LA SIGNORINA ELSE DI ARTHUR SCHNITZLER

È rosso il maglione che “veste” Else quando la incontriamo nelle prime pagine di questa famosa novella, La signorina Else, di Arthur Schnitzler: forse è un primo, destinale indizio dello schiacciante senso di colpa e di vergogna che poi la indurrà audacemente a “spogliarsi” di tutto, finanche della propria vita.

Else sceglie la morte, e così lascia interrotto il proprio monologante rovello interiore, un denso flusso di coscienza che, nello spazio di un solo giorno, trascina sogni, speranze ed illusioni verso il baratro del nulla. Else, 19 anni, bellissima, ma “tutta sola, così terribilmente sola, come nessuno può immaginare”; sconosciuta anche a se stessa, cerca in qualche modo di darsi forma e sostanza “leggendosi” attraverso gli occhi degli altri.

Di lei ci vien detto che è altera, misteriosa, demoniaca, seducente: emana una sorta di malia di cui però è del tutto inconsapevole. Nella sua giovane vita non mancano germogli di possibilità che, tuttavia, nel bel mezzo di una spensierata vacanza, verranno di colpo raggelati da una lettera della madre. Costei avanza alla figlia una proposta avvilente, umiliante: per evitare che il padre, noto avvocato, venga arrestato a seguito di una vicenda in cui è implicato, sarebbe necessario reperire una ingente somma di denaro da un ricco amico di famiglia, il mercante d’arte Dorsday, il quale è pronto a sborsare l’intera somma, a fronte di una particolare, quanto oscena, richiesta: Else si dovrà mostrare a lui totalmente nuda.

“Da lei non pretendo altro che di poter restare un quarto d’ora in ammirata contemplazione della sua bellezza”

E’ il laido ricatto del signor Dorsday. Else affonda allora nelle sabbie mobili della colpa e della vergogna. Nel tentativo di resistere, mente a se stessa, fino all’autoinganno, ma la presa di distanza difensiva dalla realtà è nient’altro che un buco nero apertosi nella coscienza, nel quale tutto precipita. Questa profonda lacerazione è innescata dall’evento choc, certo, ma essa ha anche preso lentamente forma nel corso dell’esistenza scialba e opaca che Else ha vissuto.

Nella prigione asfittica della solitudine e della incomunicabilità, senza nessuna possibilità di intimo confronto con l’altro, Else si è lasciata abbacinare dall’oscurità delle parole e delle esperienze non vissute: con questi brandelli di tessuto ha coperto, ma non vestito, la sua identità; orpelli deformanti l’hanno costretta a pensarsi e a costruirsi non dall’interno, ma dal di fuori, attraverso le superfici vuote degli sguardi e delle parole altrui, in cui lei ha cercato, come in uno specchio, un riflesso della propria immagine. Adesso sarà proprio questa immagine di sé quale lei vede rispecchiata negli occhi degli altri (“la figlia del truffatore”, “la mendicante”, “senza nessun talento”, ”la sgualdrina”, “la meschina”, “la vigliacca”) a darle il tormento e a consumarla.

Le speranze deluse, il grave senso di smarrimento, un’inquietudine che non trova pace, la solitudine sempre al proprio fianco, sono il corteo prodromico di quella morte che, alla fine, Else assumerà su di sé come estrema possibilità di vita. Una morte che lei sceglie come compagna, lasciandosi quasi dolcemente prendere per mano da essa, una morte di pietà, morte di pudore, che scioglie “da tutte le creature e da ogni tristezza”, come recita Quasimodo. Una dose letale di Veronal libererà in volo le ultime percezioni di Else, che abbandona quasi in estasi il deserto della sua vita.
E mentre “vola”, … è bella Else! Bellissima.

Gabriella Grande© Riproduzione riservata

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QUANDO PERDONIAMO DAVVERO?

Le scuse sono un atto formale. Quando perdoniamo davvero una persona? Quando ci chiede scusa? Non credo sia possibile. Perdoniamo quando capiamo le sue intenzioni, le modalità in cui quella situazione si è determinata. Solo questa operazione di elaborazione permette di smontare le ragioni di un conflitto. Se, invece, tutto rientra in offesa e scuse si resta in un ambito formale e forse, la prossima volta, ci diremo cose ben peggiori.

