

Sembrava che la volta fosse fatta di cielo,
stelle quelle luci.
“È bellissimo?”, mi chiedevi.
Risuonava forte nel cortile la tua voce da bambina.
Come spettatore un ulivo secolare
le cui fronde argentate spettinava il suono chiaro delle tue vocali
liberate in un volo di fresca meraviglia.
Sì, bellissimo.
Ma più del cielo il tuo stupore,
la tua sacra semplicità.
E non mi lasciavi finire di parlare,
ma, di nuovo, mi invitavi a guardare ancora e meglio:
“Di qua, di qua”, “Vi dovete spostare!”.
E attraverso la finestra della torre
di quella casa bianca
bella, come il ricordo,
io vedevo un dipinto sul soffitto,
tu il cielo che lì si era andato a riposare,
cullato dall’innocenza dei tuoi occhi scuri.
Minute le perline del tuo sorriso
e arruffati e secchi i tuoi capelli.
Nodose le tue mani di domestica laboriosa.
Piccola, come il tuo mondo di cose.
Poco hai per te,
nulla trattieni.
A te bastano quelle stelle negli occhi.
(Gabriella Grande, Antologia poetica “sChiavi diVersi”, AE, 2014)
© Riproduzione riservata
Imperdibile la mostra personale del maestro Athos Faccincani aperta dal 22 al 30 novembre alla Galleria comunale del Castello Aragonese, a Taranto. Un “percorso” tra oltre 20 oli su tela che vi condurrà in una dimensione sospesa nella quale si ha quasi l’impressione che il tempo per qualche istante si fermi: ci abbandoniamo allora ad un’ attesa quieta, ricettiva, ed accogliente come i petali di quei fiori che Faccincani ama così tanto rappresentare. Nei suoi dipinti spesso si perdono le distanze tra l’immaginazione e la realtà: le esperienze vissute e interiorizzate nella memoria, vengono poi ricreate attraverso una pittura che usa il pennello per vibrare pulsazioni di luce pura, sotto i cui impulsi sembra colorarsi anche l’oscurità. Inseguendo le immagini dei sogni, o la felicità nelle sue diverse sfumature, la ricerca artistica di Faccincani trascende ogni malinconia, e dall’aspra voce del nostro tempo fa scaturire un canto di quiete in cui sembra celarsi questa richiesta: “Impara a guardare nella luce ciò che guardi. Io l’ho fatto anche per te”. Nei suoi dipinti, prima ancora dei contorni e delle forme, ci raggiungono i colori della sua “tavolozza solare”, i cui elementi immancabili sono i blu, i gialli, i rossi, e i vermigli. Faccincani satura il tessuto della tela con pennellate dense, fitte, vibranti di un tripudio di colori rispettosi ma non sottomessi all’egida del disegno. Certe sue pennellate minute sembrerebbero quasi dettate dall’esigenza di ricordare che anche la più piccola cosa è importante nello spazio vitale della tela. Su tutto, in questo spazio, splende il sole, che con le sue limature di luce definisce e vivifica i contorni, permeando di sé ogni forma che appare. I fiori sono elementi dominanti e prediletti in Faccincani: non sono un elemento puramente decorativo, ma sono una presenza attiva, sembrano i latori di un qualche messaggio da codificare. Ad esempio, in “Verso Positano un sogno di papaveri” e in “Da uno splendido giardino Positano e luce”, i fiori appaiono come un sipario che si apre per invitarci ad entrare nel quadro, e sono un richiamo gioioso a “vedere”, suggerendo la strada che gli occhi devono seguire. Anche il mare è una presenza significativa: non un mare statico, ma “festoso” (come quando il vento ne increspa le onde in “Città dei due Mari tra luce e poesia” ). Il mare riceve e riflette la luce, le sue acque sono quasi uno specchio ipnotico, sotto cui si intravvede un fondo invitante e mai inquietante, scintilla che accende il nostro desiderio di vedere ciò che c’è oltre. Spesso, in quel mare si ripete il motivo delle barche, ormeggiate o in movimento, come tavolozze colorate impegnate nei passi leggeri di una danza delicata. Gonfie le vele, il cui riflesso nell’acqua, a distanza, le fa apparire quasi gabbiani in volo (come in “L’ulivo e la fantasia dei papaveri”): attraverso di essi il pensiero dell’artista sembra oscillare tra l’aperto dell’orizzonte sullo sfondo, e il rassicurante rifugio delle case in primo piano. Proprio le case sono l’altro elemento costante e significativo della pittura di Faccincani: nelle case da lui dipinte si ha l’impressione di percepire il respiro della gente che le abita, uomini e donne, bambini e adulti la cui presenza possiamo però solo indovinare perché in realtà nei suoi paesaggi l’artista non dipinge quasi mai persone: eppure, esse in qualche modo si “sentono”. Infatti, attraverso il “sussurro del colore”, Faccincani riesce magicamente a farci sentire anche quello che non rappresenta. Dipinge paesini e città che si dispongono in una coreografia che dilata lo spazio: siamo tutti invitati a “camminare” insieme a lui nel quadro. A questo invito ne segue un altro: “viverlo”, diventarne in qualche modo parte, perché lo scenario rappresentato attende proprio noi per essere abitato. Forse è per questo che l’artista ha dipinto sedie a sdraio vuote (come in “Angolo di luce e poesia”) e tavoli che sembrano lì pronti ad accogliere qualcuno (come in “Sognando di noi a Santorini”). Tutto è sospeso, nell’attesa che venga accolto l’invito a condividere un momento di felicità che non si perde, che resta cristallizzato sulla tela in attesa di essere riconosciuto. Se visiterete questa mostra di Faccincani non ne resterete delusi: tra i colori delle case della sua anima fiorita, vorticherà il cuore verso l’alto, in una tensione di stupore e meraviglia, come il volo dei colombi in “Poesia a Venezia fra luce e riflessi e i piccioni di sempre”.
