; l’assenza deve restare alle spalle,  perché avanti può esserci  ancora tutto. Non c’è scampo allora per Franco Scelsit, come non ce ne fu per Orfeo? In questo caso c’è salvezza. Ha una funzione di compensazione il ritorno al passato. Costringe il futuro a rallentare, è un’operazione di scrittura che in questa “follia” dell’oscillare tra presente e passato,  crea uno spazio di sospensione per il protagonista e per il lettore che  indica una via di salvezza: rallentare è la salvezza, rimettendosi in ascolto del proprio ritmo interiore e non del passo della rincorsa del tempo. A suggerirlo è la musica che accompagna l’intera trama del romanzo. È la musica, consolazione e compagna fedele in queste pagine, pausa del pensiero in cui Franco Scelsit ed il lettore respirano, ad aprire la via, a rivelarci il segreto.  È musica che ha la  potenza di una religione, è l’entrata di una voce, l’ultima…che sembra dire: danza la vita, segui il ritmo, respira, rallenta e vivrai quei grandi momenti che aspetti, perché  “alla fine, si va dove ci aspettano i sogni.”

Gabriella Grande© Riproduzione riservata

 GRANDI MOMENTI copertina

AMARE NON BASTA

Non basta amare, bisogna anche avere la “presenza mentale” per amare. Si deve saper rimanere presenti a se stessi in quel “noi”.

Se si perde il controllo non si può amare davvero, perché l’amore vero è la sublimazione del controllo, è sapere perché lo fai.

È “grande amore” quando si ama con la testa sulle spalle, non quando la si perde, perché in quest’ultimo caso non c’è limite agli errori che si possono fare.

L’amore sarà tanto più vero e forte se si esprimerà nella piena libertà e nel pieno possesso del nostro essere.

Gabriella Grande©

Arnold Schönberg, Oskar Kokoschka in memoriam (1910).jpg
Arnold Schönberg, Oskar Kokoschka in memoriam (1910)

COME SANTI SENZA MEMORIA

Interroghiamo la vita

cercando ragioni di sopravvivenza

tra le archeologie dell’anima.

Il frutto è maturo solo quando

arriva la poesia

a sciogliere le domande

e il senso, per poi legarlo in un inferno

in cui non si viene mai a capo del mondo,

ma si gela,

come santi senza memoria.

Gabriella Grande©,  2016 Riproduzione riservata

 

(Ph: Donatella Muggiu)

 

 

Cara Jeanne…

 

Parigi, 18 gennaio 1920

 

Jeanne, mia Jeanne, mia, mia, mia Jeanne,
se avessi un solo giorno ancora per dirti che ti amo, in assenza di grazia, mi coglieresti in flagranza di reato. Non ruberei parole nel fiume in piena delle cose, non raschierei fino alla conoscenza le radure del pensiero, non immergerei la mia lingua negli umori del mondo, perché l’inquietudine vestirebbe a fatica la mia necessità di arrivare a te con le mie ultime parole, scioglierebbe stirpi di strutture nervose per condurmi al disastro della smania di un’ ultima frase, di un ultimo verso, il conclusivo, unico, necessario frammento di un amore detto sempre male. Ho parole che si dissolvono ora, sulle ginocchia della pietà di questo disordine mortale che guarda alla tua rocciosa immanenza nel mio cuore come ad un simulacro.
No, non voglio sbagliare.
Non ti coprirei che di parole in agonia, di una delirante faida di parole in lotta contro questo giorno, l’ultimo per noi. Se avessi un solo giorno ancora per dirti che ti amo, ti lascerei il mio silenzio, invece.
In esso, amore, vedresti nascere la morte delle mie parole per te.
Sarebbe il segno della resa ad un dialogo più naturale, il solo in cui abbiamo parlato più profondamente, più intimamente io e te. Crollerebbero le montagne di parole in questa necessità di prosa della fine. E del mio silenzio tu sapresti cosa farne: pianura di tenerezza, di speranza, di consolazione. Ti lascerei – vedi? – in eredità un posto. Non più parole, ma un posto, in cui abitare, senza dover avere più alcuna paura di cadere.
Sarà il silenzio la mia ultima parola per te, amore.

Tuo, Amedeo

(Gabriella Grande© Riproduzione riservata)

NOBEL A BOB DYLAN? Sì

 

L’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura 2016 a Bob Dylan ha sollevato numerosi dibattiti a cui voglio aggiungere il mio personalissimo parere, da amante della letteratura quale sono. Io credo che non si possano comprendere le ragioni di questa assegnazione se non si riflette su una domanda:

“Che cos’è la letteratura?”.

Per me la letteratura è un colpo di scalpello. È la possibilità che hanno le parole di “scolpire” la realtà e non solo di rifletterla. I testi delle canzoni di Bob Dylan sono impregnati di questa possibilità.

In “Blowin’ in the Wind” Bob Dylan si chiede:   “Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?”. Vi invito a rispondere a questa domanda e, quando avrete trovato la risposta, il numero di quelle strade rappresenterà tutte le forme in cui la parola ha essenza di letteratura. In quella risposta c’è il perché del Nobel a Bob Dylan…almeno per me.

Gabriella Grande©

bob_dylan_2015

 

Cara Paola…

Che forza hanno le cose, Paola!

A volte possono farci riabbracciare anche chi non c’è più, ma dal  cuore non si è mai congedato,  come se, d’ improvviso, si accendesse il vuoto che ci separa e il silenzio.

Oggi, mentre ero in attesa del mio turno alla posta, seduto accanto a me un signore curvo sotto il peso di zuppi brandelli di pensieri quotidiani, diversi dai miei ma vicini in quella prigione dell’attesa, ha sfilato dalla tasca della giacca tre caramelle all’orzo e, per ormai rara cortesia, me ne ha offerta una con una voce rauca e tenera. Lo so, non si accettano caramelle dagli sconosciuti, ma a questa, che mi ha raggiunto come una vertigine di aria tersa al punto da stanare in me il sole di un ricordo, a questo fiore per l’anima in cui sono affondati gli occhi come in una carezza, non ho saputo proprio dire di no.

Paola! Caramelle all’orzo!

Ce le portava sempre zio Mauro quando veniva a trovarci con la sua luminosa dolcezza, con quella corrente calda di vitalità screziata di allegria, colma, sempre, di regali per noi.

Ti ricordi?

Io ne andavo matta,  nonostante il gusto non mi piacesse per niente; quelle caramelle erano insaporite del tanto di buono che c’era in lui.

Anche oggi, a suo modo, è venuto a trovarmi  e, ancora una volta, mi ha portato le sue caramelle. Non si dimentica mai!

Te ne ho imbustata una insieme alla lettera,  così queste poche righe sapranno di orzo, di un ricordo che ha la forza di un abbraccio.

Non mangiarla!

Anna

(Gabriella Grande© Riproduzione riservata)