Gabriella Grande©

 

(Ph: Gonzalo Benard)

CARA DELIA…

Sì, ci penso spesso alla tua domanda, cara Delia,

bella la tua lettera e amara, come gli errori a cui non siamo sfuggite, nel tentativo di sfiorare la felicità.

Ma tu ricordi davvero cosa ci dicevamo di voler fare “da grandi”, in quell’età in cui, nel forno del tempo, tutto il possibile sarebbe potuto lievitare e farsi pronto, senza diventare cenere? Io credevo di averlo dimenticato, che si fosse dissolto nella costruzione di questo eterno futuro che, a volte,  si scrive come  un testamento. E, invece, riaffiora qui, ora, vorticoso dall’oblio della memoria. Tutto quello che crediamo sia andato perso resta, al contrario,  incastonato nella nostra mente, in gabbia, zoppo  e freddo nel fondo, ma vivo e ad averlo creduto morto è solo il nostro peccato di confusione.

Io… sognavo di fare la pasticciera.

Troppo golosa per non lasciarmi commuovere da quei fabbricanti di dolcezze!  Ma ho lasciato che il motore dei miei desideri rimanesse immobile e il sogno si è addormentato senza custode e nello svegliarsi si sarà ritrovato al largo ormai, affamato di cibo e acqua, che non mi ero premurata di lasciargli. Non mi sono più neanche chiesta che cosa ne fosse stato poi, spaccata come sono stata dalla stretta delle necessità.

Ma ti confesso che, ancora oggi, mi consola la bellezza di quelle persone che hanno il desiderio e la volontà di fare della propria esistenza quasi la preparazione di un dolce, perché la vita, Delia, avrà il gusto che le sapremo dare.

Sì, ora ricordo bene cosa volevo fare da grande: la “dolce” vita!  Ma,  dopo tutti i miei errori, che ancora bruciano tra carne e ossa, solo oggi credo di sapere come  si possa fare.

Imparo la lezione del passato, costruisco pensando al domani, ma vivo il presente: bicchiere d’acqua per la mia sete.

Non sappiamo cosa ci riserva il futuro, se ci attendono ancora giorni affogati di deserto o distillati di  oceani, ma possiamo decidere il “modo” in cui presentarci al suo appuntamento.

Non so tu, ma io voglio arrivarci “idratata”.

Dolce vita, Delia, e…”bevi”, “bevi”, “bevi”.

 

Margherita

 

(Gabriella Grande©, 2016  Riproduzione riservata)

 

LETTERE SENZA INDIRIZZO

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Ciao, amici ^_^

A partire da lunedì p.v., il mio blog si arricchirà della sezione “Lettere senza indirizzo”, quelle lettere che, ormai, non si scrivono più. Ma quante  emozioni, se fossero fermate per più di qualche momento, fino a prendere corpo in una lettera, non si perderebbero nel flusso inarrestabile degli eventi!

Scrivere una lettera obbliga a stazionare nell’emozione che si è provata, per  il tempo  e nello spazio in cui le parole, con i loro ritmi, con i loro incastri, finanche con i loro travestimenti, si sono assemblate in un corpo pieno che proclama tutta intera la ferita o la gioia da cui quell’emozione è emersa.

Se non le si ferma su un foglio, invece,  sono tante le emozioni che si lasciano cadere nel vuoto, ed è così, a volte, che le si dimentica.

Ho immaginato, allora, di scrivere delle lettere, lasciandomi suggestionare dalle emozioni che altri hanno provato nella realtà o che mi hanno suggerito la lettura di un libro, di una poesia. Ho immaginato di scrivere su commissione, come Florentino Ariza nel romanzo  “L’amore ai tempi del colera” di  Gabriel García Márquez.

Sono  “lettere senza indirizzo”, perché  rivolte a quelle voci che si interrompono, a quelle emozioni che si sono perse quando, dallo scaffale della vita, c’è chi se ne è disfatto credendo di non saperne che fare.