Gabriella Grande © Riproduzione riservata
“Viviamo in balia di alcuni silenzi”: è questa la sensazione che ci coglie in questo romanzo in cui Modiano ci immerge tra le vie della Parigi dei primi anni ’60. Cinque capitoli in cui si susseguono 4 voci narranti nel tentativo di ricostruire la storia di una donna di 22 anni, costantemente in fuga, e che di sé dice:
“non ero veramente me stessa se non nel momento in cui fuggivo”.
La chiamano Louki, questa fuggitiva protagonista del romanzo, figlia di un padre ignoto e di una madre, ormai morta, che aveva lavorato come maschera al Moulin Rouge: tra loro due un’incomunicabilità interrotta solo in occasione di qualche contatto fugace e maldestro. In fuga dal suo passato e dal suo matrimonio, questa donna “piena di fascino”, ma dal profilo vago e confuso, appare come un fantasma evanescente al confronto della Parigi iperrealistica descritta dall’autore con ossessiva precisione topografica. Prendendo le distanze da ogni cosa, Louki resta fedele solo alla sua passività, al “suo posto, giù nell’angolo”, senza il coraggio e la reale volontà di affacciarsi alla “vera vita” cui aspira. La insegue sempre, ma quella vera vita è altrove o al di là, è un “orizzonte perduto” che si dà solo tra le pagine di libri impregnati di misticismo. Unico punto fermo è il caffè Le Condé, dove Louki si rifugia, mimetizzandosi tra scrittori, pseudoartisti e studenti universitari, che vivono al presente, senza progetti, secondo la regola di vita dei cosiddetti “situazionisti”. Potremo seguire all’infinito il racconto dello studente di ingegneria di cui non conosceremo il nome, di Roland, aspirante scrittore e amante di Louki, o di Pierre Caisley, l’investigatore ingaggiato dal marito per ritrovarla, ma sarà solo un’illusione quella di avanzare nella comprensione delle loro vite: esse abitano un vuoto di cui non resterà altro che qualche fotografia, un numero di telefono, e alcuni indirizzi.
Ci si inerpichi pure tra le pagine in cerca di risposte… La prima tra tutte: ma chi è veramente Jacqueline Choureau, nata Delanque, poi ribattezzata Louki dagli habitué del caffè Le Condé? Ne ricaveremo solo silenzi, paure ed ombre. Nel suo continuo vagabondare verso la deriva, Louki appare sempre più vulnerabile, impenetrabile, solitaria, evanescente. Impossibile accoglierla: ella resiste ad ogni rivelazione, arranca tra “paradisi artificiali”, s’impaluda con Roland in hotel di passaggio, attraversa “zone neutre” di Parigi, sporgendosi ogni giorno di più sul ciglio del nulla, fino all’epilogo drammatico in un giorno di novembre, in cui Louki sceglierà di uscire per sempre dalla scena del mondo.
Modiano è solo cronista della crisi del nostro tempo: ne registra fedelmente i sintomi, ma non offre soluzioni. Anche la sua è un’“arte della fuga”, fuga forse anche dalla letteratura, attraverso l’uso di un linguaggio scarno che affida le sue capacità significanti alla secca descrizione di azioni prosciugate dall’emozione. È quasi l’approdo ad una nuova forma di fotografia: un inchiostro fotografico, che può solo testimoniare la realtà dei fatti, escludendo la profondità dell’animo. A Modiano sembra basti “cercare di salvare dall’oblio”, convinto come la poetessa Daria Menicanti che “muoiono veramente quelli solo/ che vai dimenticando”. Forse! Intanto, sotto un cielo che “è come una tenda strappata di un povero circo”, se ti lasci andare, il nulla ti inghiotte nel caffè della gioventù SCONFITTA. “Nel caffè della gioventù perduta” è un romanzo desertico; proverete arsura.
Gabriella Grande © Riproduzione riservata
Pubblicato su:
http://www.sololibri.net/Nel-caffe-della-gioventu-perduta.html