Ne posterò una ogni lunedì. Stay tuned  😉

Gabriella

 

 

 

 

È QUASI L’ORA DI VIVERE

 

Ti ho visto

in sella al tuo delirio d’amore

inseguire il fantasma di un addio

per riabilitarne il cuore    alla fine della corsa.

Come lo zoccolo s’impasta di acqua e fango

ad ostacolo vinto e perduto!

Sarà uno strappo

in cui ti infilerai come un ladro

a riprenderti il tuo posto in quell’unica casa

che non fu

mai

compiutamente tua.

E, forse per questo,

l’unica

a cui hai scelto di appartenere

come un figlio disperso

come un cane

lasciato sul ciglio della strada a dimenticarti.

Sto a guardarti,

mentre non vivo e neanche tu,

e ti lastrico di specchi le parole.

Catturato il sole, hanno l’ordine

di tenerti caldo

fino al

salto

che farai,

che nessuno  potrà impedirti di fare.

 

E se,

in quel cuore

scoprissi del civico sbagliato

se ti affacciassi a quel fuoco e lo trovassi             cenere

se il frigo fosse                                 vuoto

ed il camino occupato

se il cielo fosse fi__lo

e la credenza

 

un abisso

vestiresti ancora quelle pareti della tua Ultima Poesia.

Ma prima,

infila una mano nella tasca,

la destra, non ti sbagliare.

C’è una bustina del tè.

Ho comprato le madeleine

ed è quasi  l’ora

qui da me.

 

Gabriella Grande©, 2016  Riproduzione riservata

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Ph: Oleg Oprisco

SE NON CI FOSSERO DISTANZE

Se non ci fossero distanze! Me lo ripeto troppe volte per  non chiedermi cosa accadrebbe davvero se non ci fossero.

Ho provato ad immaginarlo.

Mi ha colto la vertigine di vedere sottratti i dialoghi di sguardi, la quiete delle cose viste in lontananza e di non poter più stare sulla riva di pagine meravigliose a guardare Odisseo che lascia la sua casa per prendere il mare. Mi ha investito la nausea della perdita dell’esperienza del mio corpo nell’ascolto, nel movimento, nel dialogo interiore (la più grande distanza è l’interiorità).

Resta dove sei e aspettami o vieni e raggiungimi. Desiderio e accoglienza.
Mi ritrovo, allora,  a benedire  la distanza, esclusivo modo di abitare il mondo in grado spingerci al coraggio e all’affanno della ricerca di altri occhi in cui approdare, come in un porto, come in una casa.

Gabriella Grande©

OCCHIO E ORECCHIO – PIER DAMIANO ORI

“Prendi la lampadina ancora accesa” ed entriamo in questa prosa poetica come in un Tempio in cui il poeta Pier Damiano Ori celebra la fenomenologia del quotidiano, con la sobrietà dei filosofi, mentre aspetta. E l’attesa  si consuma  sulla soglia di una domanda: “È la morte che ci sta davanti? O è il futuro?”.  Abbiamo poco tempo per rispondere  e “nessuno ha il potere di infrangere quelle porte” mentre il tempo e il soggetto mutano continuamente, a testimoniare che “la storia è adesso”, in un presente in cui c’è tutto, ma un tutto che è “finito in un motore spento”. Lucida prosa poetica che si scrive mentre scende la notte ad  azzerare tutte le immagini, lasciando solo la “vista ad occhi chiusi” e “tutta intera la paura della fine”. Però a  sorprenderci, tra le rotonde e gli svincoli di questi versi, non troveremo la morte, ma il distacco e avremo freddo in questa solitudine in cui ognuno ha il suo posto, un orizzonte soggettivo e confini incerti. Ognuno ne  traccia i propri, chiuso in se stesso, nella sua tempesta, e non c’è sguardo che s’incontri e si riposi nell’altro. Ad incrociarsi sono solo le paure mentre ognuno è vinto in se stesso,  “fissandosi allo specchio”.  E la vita  è un’opera chiusa in cui accordarsi sulla fine e sull’inizio è impossibile. Ori questo lo sa, non lo dimentica mai,  e decide che è possibile  solo aspettare senza però aspettarsi qualcosa. È un’ attesa in cui il poeta lascia che dorma un desiderio che ci concede di intravedere in quegli spazi lasciati, di tanto in tanto,  tra le parole;  spazi più lunghi, pause tracciate da un pensiero zuppo di un desiderio che intasa il cuore, senza tormentarlo. È  un’attesa pacata, “tenue”, priva di polemica e che richiede una “sontuosa forza d’animo” ed un posto, che, per Ori, è rappresentato  dal soggiorno/salotto. Ma “i luoghi sono diversi se lo vogliamo” e per Ori, infatti, quel luogo non è più solo un posto fisico, ma uno spazio in cui lui s’infila e quasi scompare “nella giostra dei suoi pensieri”. Ed è proprio il pensiero la forza e il carburante  del poeta. Il discorso poetico di Ori ci suggerisce uno stretto collegamento tra pensiero ed organi di senso. L’effetto della funzione di un organo trova il suo significato nel pensiero, che capta il senso profondo della manifestazione delle cose e degli eventi. Da qui, credo,  il titolo di questa raccolta, “Occhio e orecchio”. Il poeta è “orecchio attento”, inteso come ascolto profondo della voce e del significato delle cose, mentre con l’  “occhio”  della mente si apre alla visione di un mondo in cui “c’è il sole” e “un fuoco sempre acceso”. Ma Ori ci avverte che “non tutto il calore scalda davvero” ed è per questo che, mentre il “mondo apre la finestra in cerca di gelo vero” e usa il sonno come un’arma, “la finestra a tutta parete” del poeta è chiusa. Non è un riparo dal sole, ma dal “ghiaccio unito al sole”, non è un voltare le spalle al giorno, ma al vuoto…Mentre aspetta, ma cosa? La “chiave nella toppa del portone” che dischiuda quel suo mondo di solitudine, che lo faccia risvegliare, restituendogli l’impulso e i colori della giovinezza nel pensiero, colori che sono assenti ormai. Dalla sua attesa ci congeda con un saluto ed una domanda: “Sei cresciuto?”. E mentre ci interroga, ci lascia più ricchi, di versi che hanno il peso e il valore di un’eredità:  “Se qualcuno ti chiama per nome, rispondi sempre”, “se no chiudi la porta e non scordarti mai”.

Gabriella Grande©, 2016  Riproduzione riservata

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BRUCIA LA MIA PENA

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Ph: Violetta Jenn

Non hai neanche provato

ad amarmi.

Mi tiene alta un lampione

mentre sputa

le lacrime che non userai

come polvere di fiori e stelle.

Ma niente è vero,

neanche questo silenzio

in cui brucia

la mia pena.

Inseguo la tua ombra

e dimentico di contare i passi.

Non conoscerò mai

il tempo del tuo andare.

Se era uguale al mio

o su quale battuta

l’avrei potuto recuperare.

Ha vinto la geometria

e l’algebra è sola

e non mi renderà il conto

neanche con un ricatto.

Seguo allora i passi di un cane,

ma si ferma in una Chiesa

e lì si acquatta

e va a dormire.

Che me ne faccio del qui pro quo

quando un “per” ed un “diviso”

mi avrebbero potuta salvare?

 

Gabriella Grande©, 2016  Riproduzione riservata

 

IO CERCO VERITÀ

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Ph: Logan Zillmer

Io cerco verità nel ventre onnivoro del tempo. Perché, esclusa la verità,  si può creare  solo un orizzonte in cui sono possibili tutte le sfumature, allo scopo di giustificare tutto, al fine di garantire la convivenza e la tolleranza. Ma nel tentativo di svuotare l’arena, ci si ritrova solo con un’arena occupata, invece, dalle idee di ciascuno.

Gabriella Grande ©

IL MIO CREDO

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Non è mai troppo tardi per niente, se non per scoraggiarsi.

Io credo nel valore, io credo nell’unica forma di potere invincibile: la volontà.

Io credo negli uomini che non si arrendono alle logiche di mercato, ed inseguono i propri sogni, fino in fondo…perché, prima o poi, li realizzano.

Qualunque cosa riusciremo a fare nella vita, niente avrà mai valore quanto la nostra determinazione ad arrivare fino alla fine, nei nostri sogni.

Gabriella Grande ©

Ph: Logan Zillmer

DORA BRUDER di PATRICK MODIANO

Viene buio presto” ci avverte il Premio Nobel per la Letteratura 2014, Patrick Modiano, la cui scrittura è un vero e proprio atto di resistenza a qualsiasi forma di oblio, in questo romanzo in cui lancia appelli “ai margini della notte”, segnali di luce emanati dalle parole per sciogliere quel grumo di ignoto e di silenzio in cui si sono perse le tracce di “una ragazza di 15 anni, Dora Bruder, m 1,55, volto ovale, occhi castano-grigi, cappotto sportivo grigio, pullover bordeaux, gonna e cappello blu marina, scarpe sportive color marrone. Inviare eventuali informazioni ai coniugi Bruder boulevard Ornano 41, Parigi”.
Da questo annuncio nella rubrica intitolata “Da ieri a oggi” di un vecchio numero di Paris-Soir del 1941, e letto da Modiano quasi 50 anni dopo, prende avvio il suo faticoso atto di investigazione privata per raccogliere le tracce residue di Dora, un’adolescente ebraica di origine francese in fuga nella Parigi dell’Occupazione, forse con l’illusione di sfuggire ad Auschwitz.

L’estrema precisione dei dettagli di quell’annuncio ossessiona l’autore, attratto dai vuoti di questa storia come da un campo magnetico il cui orlo irradia una solitudine che è un richiamo, un appello. Ben poco, però, sapremo di Dora, anche al termine di questa lunga indagine durata 8 anni e dominata dalla “vertigine” di un’inquietudine che scuote nel profondo, la fatica di un pensare che si interroga senza sosta, pur consapevole del rischio ogni volta in agguato di una mancanza di risposte e di una ricerca senza ricompense.

Patrick Modiano cerca indizi, i più lontani nel tempo, effettuando ricerche in uffici, tra documenti personali, lettere, testimonianze, registri di polizia e archivi, ma dopo anni raccoglie solo lacunose ricostruzioni. Viene a conoscenza di date, trasferimenti, domicili a cui tuttavia non corrispondono più i luoghi in cui lei ha vissuto. La narrazione non presenta una struttura lineare ma si dispiega simultaneamente su diversi piani temporali.

Dimensione storica, episodi autobiografici e riferimenti intertestuali si intrecciano. L’effetto è quello di una narrazione frammentata, un’artificiosa dispersione che è essa stessa ancora una fuga, quella dell’autore, da ogni pretesa di irrigidimento del testo in categorie definite.

Del dossier documentario sviluppato nel romanzo fanno parte anche alcune foto di Dora e della sua famiglia: Modiano non le inserisce nel testo ma preferisce restituirle fin nel dettaglio attraverso una descrizione minuziosa, come se solo le parole potessero ridare dignità a quei corpi prima annientati come esseri umani, trasformati in “Stücke” (pezzi), e poi svaniti come ombre nel fumo dei forni crematori.

Se scorrerete queste pagine cercando di sapere “chi era” Dora Bruder nella sua essenza, resterete delusi. Vi sembrerà di essere stati vittime di un inganno dell’autore, vi parrà che invece di colmare un vuoto, egli lo abbia disegnato ancora più nitidamente e giudicherete questa ossessiva ricerca, vana e sterile. Ma non è così. Modiano ci offre molto altro: riconosce e restituisce una presenza, dimostra e attesta che Dora “è stata” un essere umano, con la sua identità, dignità, umanità e con un suo segreto, “povero e prezioso segreto”, che resterà per sempre silenzioso, inattingibile.
Di lei non conosceremo che il suo passaggio, intriso di “mesta tenerezza”, cosicché sembra scritto per lei il verso di Baudelaire: “Un lampo, poi la notte! – Bellezza fuggitiva” e il vuoto che lascia è ancora e di nuovo “vertigine”.

Gabriella Grande © Riproduzione riservata

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